PEDAGOGIA DEL VANGELO
di Francesco Lamendola
Uno dei tratti più caratteristici della psicologia degli uomini moderni, compresi quanti ancora si dicono e si sentono cristiani, è la smania del fare; la tensione febbrile, compulsiva, verso l’agire, il moltiplicare le tracce superficiali del proprio passaggio: anche scattando continuamente delle fotografie, inviando messaggini telefonici, postando messaggi sui social network, incidendo le cortecce degli alberi e le panchine dei giardini pubblici con il proprio nome o con quello della persona amata. Si direbbe che l’uomo moderno abbia il terrore di divenire trasparente e invisibile non solo agli altri, ma anche a se stesso, e che dedichi una attenzione incessante a far sì che la sua presenza nel mondo non passi inosservata, che il suo più piccolo gesto e il suo più fuggevole pensiero vengano fissati per sempre, a futura memoria.
Anche la moda dei tatuaggi sul corpo va in questa direzione: molto spesso essi rappresentano simboli che dovrebbero rappresentare il suo carattere, le sue attitudini, le sue convinzioni, oppure raffigurano il nome della persona amata, o attestano una promessa di “eterna” fedeltà, destinata in realtà a durare, ben che vada, un paio di stagioni in tutto.
Anche la moda dei tatuaggi sul corpo va in questa direzione: molto spesso essi rappresentano simboli che dovrebbero rappresentare il suo carattere, le sue attitudini, le sue convinzioni, oppure raffigurano il nome della persona amata, o attestano una promessa di “eterna” fedeltà, destinata in realtà a durare, ben che vada, un paio di stagioni in tutto.
Ad ogni modo, l’uomo moderno è persuaso di dover fare molte cose, e, naturalmente, anche di poterle fare: è certo che, se impiegherà sufficiente energia e volontà, riuscirà a fare quello che si era prefisso, a meno che circostanze assolutamente impreviste ci mettano lo zampino e mandino all’aria, inaspettatamente e ingiustamente, i suoi piani e i suoi disegni. Al massimo, quindi, è disposto ad ammettere che il caso lo potrebbe ostacolare; ma, a parte il caso, non ritiene di dover fare i conti con altre circostanze avverse, e si considera più o meno in diritto di veder realizzati gli obiettivi che si è ripromesso di conseguire. Se ciò non accade, allora va a caccia di un “colpevole”, il quale, naturalmente, deve essere un terzo incomodo; ben di rado gli sorge il sospetto di dover attribuire a se stesso le cause del proprio fallimento. Se perde il posto di lavoro o non ottiene la sperata promozione, la colpa è del suo capo, che è stupido e invidioso; se la ragazza lo lascia, la colpa è della superficialità e dell’egoismo di lei; se i figli lo deludono, la colpa è tutta loro, che si sono rivelati ingrati e immaturi; e così via. Sempre gli altri; mai lui.
L’atteggiamento dei credenti, o di quelli che si ritengono credenti, diciamo dei credenti della domenica, non differisce molto da quello di tutti gli altri: quello che fanno, ritengono di farlo da soli, per mezzo della loro intelligenza, della loro abilità, della loro forza di carattere; e, se le cose non vanno come speravano, non esitano a prendersela con Dio in persona, e a chiedergli conto del perché non li abbia favoriti, proprio loro che, essendo suoi devoti, avrebbero meritato una spintarella, un aiutino, insomma un trattamento di favore rispetto ai comuni mortali, che in chiesa non ci vanno e preghiere non ne dicono mai. E ciò dimostra fino a che punto la mentalità laicista e secolarizzata sia penetrata a fondo nel modo di sentire e di pensare di tutti, credenti compresi: tanto che, visti dall’esterno, essi non si distinguono per niente dai non credenti, dagli atei o dai seguaci di altre religioni; oppure, peggio ancora, si riconoscono, sì, ma per il loro più spiccato opportunismo, del tipo: Se Dio mi accontenta, io lo ringrazio, anche se, in fondo, so di meritare il suo speciale aiuto; se no, gli volto le spalle e gli faccio il muso, perché ha tradito le mie giuste aspettative. Inutile dire che un simile atteggiamento, anzi, ancora più accentuato, siffatti ”credenti” lo manifestano anche nei confronti dei Santi di cui sono devoti e ai quali chiedono delle speciali grazie, oppure alla Madonna, alla quale accendono candeline e poi stanno a vedere che cosa succede, con l’aria di chi è in diritto di aspettarsi ogni sorta di grazie e di benedizioni.
Tutti costoro, a quanto pare, non tengono in alcun conto ciò che dice Gesù nel Vangelo di Giovanni, nel corso dell’Ultima Cena, allorché si accinge a dare ai suoi discepoli gli estremi insegnamenti e le estreme raccomandazioni; ed è come se parlasse a tutti quelli che, negli anni e nei secoli a seguire, avrebbero creduto e seguiteranno a credere nelle sue parole e nel suo divino esempio di perfetta umanità (15, 4-5):
Rimanete in Me, e Io rimarrò in voi. Come il tralcio non può fruttificare se non rimane unito alla vite, così’ non lo potete voi se non rimarrete nell’unità con Me.
Io sono la Vite, voi i tralci; chi rimane in Me e Io in lui, produce frutto abbondante; senza di Me invece non potete far nulla.
Osservava, a questo proposito, sant’Agostino, con la sua abituale acutezza e concisione, nel suo commento al Vangelo di Giovanni (81, 3):
Non ha detto: senza di Me potete fare poco. Sia il poco sia il molto, non si può farlo comunque senza di Lui, poiché senza di Lui non si può fare nulla.
E il filosofo medievale Isacco della Stella (1100-1169) - monaco cistercense, che fu abate dell’Etolie, in Francia, e autore di una celebre Epistula de anima, indirizzata ad Alchero di Chiaravalle –, sempre commentando questo passo (in: Sermo 35, 12-13):
Da Lui infatti ci proviene, per tendere verso il buon agire, la sensibilità e il movimento, la verità e la virtù, la fede, la speranza e la carità, senza cui la ragione potrebbe impazzire e languire, essere giocata dalle fantasie e dilettarsi in falsità insane. Senza di Lui non si potrebbe fare niente di niente… senza di Lui la libertà naturale era sola e non poteva che cadere…
Il buon Pastore è stato dunque inviato per consolidare quello che era stato spezzato, per fortificare quello che era debole, cioè il libero arbitrio dell’uomo, che, avendo voluto elevarsi al di sopra di se stesso, è ricaduto al di sotto di se stesso, e non avendo in sé la forza di sostenersi… è stato totalmente incapace di raddrizzarsi da solo. Consolidato infine e riconfortato dalla Fede e dalla carità del Cristo stesso, e da esse fecondato, ma non ancora completamente rafforzato e rinvigorito… egli è ora portato nelle braccia del Pastore, come dice Isaia (40, 11): “Come un pastore Egli porta gli agnellini sul petto”.
Il concetto, come si vede, è molto semplice: l’uomo è una creatura, e quindi, da solo, non ha alcun potere sulle cose: nulla gli appartiene, neppure i giorni della sua vita, che sono contati, come i suoi capelli. La sua realizzazione e il suo pieno compimento si trovano nel rivolgere la sua anima al Creatore, dal quale ha ricevuto, insieme al dono dell’esistenza, anche quelli dell’intelligenza, della sensibilità, della salute, della bellezza, eccetera. L’uomo che esclude Dio dalla sua vita si autoelimina, come bene aveva visto il filosofo Antonio Rosmini; perché solo in Dio l’uomo trova il senso della propria esistenza, e in Lui soltanto può realizzare la propria vocazione, il progetto cosmico al quale è stato invitato e per il quale è venuto al mondo. Ignorare quella chiamata, sopprimere il richiamo della vocazione, cancellare dal proprio cuore la voce di Dio, equivale, per l’uomo, a suicidarsi moralmente, intellettualmente, spiritualmente: la sua moralità soggiace al principio del piacere, la sua intelligenza diviene sterile, la sua vita spirituale si inaridisce e si atrofizza, come una pianta che non riceve la pioggia da settimane e da mesi, e le cui radici finiscono per seccarsi e isterilirsi. Dio, infatti, è per l’uomo come la pioggia generosa, benefica, che scende dal cielo a ravvivare le creature assetate, a far rifiorire la vegetazione secca, a restituire forza e speranza agli animali che soffrivano i tormenti dell’arsura.
Dire che l’uomo, con Dio, può fare qualunque cosa, mentre da solo non può fare niente, deve essere inteso nel significato più estensivo del termine “fare”: cioè non solo come fare in senso attivo, ma anche come patire. La vita dell’uomo è fatta di azioni compiute e ricevute: delle prime egli è il soggetto, delle seconde, l’oggetto. Quando subisce l’azione altrui – e non solo di altri uomini o di altre creature, ma anche delle circostanze, del clima, di un terremoto, di una malattia – l’uomo viene messo alla prova e, talvolta, è proprio lì che si vede di quale stoffa egli sia fatto, più che non nell’agire libero e volontario. Ci vuole più coraggio, ad esempio, nell’affrontare una lunga e dolorosa malattia, che non nell’intraprendere un’azione rischiosa, ma volontaria, dalla quale si può anche recere in qualunque momento. Oppure si pensi a un grave dispiacere, a un abbandono, a un lutto: in ciascuno di questi casi, l’anima viene sottoposta a una prova durissima, e tutte le facoltà vitali sono chiamate a raccolta, per sostenere la persona che soffre e per offrirle aiuto e sostegno. Alcuni, davanti a simili difficoltà, cedono e crollano; altri reagiscono, contrattaccano, per così dire; e poi, magari, s’inorgogliscono, perché attribuiscono al loro merito esclusivo il fatto di aver saputo reagire, di non essersi abbattuti né scoraggiati, di aver continuato a nutrire la speranza nel futuro e l’amore per la vita, nonostante tutto.
Le cose, però, stanno in maniera ben diversa da come essi credono: la loro superbia li acceca, la loro ignoranza li ottenebra. Non è vero che hanno fatto tutto da soli: essi non lo sapevano, ma Qualcuno li ha aiutati, li ha assistiti, li ha confortati e li ha consigliati; Qualcuno che è stato così generoso, così benefico, così delicato e così amorevole, da tenersi nascosto, per vedere se essi, prima o dopo, si sarebbero resi conto della realtà delle cose, e avrebbero compreso il dono immenso che hanno ricevuto, pur non avendolo affatto meritato. Dio offre continuamente occasioni di riflessione e di ripensamento agli uomini, sia quando li aiuta, sia quando li abbandona alle conseguenze disastrose del loro disordine morale, della loro superbia intellettuale, della loro insaziabile brama di auto-affermazione. Dio non castiga nessuno, in questa vita: se gli uomini sono messi alla prova, è sempre per il loro bene, e mai per il loro male; anche quando sono colpiti da una disgrazia, anche quando si ammalano, anche quando si vedono in punto di morte, nel pieno di una vita energica e di una salute vigorosa: sempre le prove che essi devono affrontare sono proporzionate alle loro possibilità di comprensione e di crescita; sempre sono date loro per aiutarli ad innalzarsi, a superarsi, a nobilitarsi, mai perché si deprimano, si scoraggino, si abbattano. Dio non gode della sconfitta di nessuno, della umiliazione di nessuno, della disperazione di nessuno; al contrario: Egli vorrebbe i suoi figli capaci di procedere a testa alta, fieri e sereni nello stesso tempo; amorevoli verso gli altri, come Lui lo è con ciascuno di essi.
Sia chiaro, tuttavia, che, per la creatura, procedere a testa alta non significa negare il dovuto rapporto di gratitudine e di adorazione nei confronti del Creatore; non significa che l’uomo possa fare da solo, e prendere in pugno il proprio destino con le sue sole forze, ignorando Dio e calpestando la sua santa legge; non significa affatto che l’uomo possa farsi il giudice di se stesso, né quando si gonfia d’orgoglio e proclama che tutto gli è lecito, né quando cade nelle tenebre della disperazione e si ritiene indegno di perdono e di misericordia. Dio non vuole regnare su una umanità depressa e servile, così come non vorrebbe che l’umanità montasse in superbia e si auto-divinizzasse: non perché Egli sia geloso delle prerogative divine – sarebbe come se un uomo adulto si turbasse o si offendesse perché un bambino di due anni gli ha mancato di rispetto -, ma perché sa che l’uomo, abbandonato alla sue sole forze e alla sua folle presunzione, andrà a finire male, pagherà un prezzo altissimo alla sua superbia, e dovrà molto soffrire, forse più di quanto potrebbe sopportare. L’inferno, in fondo, è questo: e comincia già nella vita terrena. L’inferno è, per l’uomo, dover affrontare le conseguenze della sua superbia, della sua arroganza, del suo disprezzo di Dio; mentre le prove che Dio manda all’uomo, nella sua infinità bontà e sapienza, sono sempre proporzionate alle sue risorse, e hanno sempre la funzione di stimolare la sua presa di coscienza, il suo risveglio spirituale. L’uomo, in quanto creatura puramente biologica, è un dormiente: per divenire quel che egli è chiamato a divenire, occorre che si ridesti, che apra gli occhi; e che si formi in lui, come dice il profeta Ezechiele, un cuore nuovo, fatto di carne, in luogo del suo vecchio cuore di pietra, insensibile e gonfio di egoismo. Per imparare ad amare, l’uomo deve imparare a soffrire. La pedagogia del Vangelo è tutta qui: ed è la pedagogia della Croce. Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita a causa mia e del Vangelo, la salverà: così dice Gesù (Marco, 8, 34-35). Parole chiare, chiarissime. Come mai, dunque, i cristiani fanno sempre tanta fatica a comprenderle, a trarne le debite conseguenze? Come mai non capiscono che essi sono come i tralci, e che solo restando strettamente uniti alla Vite, cioè al Maestro divino, possono dare frutto?
Senza di me non potete fare niente
di Francesco Lamendola
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