NON QUESTA MUSICA, RAGAZZI !
Che cosa vuol dire educare cristianamente i giovani? G.d.G. (Cattolica): il segreto di pulcinella che tutti conoscono ma di cui nessuno parla. Vale la pena di riempire le piazze se il messaggio che passa è di permissivismo
di F. Lamendola
Non questa musica, ragazzi!
Che cosa vuol dire educare cristianamente i giovani? Che cosa vuol dire avvicinare i giovani al Vangelo? Ce lo domandiamo dopo che la Giornata Mondiale della Gioventù, nata da un’intuizione di Giovanni Paolo II, nel 1985, è giunta, con quella di Cracovia, appena conclusasi nella fine di luglio del 2016, alla sua trentunesima edizione. Specialmente nelle ultime edizioni, quella di Madrid del 2011 (quando c’era ancora il pontificato di Benedetto XVI), e quella di Rio de Janeiro del 2013, tenutasi sulla spiaggia di Copacabana, hanno registrato, sì, presenze massicce di ragazzi provenienti da ogni parte del mondo, ma anche, a nostro giudizio, spettacoli poco edificanti di confusione, eccitazione, disordine e promiscuità, che ricordano più il clima delle notti selvagge in discoteca o dei raduni spettacolari in occasione di concerti rock, che non quello che sarebbe lecito aspettarsi nel contesto di un evento di matrice specificamente e dichiaratamente cristiana e cattolica, sotto la supervisione dei vescovi e con la presenza Sommo Pontefice in persona.
Ci domandiamo: dov’erano i pastori del gregge, mentre non pochi di quei ragazzi si abbandonavano a comportamenti sconcertanti e tutt’altro che castigati, tutt’altro che spirituali, tutt’altro che in linea con la morale cattolica? Forse erano anch’essi troppo impegnati a ballare e cantare, come si è visto in Brasile, nella passata edizione, sguaiatamente e disordinatamente, sulla riva del mare, forse non troppo sobri? Forse si erano talmente infervorati nel clima quasi orgiastico delle grandi folle giovanili, da scordarsi completamente la loro precisa responsabilità di guide spirituali? Si dirà che ogni Paese ha le sue tradizioni e che non si poteva pretendere, nel Paese del Carnevale di Rio e della samba, che qualcosa di quella attitudine psicologica e culturale non filtrasse nel cuore di una manifestazione come la Giornata Mondiale della Gioventù. Benissimo. Ma, a parte il fatto che certe scene, poco coerenti con la purezza cristiana, si sono viste anche a Roma, a Toronto, a Colonia, a Sydney, e soprattutto a Madrid, resta la domanda: in che cosa si differenzia un raduno della gioventù cattolica da un qualsiasi evento mondano della cultura giovanile di massa? Che cos’è a fare la differenza, o cosa dovrebbe esserlo, se non, appunto, la capacità di autocontrollo, la sobrietà dello stile, e, più di ogni altra cosa, la forte connotazione in senso spirituale, grazie alle quali un estraneo dovrebbe percepire immediatamente, nella realtà delle cose, la differenza in questione? In altre parole: se non si notano differenze apprezzabili fra un disordinato raduno di musica rock ed uno della gioventù cattolica, che cosa dovrebbe indurre un giovane a riconoscere una diversa qualità del secondo rispetto al primo? E che cosa segnerebbe una diversità nella sua esperienza interiore, cosa gli offrirebbe un arricchimento spirituale, l’avervi partecipato?
Sappiamo benissimo che è molto difficile gestire in maniera ordinata eventi di quelle dimensioni. Quando centinaia di migliaia di ragazzi arrivano da ogni parte del mondo, nel caldo dell’estate, e hanno bisogno di tutto, di cibo e acqua fresca, di un luogo dove dormire, dell’accesso ai servizi igienici, è chiaro che ci si trova in presenza di problemi logistici, organizzativi e finanziari enormi, e che diventa arduo andare troppo per il sottile. Può darsi. Tuttavia, se le cose stanno così, ci domandiamo se il gioco vale la candela; se si tratta della formula giusta, della maniera appropriata per fare un discorso cristiano ai giovani, per attirarli alla bellezza e alla verità del Vangelo. Se la legge dei grandi numeri, inevitabilmente e salve restando la buona volontà e la retta intenzione di tutti, rende impossibile che si crei un clima ordinato e favorevole al raccoglimento interiore; se la promiscuità di tanti corpi accaldati e discinti, e la sollecitazione di tante spumeggianti energie adolescenziali, richiamano prepotentemente verso le brame di quaggiù, e non verso le cose di lassù – per usare il linguaggio dell’Apostolo -, ebbene, allora siamo sicuri che la Giornata Mondiale della Gioventù sia la risposta adatta al bisogno di evangelizzare i giovani e di aiutarli a riempire il loro vuoto spirituale, mediante l’annuncio della Rivelazione cristiana?
Gli organizzatori hanno calcolato che a Madrid, alla Messa conclusiva, la partecipazione sia stata dell’ordine dei 2 milioni di persone; a Rio de Janeiro, di circa 3 milioni, fra i quali 1.200 vescovi; a Cracovia, 2 milioni e 600 mila giovani. Quando si ha a che fare con simili numeri, nemmeno Superman riuscirebbe a tenere insieme le due cose: l’esuberanza giovanile e la spiritualità. Ne consegue che l’aspetto più importante e più caratterizzante dell’evento cattolico rischia di venire impietosamente surclassato da aspetti non solo secondari, ma, di per sé, decisamente estranei, se non addirittura contrari, alle finalità dell’evento stesso.
Parliamoci chiaro: senza voler essere maliziosi, e sforzandoci, anzi, di pensare bene di tutti, sappiamo con certezza, come lo sanno tutti quelli che lo vogliono sapere – è, infatti, il segreto di Pulcinella, che tutti conoscono ma di cui nessuno parla - che parecchi giovani frequentano tali eventi con l’obiettivo specifico di darsi alla pazza gioia e, se possibile, di rimediare qualche rapporto sessuale, più o meno fuggitivo; che non vi si recano affatto per delle motivazioni prettamente religiose, e tanto meno spirituali. Peraltro, non bisogna essere ipocriti e si deve avere l’onestà di riconoscere che tali atteggiamenti non nascono d’improvviso, ma partono da lontano. Un esempio fra tanti: nei campi dei boy-scout, organizzati a livello parrocchiale o diocesano, siamo proprio sicuri che molti giovani non pratichino comportamenti tutt’altro che conformi all’etica cristiana, e questo proprio sotto il naso degli istruttori e degli organizzatori, se non, addirittura, con la loro connivenza o con la loro diretta partecipazione? Siamo sicuri che preti indegni non abusino di simili occasioni per permettersi licenze sessuali con i giovani che, in teoria, sono stati affidati alla loro custodia spirituale? Lungi da noi voler fare delle accuse generiche e voler gettare fango nel mucchio; tuttavia, siamo direttamente a conoscenza – come, di certo, lo sono moltissimi altri – che simili cose avvengono. Lo sappiamo per certo e abbiamo la sensazione che lo sappiano bene anche quei pastori che dovrebbero vigilare sul gregge, nonché le famiglie interessate; ma che tutti, per mera ipocrisia, preferiscano girare la testa dall’altra parte.
L’educazione dei giovani, specialmente nella società moderna, impregnata di materialismo e di edonismo, è cosa particolarmente delicata; ancor più delicata è la loro educazione cristiana. Conosciamo benissimo le immense difficoltà che devono affrontare, ad esempio, i catechisti parrocchiali e gli animatori dei gruppi giovanili del’Azione Cattolica. Ciò, tuttavia, non può significare che gli educatori e gli operatori pastorali devono rassegnarsi a un tacito compromesso con l’andazzo del mondo. A cominciare dall’abbigliamento, che deve essere, perlomeno, decente, e dal linguaggio, che deve essere altrettanto civile ed educato, essi hanno il preciso dovere di pretendere che i ragazzi loro affidati si attengano a quelle norme sociali e morali che fanno parte integrante della proposta cristiana. Non si tratta di un optional, non sono cosette di nessun conto: l’abito, il più delle volte, fa il monaco. E fingere di non vedere, fare finta di nulla, è la stessa cosa che acconsentire. Lo sappiamo benissimo – torniamo a dirlo - che si tratta di un momento storicamente assai difficile: le stesse difficoltà fanno parte dell’esperienza di un normale insegnante statale, in una qualsiasi scuola italiana o europea. Solo che l’insegnante di unna scuola, se crede, può anche far finta di non vedere e di non sentire, almeno entro certi limiti; un operatore pastorale no, mai, per nessuna ragione, senza venir meno al proprio mandato morale.
Gira e rigira, si torna sempre lì: al nodo del Concilio Vaticano II e allo “stile” ecclesiale che, da allora, ha cominciato a prendere piede entro la comunità cattolica. Fino a che punto la volontà di dialogare con il mondo moderno, di andare incontro alla gente, di parlare un linguaggio che sia accessibile alla mentalità contemporanea, giustifica il compromesso, il cedimento, la rinuncia alle posizioni di principio che qualificano la Chiesa nella sua fedeltà al Vangelo? Alcuni storici dicono che fu colpa della rigidità dei papi se, nel XVII secolo, la Chiesa perse l’occasione di evangelizzare la Cina, dal momento che i gesuiti, adattando i riti cattolici alla mentalità di quel popolo e alle sue consuetudini religiose, stavano facendo breccia e stavano creando le basi per una effettiva cristianizzazione di quel Paese, a cominciare dalla corte imperiale di Pechino. E una vicenda simile ebbe luogo, quasi contemporaneamente, anche con le missioni dei gesuiti sulla costa del Malabar, in India (la cosiddetta questione dei riti malabarici). Probabilmente, invece, ebbe ragione la Chiesa di Roma, nella persona di Gregorio XV, ed ebbero ragione i domenicani, i quali avevano sollevato il problema: perché i gesuiti, così operando, avrebbero, sì, cristianizzato la Cina e l’India, ma al prezzo di sacrificare la purezza e l’integrità della Rivelazione cristiana. Non solo i Cinesi e gli Indiani avrebbero ricevuto il battesimo per mezzo di un “cattolicesimo” che non era veramente tale, bensì un sincretismo appena mascherato; ma, presto o tardi, l’ondata di ritorno sarebbe giunta in Europa, e anche i cattolici dei nostri Paesi avrebbero visto contaminata la purezza della Rivelazione con riti, usanze e mentalità che poco o nulla avevano di cristiano e di cattolico.
Ebbene, questo è precisamente quel che sta accadendo al cattolicesimo dei nostri giorni, anche e soprattutto in Europa; e, di nuovo, a pilotare questa “riforma”, che rischia di diventare un vero e proprio stravolgimento, vale a dire una apostasia dalla Verità cristiana, sono, ancora e sempre, i gesuiti. Non è un caso che il primo e l’unico papa gesuita della storia, Francesco (che non è, come alcuni istintivamente pensano, un francescano, ma un gesuita della vecchia scuola “diplomatica”, e sia pure molto influenzato dalla teologia della liberazione) si stia incessantemente adoperando per far passare, senza clamore, ma così, giorno per giorno, attraverso le sue omelie, le dichiarazioni, le interviste improvvisate, tutta una serie di cambiamenti che finiscono per modificare nella sostanza non solo la pastorale e la liturgia, ma proprio la stessa sostanza teologica e dottrinale del cattolicesimo. Valga per tutte l’esortazione apostolica Amoris laetitia, che, al di là della immensa confusione che ha provocato, in pratica equivale ad una revisione del concetto stesso di peccato: come se vi fossero peccati che cadono in prescrizione e che pertanto, dopo un certo numero di anni, richiedono una sanatoria in nome del “realismo” e delle situazioni di fatto che sono venute a creare in certe famiglie. Ora, se passasse questo principio, con la relativa linea di condotta, ci troveremmo in presenza di una versione nuova ed inedita del Vangelo: alla esortazione che Gesù rivolse alla donna adultera: Neppure io ti condanno; va’, e non peccare più; si verrebbe a sostituire, in pratica, una nuova morale “evangelica”, basata sul: Chi sono io per giudicare? Andate e fate secondo la vostra coscienza; concetti, questi, peraltro già espressi da papa Francesco fin dai primi tempi del suo pontificato, nel corso di una incredibile intervista rilasciata ad Eugenio Scalfari (il gran papa della Massoneria: chissà perché proprio a lui), nella quale diceva precisamente queste cose. E, se il senso delle sue parole fosse stato travisato dall’intervistatore, non avrebbe dovuto fare altro che smentire e precisare: invece ha taciuto e, in più occasioni, ha ribadito la sua idea.
Ora, il punto è che né il papa, né i gesuiti, né alcun altro gruppo, ordine o movimento religioso, cattolico o sedicente tale, hanno il diritto di rovesciare come un guanto i contenuti della Rivelazione, il depositum fidei del quale la Chiesa è custode, e custode perfetta, anche se peccatrice (e talvolta “prostituta”), non per merito degli uomini che la compongono, che sono dei poveri peccatori come tutti gli altri, ma per la Grazia soprannaturale che lo Spirito Santo le trasmette e le infonde, sostenendola nei passi più scabrosi e aiutandola a non sgarrare dalla retta via. Infatti, come è noto, benché in certe epoche storiche i papi, la gerarchia e una parte del clero abbiano tralignato e si siano abbandonati a disordini di vario genere, mai, però, parlando ex cathedra, i sommi pontefici hanno insegnato dottrine eretiche; mai si sono discostati dalla Verità del Vangelo, che è Cristo stesso. Mai, fino ad oggi; mai, fino a questo pontificato. Neppure i papi più discutibili sotto il profilo morale e nella condotta privata, come il tristemente celebre Alessandro VI Borgia, hanno deviato dalla retta dottrina cattolica; mai hanno trascinato le anime nell’errore teologico e, quindi, nel peccato che consiste nell’allontanamento da Dio.
Oggi ci troviamo di fronte a una situazione drammatica e assolutamente inedita. I pastori non danno il buon esempio sul piano teologico e dottrinale: cercano la popolarità, vogliono piacere alle folle (ecco la legge dei “grandi numeri”, con tutto il tristo bagaglio di abusi e di aggiustamenti al ribasso che inevitabilmente impone a chi se ne fa succube); e qui torniamo alla riflessione iniziale, sul senso di certi eventi d’incontro religioso che rischiano di stravolgersi in occasioni di scandalo e di peccato, proprio perché non si distinguono granché dai grandi spettacoli profani della musica, del cinema o dello sport spettacolarizzato. Vale la pena di riempire le piazze, se il messaggio che passa, specialmente ai giovani, è fatto di permissivismo, relativismo, scimmiottamento di modi, stili e atti che sono propri della società materialista e atea, edonista e senza freni morali? Noi crediamo di no. E cerchiamo di ricordaci sempre dell’aurea massima: Bonum animarum suprema lex in Ecclesia...
Non questa musica, ragazzi!
di Francesco Lamendola
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