USA: i cattolici votano Clinton...
I cattolici USA mostrano una forte preferenza per Hillary Clinton,
secondo un sondaggio del Pew Forum. Sono gli ispanici, secondo gli
analisti, a fare la differenza.
15/07/2016
I cattolici USA mostrano una forte preferenza per Hillary Clinton,
secondo un sondaggio del Pew Forum. Il Pew ha trovato che la Clinton
gode del 56% delle preferenze di voto rispetto a Donald Trump, che
invece totalizza solo il 39 per cento delle opinioni espresse.
Nell’ultima corsa presidenziale la situazione appariva molto più bilanciata: Obama e il senatore repubblicano Mitt Romney erano sostanzialmente pari, per quanto riguardava il voto cattolico del 2012.
Sono gli ispanici, secondo gli analisti, a fare la differenza. In quel settore infatti la candidata democratica raccoglie addirittura il 77 per cento delle preferenze; mentre a Donald Trump va appena il 17 per cento. Fra i cattolici bianchi invece è Donald Trump a condurre, con un margine di quattro punti percentuali: 50 a 46.
Complessivamente, fra i protagonisti del sondaggio del Pew, tagliato in base alla religione, Hillary Clinton guida con il 51 per cento, contro il 42 di Trump. Quest’ultimo registra il successo maggiore fra i bianchi evangelicals, che lo preferiscono (78%) in maniera massiccia rispetto alla Clinton (17 per cento). I protestanti neri invece fanno registrare una preferenza massiccia (89per cento contro l’8 per cento) per la Clinton.
Fra i votanti che vanno in chiesa ogni settimana, Trump ha un leggero vantaggio: 49 per cento contro 45 per cento. Ma la Clinton è in vantaggio fra i cattolici praticanti: 57 per cento contro 38 per cento.
A dispetto del fatto che la Clinton sia una paladina di “Planned Parenthood” l’agenzia degli aborti che negli ultimi mesi è entrata in un ciclone giudiziario e mediatico per i video “rubati” in cui si documentava che Planned Parenthood vendeva organi e parti dei bambini abortiti.
Chi è interessato al sondaggio, clicchi QUI.
http://www.lastampa.it/2016/07/15/blogs/san-pietro-e-dintorni/usa-i-cattolici-votano-clinton-5B9kLW91n2uwCKoEQulzEJ/pagina.html
Nell’ultima corsa presidenziale la situazione appariva molto più bilanciata: Obama e il senatore repubblicano Mitt Romney erano sostanzialmente pari, per quanto riguardava il voto cattolico del 2012.
Sono gli ispanici, secondo gli analisti, a fare la differenza. In quel settore infatti la candidata democratica raccoglie addirittura il 77 per cento delle preferenze; mentre a Donald Trump va appena il 17 per cento. Fra i cattolici bianchi invece è Donald Trump a condurre, con un margine di quattro punti percentuali: 50 a 46.
Complessivamente, fra i protagonisti del sondaggio del Pew, tagliato in base alla religione, Hillary Clinton guida con il 51 per cento, contro il 42 di Trump. Quest’ultimo registra il successo maggiore fra i bianchi evangelicals, che lo preferiscono (78%) in maniera massiccia rispetto alla Clinton (17 per cento). I protestanti neri invece fanno registrare una preferenza massiccia (89per cento contro l’8 per cento) per la Clinton.
Fra i votanti che vanno in chiesa ogni settimana, Trump ha un leggero vantaggio: 49 per cento contro 45 per cento. Ma la Clinton è in vantaggio fra i cattolici praticanti: 57 per cento contro 38 per cento.
A dispetto del fatto che la Clinton sia una paladina di “Planned Parenthood” l’agenzia degli aborti che negli ultimi mesi è entrata in un ciclone giudiziario e mediatico per i video “rubati” in cui si documentava che Planned Parenthood vendeva organi e parti dei bambini abortiti.
Chi è interessato al sondaggio, clicchi QUI.
http://www.lastampa.it/2016/07/15/blogs/san-pietro-e-dintorni/usa-i-cattolici-votano-clinton-5B9kLW91n2uwCKoEQulzEJ/pagina.html
Del prossimo appuntamento elettorale statunitense hanno discusso mercoledì 6 luglio a Roma, presso la Stampa estera, il giornalista Andrew Spannaus – autore di “Perché vince Trump” – e i politologi Lucio Martino e Germano Dottori. Tante le domande inquietanti. Per l’Italia (e per l’Europa) sarebbe meglio vincesse Trump contro una Hillary Clinton intenzionata a provocare e umiliare la Russia di Putin.
Non ha certo buttato via il suo tempo chi ha deciso di dedicare un’ora e mezzo dell’afoso pomeriggio di mercoledì 7 luglio al tema delle prossime elezioni presidenziali americane. Se n’è discusso in modo vivace e ‘non allineato’ a Roma, presso la Stampa estera, prendendo spunto dal recente libro del giornalista statunitense Andrew Spannaus intitolato un po’ provocatoriamente “Perché vince Trump” (ed. Mimesis, Milano-Udine). Con l’autore hanno alimentato il dibattito Lucio Martino (Institue for Pubblic Affairs, John Cabot University) eGermano Dottori (Studi strategici, Luiss Guido Carli), moderati da Roberto Montoya, segretario dell’Associazione stampa estera.
In sintesi, per citare Spannaus, gli USA stanno vivendo un duello inedito tra un’esponente storica dell’ establishment e un magnate che si è posto come simbolo dirompente dell’anti-casta, ma che, se eletto, tenderebbe al pragmatismo. Se dovesse vincere Trump, per l’Italia e per l’Europa sarebbe meglio: “L’Europa è in grado di sopravvivere a quattro anni di Trump e anche di prosperare” – ha detto Germano Dottori – “La Clinton invece ci renderebbe molto difficile qualsiasi apertura alla Russia di Putin”. Lucio Martino non scorge somiglianze tra Trump e Reagan, forse qualcuna con il pragmatico Nixon, di più con l’ex-attore e governatore della California Arnold Schwarzenegger. In qualche aspetto Trump può essere accostato anche a Grillo. Quanto al parallelo, che sembra per certi versi “facile”, con l’ascesa di Silvio Berlusconi,Spannaus ha evidenziato che Berlusconi nella sua impresa fu appoggiato subito da tutte quelle forze istituzionali che non volevano i comunisti in versione Pds al potere; l’ascesa di Trump è invece avvenuta contro le forze istituzionali, compreso il proprio partito, i cuileader sono stati travolti dal magnate anti-sistema. Come ha detto lo stesso Trump assai semplicisticamente: “L’unico antidoto a decenni di governo disastroso da parte di una piccola élite è un’infusione marcata di volontà popolare. Su ogni questione che affligge questo Paese, il popolo ha ragione e l’élite di governo ha torto”.
Segnaliamo ora altri spunti di riflessione emersi dall’incontro.
Per Lucio Martino Donald Trump è anche l’emblema di una crisi particolare e preoccupante: quella del sistema di integrazione statunitense, per cui si è passati da una società multietnica (ogni nuovo immigrato diventa in primo luogo americano, adottando lo stile di vita yankee e relegando in secondo piano la cultura d’origine) a una multiculturale, in cui ogni immigrato conserva ben visibile il proprio ‘marchio’ etnico. Ciò facendo, si stanno forse minando le fondamenta degli Stati Uniti?
“Non mi angoscerebbe una vittoria di Trump, mi angoscerebbe quella di Hillary Clinton per i riflessi sulla politica estera degli Stati Uniti”: così Germano Dottori. La Clinton mostra una “marcata propensione” alla politica interventista dei cambi di regime: l’Europa ha invece bisogno di una presidente USA che agisca sul piano della stabilità, il contrario di quanto fatto fin qui dall’ex-Segretario di Stato americano del primo quadriennio di Obama.
Per Dottori la sfida tra Trump e Hillary Clinton non è ideologica, quella di un ‘conservatore’ contro una ‘progressista’, come piace evidenziare alla stampa nazionale internazionale “che si abbevera alle fonti estere”. Ad esempio i “neo-conservatori” sono con la Clinton, mentre alcuni sostenitori di Bernie Sanders (democratico, molto di sinistra e anti-casta) potrebbero votare per Trump. In quale viene dipinto molto spesso secondo stereotipi superficiali che non danno ragione del grande successo ottenuto negli Stati Uniti dal magnate immobiliare e proprietario di casinò.
“Trump è un uomo d’affari e dunque molto pragmatico”, ha rilevato Andrew Spannaus. Vuol “fare accordi” anche con Putin. Le sue argomentazioni sono fondate sulle difficoltà quotidiane di tanti americani, anche della classe media: “E’ inutile spendere cinque trilioni di dollari per rovinare il Medio Oriente. Potevamo usare questi soldi per ricostruire strade e ponti negli Stati Uniti”.
Anche alla base della sua insistenza nella richiesta di erigere un muro lungo l’intera frontiera con il Messico ci sono importanti motivi economici, che si possono sintetizzare nella frase: “I messicani che entrano negli Stati Uniti vi rubano il posto di lavoro”. Ha qui osservatoGermano Dottori: “Un muro con il Messico c’è già oggi, l’ha visto anche il Papa e la sua prima pietra è stata posta da… Bill Clinton!”. Per Trump è anche un fatto di ristabilimento della legalità contro l’immigrazione clandestina. Ma non si può ignorare un altro aspetto della questione: “La diaspora del Messico incomincia a diventare un rischio per l’integrità territoriale nazionale statunitense”, dato che i messicani popolano soprattutto quegli Stati che un tempo appartenevano al Messico e a un certo momento potrebbero sorgere lì rivendicazioni di ritorno alla Madrepatria.
Concordi i relatori sul fatto che i toni e i contenuti delle dichiarazioni pubbliche di Trump obbediscono a una precisa strategia di presenza nelle prime pagine dei massmedia. Non appartenendo all’establishment, per “farsi sentire” Trump ha scelto tale strategia che comprende anche giudizi molto offensivi per diverse categorie di cittadini americani, dai latinos alle donne ai musulmani. E’ un linguaggio francamente spesso inaccettabile, ma è studiato per dare soddisfazione alla rabbia di un’altra parte dell’opinione pubblica statunitense, quella che gli errori economici e sociali della ‘casta’ hanno impoverito enormemente. Come ha annotato Andrew Spannaus, l’uomo è anche spesso imprevedibile: ci si chiede se sia in grado di controllarsi, di fare il Presidente… e fin qui “ancora non ci siamo”, anche se il suo pragmatismo potrebbe essere per certi versi rassicurante. Per Germano Dottori l’esperienza dimostra che spesso i leader politici europei di caratteristiche ‘muscolari’, quando raggiungono il potere, “in realtà tendono a smussare gli aspetti più spigolosi del loro programma”.
Sul tema della devastazione antropologica promossa dall’imposizione dell’agenda della nota lobby Lgbt, ha osservato Lucio Martino che la Clinton e Trump sono ambedue più vicini a una visione liberal (nel senso americano del termine) che cristiano-evangelica. Tuttavia la prima è certo più impegnata come ‘icona’ del movimento Lgbt ( e sui suoi trascorsi ‘filosofici’ giovanili si legga un interessante articolo di Marco Respinti sul numero di luglio de “Il Timone”), il secondo è più attento invece a una delega ai diversi Stati che compongono gli Usa delle controversie persistenti su tale problematica. Si deve ancora notare – ha rilevato Andrew Spannaus – che in questa campagna elettorale presidenziale i temi al primo posto sono quelli con implicazioni economiche e di politica estera ed è su questi che fa leva quotidianamente Trump.
Di Hillary Clinton è stata più volte ricordata la propensione verso una politica estera statunitense molto aggressiva verso la Russia e in Medio Oriente. Del resto, quand’era Segretario di Stato, la Clinton era favorevole ad armare le cosiddette milizie ribelli moderate in Siria e aveva premuto per l’ intervento in Libia (da senatrice aveva votato per l’intervento in Iraq). In Ucraina la sua ex-portavoce Victoria Nuland ha istigato il colpo di Stato all’inizio del 2014. Ora la Clinton vedrebbe con favore anche un intervento per un cambio di regime in Bielorussia, per mostrare la faccia feroce a “quei mostri cattivi” di russi.. Sostiene l’ingresso della Turchia nell’Unione europea, è molto amica del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, per le stranezze della politica coltiva assai anche i “Fratelli Musulmani”: chi ha tenuto l’orazione funebre per Muhammad Alì (Cassius Clay) se non un certo Bill Clinton?
Insomma: l’elettore statunitense avrà la possibilità di scegliere tra un’esponente gelida e cinica dell’ establishment politico, economico, finanziario, culturale e un magnate dal passato dubbio, apparentemente scarso di competenze, grossolano nei modi, fin qui anche poco equilibrato. Non è una scelta facile tra due ‘peggiori’. Per fortuna non siamo americani.
ELEZIONI USA/ LETTURA CONTROCORRENTE DELLA LOTTA TRA DUE ‘PEGGIORI’ – di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 7 luglio 2016
QUALCOSA ANCORA SU HILLARY CLINTON ( E AMNESTY INTERNATIONAL)
Dopo l’articolo sui ‘peggiori’ in lotta per la presidenza degli Stati Uniti, alcuni lettori ci hanno chiesto di approfondire il discorso su Hillary Clinton. Eccoli accontentati, anche attraverso qualche citazione tratta dalla biografia scritta da Diana Johnstone (Zambon Editore) dal titolo: “Hillary Clinton, regina del caos”. Il nuovo e tristo ruolo di organizzazioni come ‘Amnesty International’. Intanto a Mosca incontro del metropolita Hilarion con la Fondazione cattolica ‘Urbi et Orbi’, guidata da Bob Moynihan.
L’ultimo articolo di www.rossoporpora.org dedicato a un incontro alla Stampa Estera di Roma sulle elezioni presidenziali statunitensi (Elezioni USA/ Lettura controcorrente della lotta tra due ‘peggiori’ ) ha indotto alcuni lettori a chiederci di approfondire il ‘personaggio’ Hillary Clinton.
E’ così che abbiamo cercato di soddisfare almeno parzialmente il loro desiderio, ricavando e nostre informazioni, tra l’altro, da una biografia della candidata statunitense, edita quest’anno in traduzione italiana da Zambon Editore e intitolata: “Hillary Clinton, regina del caos”. Ne è autrice la ‘progressista’ americana Diana Johnstone (da anni vive a Parigi), già addetto-stampa del gruppo dei Verdi al Parlamento europeo, poi reporter indipendente dalla ex-Jugoslavia. Nel libro la Johnstone evidenzia, fondandosi su una documentazione molto ampia e dettagliata, i meccanismi della politica americana e il suo obiettivo fondamentale – che la Clinton non solo condivide, ma propugna con una forza che è pari al suo cinismo – di un nuovo ordine mondiale guidato da una sola superpotenza che persegue i suoi interessi, impone all’orbe i cosiddetti suoi ‘valori’e conseguentemente elimina o almeno indebolisce le varie sovranità nazionali. Agli esempi più fulgidi di tale modello di politica internazionale l’opera di Diana Johnstone dedica diversi capitoli, tutti densi di informazioni documentate.
Per quanto riguarda la ex-Jugoslavia (“Il ciclo di guerre dei Clinton”), l’autrice evidenzia come da subito gli Stati Uniti abbiano appoggiato in Bosnia-Erzegovina la parte musulmana e nei confronti della Serbia abbiano praticato una politica molto aggressiva, bombardandola e creando quell’entità territoriale (in cui storicamente è nata la Serbia ortodossa) chiamata Kosovo. Che così viene definita dalla Johnstone: “Il Kosovo non è pienamente indipendente, né un vero Stato. Rimane tuttora sotto occupazione straniera, non ha un proprio sistema giudiziario funzionante e la sua economia poggia sul crimine”. In ogni caso “per i Clinton, il Kosovo rappresentò un diversivo rispetto ai loro scandali privati e un’occasione per salire sul palcoscenico delle grandi questioni mondiali. In Kosovo Bill Clinton è venerato come il padre fondatore di questo piccolo protettorato Usa strappato alla Serbia. Una statua dorata alta tre metri del benefattore venuto dall’Arkansas saluta i passanti in viale Bill Clinton, nei pressi di una boutique chiamata Hillary”.
L’AFFIDABILITA’ DI HILLARY CLINTON
Del ‘successo’ nell’ex-Jugoslavia la Clinton si è sempre vantata, come durante le primarie del 2008 del Partito democratico, quando volle ricordare ai suoi ascoltatori un momento bosniaco da lei vissuto a Tuzla come First Lady. Si legge in “Hillary Clinton regina del caos”: “Ricordo molto bene quel viaggio in Bosnia - diceva al pubblico – Alla Casa Bianca girava voce che se una località era troppo piccola, troppo povera o troppo pericolosa, il presidente non poteva andarci – perciò ci mandavano la First Lady. Ricordo quando atterrammo sotto il fuoco dei cecchini. Avrebbe dovuto esserci una sorta di cerimonia di benvenuto all’aeroporto, ma invece ci limitammo a correre a testa bassa fino ai veicoli che ci avrebbero condotti alla nostra base”. Peccato che l’agitazione fosse un falso, come dimostrarono le riprese televisive: Hillary giunse a Tuzla con la figlia Chelsea, “accolta da bambini che le offrivano fiori”. Così l’allora First Lady si difese qualche giorno dopo: “Direi che si tratta di una piccola svista, cioè, se ho detto qualcosa che…Cioè, dico un sacco di cose – milioni di parole al giorno – perciò se ho detto qualcosa di sbagliato si è trattato solo di una dichiarazione inesatta”. Difesa più che goffa, sapendo che i combattimenti in Bosnia erano cessati da qualche mese, dopo la firma degli accordi di pace di Dayton (21 novembre 1995). Ma, osserva la Johnstone, “evidentemente Hillary riteneva che agli occhi delle masse un’esperienza sotto il fuoco avrebbe accresciuto le sue credenziali di aspirante Comandante in Capo”.
Si potrebbe andare avanti per molto con il racconto quasi inesauribile delle ‘prodezze’- con conseguenze tragiche per centinaia di migliaia di persone - di Hillary Clinton, dalla Siria all’Ucraina (tutto in funzione anti-russa). Per quanto riguarda la Libia – 2011, una guerra da lei fortemente perseguita - interpellata qualche giorno dopo sul significato dei bombardamenti internazionali disse: “…cerchiamo di essere onesti. Non ci hanno attaccati, ma ciò che stavano facendo, la storia di Gheddafi e i rischi di devastazioni e instabilità toccavano decisamente i nostri interessi… e i nostri amici europei e i nostri partner arabi consideravano queste questioni come estremamente vitali per i loro interessi”. Peccato che delle “atrocità di massa perpetrate dal governo libico contro il proprio popolo” come aveva denunciato Sliman Bouchuiguir (Segretario generale della Lega libica per i diritti umani ed esperto di politiche petrolifere, legatissimo agli Stati Uniti) “non c’erano prove” (affermazione dello stesso Bouchuiguir, diventato ambasciatore libico in Svizzera, qualche mese dopo). Da notare la reazione di Hillary Clinton quando giunse la notizia che Gheddafi era stato ucciso. Scrive la Johnstone: “Informata dalla sua assistente (Ndr: musulmana) Huma Abedin che Gheddafi era stato ucciso, Hillary eruppe in un infantile Wow!, per poi parafrare l’archetipo dell’imperialista, Giulio Cesare: Siamo venuti, abbiamo visto, è morto! Dopo di che scoppiò a ridere di gioia”.
LO SMART POWER DI HILLARY CLINTON
Nel libro “Scelte difficili” Hillary Clinton ha raccontato le sue esperienze da Segretario di Stato, ispirate alla filosofia dello smart power(‘potere intelligente’). In che cosa consiste? “Smart power significa scegliere la giusta combinazione di strumenti – diplomatici, economici, militari, politici, legali e culturali – per ogni situazione”. Un discorso che vale particolarmente, nell’ottica di Hillary, per i rapporti con la Russia di Putin, il ‘grande nemico’ da indebolire cogliendo qualsiasi occasione. Esemplare il caso delle Pussy Riot, gruppo di donne provocatrici di filiazione anarchica. Ricorda la Johnstone: “Il 21 febbraio 2012 cinque giovani donne, in abiti succinti e sgargianti e con il volto coperto da passamontagna, irruppero nella cattedrale di Cristo Salvatore nel centro di Mosca e presero posto davanti all’altare maggiore. Iniziarono quindi a urlare oscenità, chiamando ‘puttana’ il Patriarca della Chiesa russa ortodossa e inserendo espressioni scatologiche all’interno delle frasi della liturgia. Le donne erano accompagnate da operatori che ripresero la performance…Le donne si diedero alla fuga, ma in marzo furono arrestate tre esponenti del gruppo (…) e il 30 luglio 2012 processate per ‘vandalismo’ di gruppo’… Prima dei giochi di Sochi Putin concesse l’amnistia”.
AMNESTY INTERNATIONAL SOTTO IL CONTROLLO DIRETTO DELLA CASA BIANCA
Ricordate la grande mobilitazione internazionale a favore delle cosiddette ‘artiste’? Paul McCarney, Madonna e una certa Amnesty International, da poco guidata da Suzanne Nossel (dopo tre anni passati al Dipartimento di Stato con Hillary Clinton, quale vice-sottosegretario per le Organizzazioni internazionali con responsabilità per i diritti umani a livello internazionale). Come reagì Amnesty International alla volgare e offensiva esibizione delle Pussy Riot? Per prima cosa alle ‘artiste’ fu conferito lo status di ‘prigioniere di coscienza’. Il fatto divenne poi occasione di una massiccia campagna mondiale “per i diritti umani”. Nei volantini di Amnesty Internationalsi leggeva: “Masha, Nadia e Maria, che sono detenute per aver intonato pacificamente una canzone di protesta in una cattedrale, potrebbero essere spedite in un campo di lavori forzati in Siberia, dove correrebbero il rischio di subire stupri e altri abusi (…) Aiutaci a spedire un camion di passamontagna colorati al presidente Putin in segno di protesta. La sentenza di oggi è emblematica dei crescenti sforzi del presidente Putin e dei suoi scherani atti a soffocare la libertà di parola in Russia. (…) Dona un minimo di 20 dollari per spedire un passamontagna a Putin”.
Il 16 settembre 2012 Suzanne Nossel mandò un messaggio a milioni di persone in cui diceva: “Amnesty International sta collaborando direttamente con i legali e i familiari delle Pussy Riot per fare la massima luce possibile su questo caso (…) Il trattamento delle Pussy Riot da parte della Russia evidenzia una stretta sulle libertà e una mancanza di disponibilità a rispettare i diritti umani cui è necessario reagire. Oltre ad attuare un giro di vite entro i confini russi, il presidente Putin continua a sostenere l’alleata Siria, malgrado le prove sempre più numerose dei crimini contro l’umanità commessi dal governo siriano. Dobbiamo alzare il volume”. Il proclama della Nossel si salda (ecco lo smart power ) con la dichiarazione di Hillary Clinton, sempre del 2012: “Io credo che la Russia e la Cina non stiano pagando alcun prezzo – assolutamente nessuno – per il sostegno da loro prestato al regime di Assad. L’unico modo per fare sì che questa situazione cambi è che ogni nazione chiarisca espressamente e urgentemente che la Russia e la Cina dovranno pagare un prezzo”. Da notare anche che il 17 aprile 2014, dopo che le Pussy Riot incarcerate erano state rilasciate e si trovavano a New York, Hillary Clinton volle fare una foto con loro, che pubblicò su Twitter accompagnata dal seguente messaggio: “Grandioso incontrare le forti e coraggiose ragazze delle Pussy Riot, che non permettono che le loro voci siano messe a tacere in Russia”. Un discorso analogo si potrebbe fare anche per le Femen ucraine guidate da Inna Shevchenko, nota per aver abbattuto nel 2012 a colpi d’ascia una grande croce di legno a Kiev e per essere scappata in Francia (subito concesso il diritto d’asilo), dove il gruppo continuò con le sue provocazioni come l’imbrattare con vernice spray le carrozzine con i bambini, spinte dalle famiglie della Manif pour tous o l’irrompere sacrilego in Notre Dame.
LA TRISTA METAMORFOSI DI ‘AMNESTY INTERNATIONAL’
Scrive la Johnstone: “C’era una volta un’organizzazione chiamata Amnesty International impegnata a difendere i prigionieri di coscienza in tutto il mondo. Le sue attività erano caratterizzate da due principi che contribuirono al suo successo: la neutralità e la discrezione (…) Le campagne erano discrete ed evitavano la polemica ideologica, concentrandosi invece sulla condizione legale e fisica di tutti i detenuti. L’obiettivo non era utilizzare i prigionieri come pretesto per inveire contro un governo ‘nemico’, ma persuadere i governi a smettere di perseguitare i dissidenti nonviolenti”. Oggi, invece , “le organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International e Human Rights Watchvengono arruolate non per difendere specifici prigionieri politici, ma per denunciare interi governi quali violatori dei diritti umani” (…) Nella sua nuova incarnazione Amnesty International, come Human Rights Watch e altre organizzazioni ‘umanitarie’ occidentali, ha cessato di operare una distinzione tra i veri prigionieri i coscienza e i provocatori semi-professionali, le cui azioni non hanno altro scopo che metterli nei guai con le autorità, così da poter bollare come repressivi i governi presi di mira”.
Vedi, aggiungiamo noi, la trista sceneggiata della nota o del noto Luxuria a Sochi. Certo, perché in Italia Amnesty International e organizzazioni analoghe si sono trasformate in zelanti servitrici della nota lobby, pilastro delle teorie clintoniane. Sì fattivo (con mobilitazione connessa) a ogni sorta di presunti ‘diritti umani’ (dall’aborto a tutto quanto ruota attorno al ‘matrimonio gay’) con parallela denuncia di chi pubblicamente trova ancora la forza e il coraggio di proclamare la verità dei valori su cui si fonda la civiltà europea.Amnesty International è cambiata e non merita più nessun sostegno. Ne ha ricevuti in abbondanza, ne riceve e ne riceverà da Hillary Clinton e compagni finanziatori.
INCONTRO A MOSCA TRA IL METROPOLITA HILARION E LA FONDAZIONE AMERICANA URBI ET ORBI GUIDATA DA BOB MOYNIHAN
Ci piace infine dar notizia di un recentissimo incontro a Mosca, nella sede del Patriarcato, tra il metropolita Hilarion e una delegazione della fondazione Urbi et Orbi (che mira allo sviluppo sempre piè fecondo dei rapporti tra cattolici e ortodossi), guidata da Bob Moynihan, che è anche direttore del mensile ‘Inside the Vatican’. Riportiamo (in traduzione italiana) il comunicato, così com’è apparso nel sito del Patriarcato di Mosca.
“Il 7 luglio 2016 il metropolita Hilarion di Volokolamsk, capo del Dipartimento delle relazioni religiose esterne del Patriarcato di Mosca (DECR), ha incontrato in sede una delegazione della Fondazione cattolica Urbi et Orbi guidata dal dottor Robert Moynihan, editore e direttore del mensile Inside the Vatican.
Il metropolita Hilarion ha evidenziato l’importanza della cooperazione bilaterale con la Chiesa Cattolica, espressa nel sostegno ai cristiani in Medio Oriente e in altre regioni del mondo, laddove essi sono soggetti a persecuzioni, nella difesa dei valori morali tradizionali e nello sforzo comune per il conseguimento della pace nei conflitti esistenti sulla terra: “Oggi le nostre Chiese conoscono una collaborazione crescente in molte aree. E’ in tale contesto che noi consideriamo i nostri contatti con la FondazioneUrbi et Orbi”, ha detto il metropolita.
Gli ospiti hanno ringraziato il metropolita per l’ospitalità ed espresso piena disponibilità a sviluppare le relazioni tra la Fondazione Urbi et Orbi e la Chiesa Ortodossa Russa in ambito culturale, scientifico e sociale.“
QUALCOSA ANCORA SU HILLARY CLINTON (E AMNESTY INTERNATIONAL) – di Giuseppe Rusconi – www.rossoporpora.org – 13 luglio 2016
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