È la voce del colonnello Karl Fritzsch a scuotere i detenuti del Blocco 14 di Auschwitz la sera del 29 luglio 1941: “Poiché il prigioniero che ieri è fuggito non è stato ritrovato, dieci di voi andranno alla morte”. Tra i selezionati dal gerarca nazista c’era anche il sergente Franciszek Gajowniczek, terrorizzato al solo pensiero di non rivedere più moglie e figli. A offrirsi al suo posto è il quarantasettenne sacerdote polacco padre Massimiliano Maria Kolbe, che finirà insieme agli altri nuove uomini nella cella della morte. Dopo due settimane di stenti, senza cibo né acqua, padre Kolbe e pochi altri compagni sono ancora vivi. E così è un’iniezione di acido fenico che il 14 agosto 1941 pone fine alla vita del francescano, poi beatificato da Paolo VI e canonizzato da Giovanni Paolo II. “È un vero figlio di san Francesco, di cui ha saputo cogliere lo spirito” afferma fra Marco Tasca, ministro generale dei Frati minori conventuali, al cui Ordine apparteneva padre Kolbe: “Penso al XVI capitolo della Regola non bollata, dove si legge che i frati che vanno tra chi non crede hanno due modi per testimoniare la loro fede. Il primo è che si vogliano bene. Poi, quando il Signore vorrà, potranno annunciare anche il Vangelo”.
A settantacinque anni dalla morte, l’Europa attraversa nuovamente tempi difficili: terrorismo, immigrazione, muri che tornano a innalzarsi e populismi che dilagano. Non è cambiato niente da allora?
La secolarizzazione avanza minacciosa e l’Europa procede verso la scristianizzazione. Dobbiamo rendercene conto, anzi lo avremmo dovuto fare già da anni. Le due guerre mondiali sono state combattute da cristiani. La prima addirittura tra cattolici, la seconda con protestanti e ortodossi. Fratelli che si ammazzano. Abbiamo faticato a comprendere la realtà, da allora ad oggi, proseguendo con il solito cliché senza spostarci neanche di un millimetro. Kolbe, invece, ha colto la provocazione che veniva dal mondo e ha immaginato una risposta. È un compito che ancora adesso è affidato a noi.
Alcuni eventi della storia non li abbiamo presi sul serio.

In Italia, ad esempio, abbiamo perso il referendum sul divorzio quando la stragrande maggioranza degli italiani era cattolica. Qualcosa non funziona, le persone votano in base a come vivono e non a quel che pensano. Se si vive una vita senza Dio, si vota senza Dio. È quanto accaduto ai giorni nostri giorni in Irlanda, dove i cattolici sono l’87 per cento della popolazione.
Dunque, c’è anche una responsabilità della Chiesa?
Manca una lettura spirituale della storia. C’è un messaggio per noi credenti? Certo che sì. Ma se leggo gli eventi soltanto con occhi filosofici, sociologici o politologici, non saprò mai muovermi nella realtà. Occorrono uomini che sappiano interpretare i tempi. Durante i conflitti del Novecento, abbiamo mandato i cappellani al fronte ma è evidente che la fede non ha inciso nella vita. Perché se ammazzo un fratello solo perché vive al di là del confine, la mia fede è fragile.
Nell’ottobre del 1917, padre Kolbe concretizza il sogno di fondare la 
Di fronte al dilagare della massoneria, Kolbe inventa un’associazione internazionale di fedeli che noi pensiamo essere una pia unione, ma in realtà era ed è un movimento di azione. Oggi la Milizia è composta da oltre tre milioni di persone in circa 50 Paesi. Con una distinzione da fare, come per ogni opera della Chiesa, tra nord e sud del mondo. Nel nord, infatti, è ancora diffusa la tendenza votiva: ci si trova per pregare e riflettere, che sono senz’altro cose buone. Nel sud del mondo, però, trovo che ci sia una vivacità incredibile, soprattutto in America Latina. In Brasile, la Milizia è assai attiva anche nei mass media. La preoccupazione è uscire dalle sagrestie.
È ancora efficace, dunque, la missione della Milizia?
È una realtà con quelle caratteristiche di annuncio e carità che oggi possono essere decisive.
Protagonisti sono i laici. Il mio desiderio è che essi prendano in mano la direzione della Milizia: i frati partecipano, ma l’associazione è dei fedeli. Dobbiamo preparare i laici perché possano prendere in mano questa istituzione.
È un sogno che porto avanti da anni, con qualche fatica. Costruire un gruppo di laici e di laiche innamorati del Signore e della missione.
Tra gli scopi della Milizia, quello di “procurare la conversione dei peccatori, degli eretici, degli scismatici ecc., in particolar modo dei massoni; e la santificazione di tutti, sotto il patrocinio e per la mediazione della B.V.M. Immacolata”. È così diffusa la massoneria anche oggi?
Ha ancora un potere enorme, con presenze e pressioni a tutti i livelli. Kolbe ha preso in mano la situazione, con i suoi metodi. Non ha lasciato che le cose andassero per conto loro. E noi dobbiamo confrontarci tuttora con essa.


Padre Kolbe è il primo “martire della carità”. Eppure, il processo di canonizzazione non è stato esente da difficoltà…
Lo scorso dicembre sono stati beatificati due nostri martiri in Perù, Michał Tomaszek e Zbigniew Strzałkowski, uccisi dai terroristi di Sendero Luminoso insieme al sacerdote diocesano italiano Alessandro Dordi. Gli assassini non tolleravano il loro impegno per le famiglie povere. Al tempo di Kolbe, invece, il martirio era inteso soltanto in odium fidei. Ma come si può mettere insieme il fatto che in Argentina uccidano un mio frate e che l’assassino sia un uomo che andava a messa ogni giorno? Evidentemente esiste uno stile di vita cristiano in contrapposizione al Vangelo. E noi
tante volte abbiamo relegato la nostra fede a credenza, a pratiche e comportamenti che non intaccano la persona.
Abbiamo confuso i valori cristiani, che sono dati anche dallo stile di vita. Essere battezzati non è un salvacondotto. Oggi si è finalmente compreso che il martirio non è soltanto in odio alla fede. Ci sono persone che vengono uccise per le loro azioni nel nome del Signore. I miei frati, quando i guerriglieri sono entrati nel convento dove erano presenti i giovani in formazione, hanno subito detto: “Lasciate andare i ragazzi, ci siamo noi”. Questo è martirio.
Cosa rappresenta la figura di padre Kolbe per i Frati conventuali?
Ha incarnato alcune caratteristiche della vita francescana. La prima è la passione missionaria, che è attuale e fondamentale. Quest’uomo non è stato tranquillo nella sagrestia, è partito e si è dato da fare uscendo fuori da un ambiente sicuro. Ha fondato una casa editrice, è vissuto in Giappone. È uscito dal suo contesto, nonostante avesse seri problemi di salute. Dovremmo inquadrare Kolbe all’interno di una mariolatria, lui che era così devoto alla Madonna nella quale riponeva grande fiducia.
La lettura sdolcinata della sua vita, che spesso se ne dà, non è reale. Ha saputo rispondere coraggiosamente alla chiamata. E noi, adesso, viviamo in un mondo che ci chiede di abbandonare la pastorale di conservazione per una decisamente missionaria.
È un aspetto decisivo per noi Frati minori conventuali. Uscire.
L’intraprendenza di padre Kolbe è stata sostenuta dai confratelli?
Non tutti gli hanno battuto le mani. Anche tra i superiori, non ha ricevuto soltanto applausi. Ci sono lettere non pubblicate in cui veniva scoraggiato in tanti suoi progetti. Ha dovuto combattere per raggiungere i risultati che si era prefisso. Nella Polonia di quel tempo, uscire dalle chiese non era nemmeno pensabile. Si è sempre affidato, anche di fronte alle difficoltà, a Maria. Ogni sua azione era vissuta in spirito di libertà, non come qualcosa di personale da difendere.