COMPASSIONE PER QUESTA FOLLA
La compassione di Gesù non può essere strumentalizzata per “mostrare” che a Gesù andava bene tutto anche l’errore, non può essere rovesciata per “dimostrare” che Gesù essendo misericordioso amava anche il peccato
di Francesco Lamendola
La compassione è quell’atteggiamento dell’animo per cui si partecipa intimamente alla sofferenza o alla sventura altrui, ci si immedesima con chi soffre o è tribolato, e ci si sente istintivamente spronati a fare, per quanto possibile, qualcosa per lui, onde alleviare i suoi patimenti o, almeno, se non si può fare altro, mostrargli che gli si è vicini, che ci si sente solidali con il suo soffrire; che quanto gli accade non ci lascia freddi e distaccati.
Compatire viene dal tardo latino compăti, formato da cum e pati, cioè soffrire insieme con qualcuno, o, meglio ancora, sopportare insieme con qualcuno: perché, in latino, patior, deponente, significa sopportare, tollerare, consentire, indica cioè non un generico soffrire (insieme a qualcun altro), ma proprio un sostenere un peso, una prova, una difficoltà, una offesa, con lui; implica, cioè, la condivisione volontaria, l’acconsentire a qualcosa e, nello stesso tempo, il fatto di porsi in maniera attiva per sostenere qualcuno, e non il chinarsi a subire un destino.
In tal modo, il fatto della compassione fa emergere il lato più delicatamente umano che un individuo possa mostrare nei confronti di un altro individuo; mostra la capacità di provare pietà per gli infelici e il desiderio di alleviare la loro pena; rivela quanto di meglio può esserci nel carattere di una persona, la quale, se si presentano le circostanze adatte, si mostra pronta e sollecita per solidarietà con qualcuno che forse non conosce, e dal quale non può nemmeno sperare di ricevere alcuna ricompensa, ma verso il quale vuole semplicemente, gratuitamente, essere buona, per un senso innato e spontaneo di simpatia e di commiserazione, quale si potrebbe provare per uno stretto congiunto o per un caro amico.
La compassione, peraltro, è un sentimento più forte, più articolato e più maturo della semplice pietà: perché in essa non ci si limita a provare turbamento e dolore per il male che colpisce l’altro, ma si desidera anche fare qualcosa per alleviarlo, si desidera ch’egli sappia di non essere solo, di non trovarsi del tutto abbandonato in balia del destino, ma di poter contare sulla fratellanza di altri uomini, come se fossero i membri della sua famiglia. E quindi vi è un senso di protezione, una sollecitudine attiva e misericordiosa, il cui desiderio è quello di dare un sollievo, un conforto, un sostegno e un segnale d’incoraggiamento, invece di limitarsi a provare un po’ di commozione, tenendola però chiusa in sé ed evitando, per una ragione o per l’altra, di lasciarla trasparire all’esterno, e soprattutto di trasformarla in azione concreta e immediata.
Gesù Cristo, il divino Maestro, il Figlio Unigenito di Dio, era capace di provare una profonda compassione, non teorica o filosofica, ma concreta e immediata, nei confronti di coloro che soffrono, sia per dei mali fisici, e quindi nel corpo, sia per dei mali morali, cioè nell’anima. Tanto i ciechi, i sordi, i muti, gli indemoniati, quanto i soli, i disperati, i pubblici peccatori, i reietti della società, incendiavano il suo cuore di compassione, e la compassione si trasformava in azione concreta, finalizzata a porgere ad essi un aiuto, una qualche forma di sollievo per il presente, ma anche di consolazione rivolta alla loro condizione complessiva di uomini (o di donne) immersi nel buio e incapaci di trovare la strada da soli.
Gesù era anche vero uomo, e uomo nel senso più alto della parola: era suscettibile di provare tutte le passioni umane, prima di tutte la sensibilità; era sensibile ai sentimenti, si commuoveva, soffriva per gli amici: davanti alla tomba dell’amico Lazzaro, pianse, come piange un uomo sensibile alla morte di un caro amico. La sua misericordia nasceva dal fatto che egli comprendeva la condizione umana dall’interno, per averla assunta totalmente su di sé, senza riserve, sino in fondo. Il suo primo miracolo, la trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana, ebbe occasione – contro sua voglia, come è chiaramente attestato dalla tradizione evangelica – dalla necessità di soccorrere due sposi in difficoltà, salvandoli da una brutta figura davanti a tutti gli invitati: quella di non avere più vino da offrir loro durante il banchetto nuziale.
Tutto questo non deve farci dimenticare che Egli era anche giusto: e la giustizia non è che il completamento dell’amore, anche se tale aspetto di solito ci sfugge, perché, propensi come siamo a scusare le nostre colpe e a cercare ovunque pezze giustificative, circostanze attenuanti, non ci piace fare i conti con il fatto che l’amore, quanto più è grande, limpido, generoso, tanto più è rispettoso della libertà altrui. L’innamorato non può imporre il proprio amore alla persona che ama: può solamente offrirlo, non certo costringere l’altro ad accoglierlo e a ricambiare il suo sentimento. Perciò, se è vero, anzi verissimo, che Gesù prova per gli uomini un amore immensamente misericordioso, è altrettanto vero che quell’amore è giusto, cioè non invadente, non oppressivo, non vincolante, non ricattatorio: non obbliga gli uomini ad accettarlo, tanto meno a ricambiarlo; è l’amore di una creatura perfetta (nella misura in cui Gesù ha anche la natura creaturale), che ama senza la più piccola traccia di egoismo, di possessività, di interesse, che ama in maniera totalmente gratuita e disinteressata, come tutti gli uomini e le donne dovrebbero e potrebbero fare, ma, in pratica, come mai nessun uomo e nessuna donna sono stati capaci di amare. Anche e soprattutto in questo, Egli è stato il nostro Maestro perfetto: nell’insegnarci come si ama, che cos’è il vero amore. E, per maggiore chiarezza, lo ha spiegato con parole di una semplicità cristallina, e ne ha dato l’esempio: Nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita per i suoi amici.
Pertanto i tentativi di certi sedicenti teologi progressisti e modernisti di far passare l’amore, la compassione e la misericordia di Gesù, per un buonismo a tutto campo, sdolcinato e indiscriminato, per una liquidazione d’amore di fine stagione, dove si vende a prezzi stracciati e poi si chiude il magazzino, è una vera e propria mistificazione del significato del Vangelo. La compassione di Gesù verso gli esseri umani è autentica, ma, proprio per questo, non si identifica con un permissivismo all’ingrosso, con un relativismo etico, con un indifferentismo religioso: non equivale a dire né che il peccatore può continuare a peccare impunemente, né che viene abolita la distinzione fra il bene e il male, né, meno di tutto, che sia indifferente il modo in cui si adora Dio, e quale Dio realmente si adori. Strani effetti del relativismo e dell’indifferentismo che certi teologi e certi membri del clero cattolico stanno distribuendo a piene mani, incontri di Assisi in testa: non tutte le religioni si equivalgono; non tutte sono buone; non tutte sono vere; diciamolo anzi francamente e senza ipocrisie: non è possibile che siano vere nemmeno due, ma una soltanto. E se qualcuno si vergogna di dire, o anche solo di pensare, che Cristo è la via, la verità e la vita, e non che Cristo è una delle vie, una delle verità e una delle possibili maniere d’intendere la vita, ebbene, allora che costui abbia la decenza e l’onestà intellettuale di deporre i panni del cristiano e del cattolico, e indossi pure il vestito di Arlecchino che più gli piace, compresi i sonagli sul berretto.
La compassione di Gesù non può essere strumentalizzata per “mostrare” che a Gesù andava bene tutto, anche l’errore; non può essere rovesciata come un guanto, per “dimostrare” che Gesù, essendo amorevole e misericordioso, amava anche il peccato. Quanto ai peccatori, li amava, certo, ma vedendo in loro non ciò che erano al presente, ma ciò che avrebbero potuto diventare, se si fossero convertiti; pertanto li amava in vista della loro conversione e si adoprava affinché si convertissero e così si salvassero, e non certo per confermarli e giustificarli nei loro peccati, o, addirittura, per benedirli in essi. E quel direttore di un importante quotidiano cattolico che ha osato dire che nessuno dovrebbe giudicare quei due omosessuali che, subito dopo essersi sposati, sono andati in viaggio di nozze, pardon, in pellegrinaggio, a Lourdes, per pregare la Madonna, avrebbe potuto riservare a una miglior causa il suo affettato e gesuitico buonismo: perché trascinare la Madonna a testimone del proprio peccato e invocare le sue grazie su di esso, è una cosa che - anche per la pubblicità che è stata data all’evento - si può e si deve giudicare (la cosa, non le persone): e il giudizio di un cristiano che sia fedele al Vangelo, e non di un cristiano fasullo e modernista, non potrà che vedere in quel comportamento un atto di vera e propria blasfemia, e anche dei più obbrobriosi. No, la compassione di Gesù verso gli uomini non era di quel genere; tutt’altro.
Così racconta la seconda moltiplicazione dei pani, concisamente e vigorosamente – com’è nel suo stile – l’autore del Vangelo di Marco(8, 1-9):
In quei giorni, essendoci di nuovo molta folla che non aveva da mangiare, chiamò a sé i discepoli e disse loro. “Sento compassione di questa folla, perché già da tre giorni mi stanno dietro e non hanno da mangiare”. Se li rimando digiuni alle proprie case, verranno meno per via; e alcuni di loro vengono di lontano”. Gli risposero i discepoli: “E come si potrebbero sgamare di pane qui, in un deserto?”. E domandò loro: “Quanti pani avete?”. Gli risposero: “Sette”. Gesù ordinò alla folla di sedersi per terra. Presi allora quei sette pani, rese grazie, li spezzò e li diede ai discepoli perché li distribuissero; ed essi li distribuirono alla folla. Avevano anche pochi pesciolini: dopo aver pronunziata a benedizione su di essi, disse di distribuire anche quelli. Così essi mangiarono e si saziarono; e portarono via sette sporte di pezzi avanzati. Erano circa quattromila. E li congedò.
Gesù sente compassione per quella folla, sia perché essa è stanca e affamata, e si trova in luoghi deserti, ove difficilmente potrà procurarsi del cibo; sia perché essa si trova in quella situazione per amore di Lui, perché ha voluto seguirlo, perché era avida di ascoltare la Sua parola. Certo, fra quegli uomini e quelle donne vi saranno stati anche dei curiosi, dei perdigiorno, perfino dei malintenzionati: spie dei sommi sacerdoti, agenti del Sinedrio desiderosi di carpirgli qualche frase imprudente, qualche dichiarazione che si possa ritorcere contro di Lui, per trascinarlo davanti al tribunale. Ma che importa? Vi sono certamente anche moltissime persone in buona fede, persone stanche e tribolate, persone che soffrono, malate nel corpo e nell’anima, e ad ascoltare una parola di Speranza: come non provare compassione, Lui che è l’Amore; come disinteressarsi di quel che potrebbe loro accadere? Sono talmente affamate, che alcune potrebbero svenire lungo la via; e allora, che ne sarebbe di loro? Gesù è il Buon Pastore: non vuole che le pecorelle si perdano; le vuole proteggere tutte, fino all’ultima; e, se una si smarrisce, egli è pronto ad andarla a cercare. Sono i mercenari che fuggono quando si avvicina il lupo; sono i falsi pastori che si disinteressano della sorte delle pecore che erano state loro affidate: ma non così fa il Buon Pastore. Il Buon Pastore le ama, le conosce una ad una, ed è pronto a lottare per difenderle; è disposto anche a dare la sua vita per loro.
È inevitabile, tuttavia, che qualcuna si perda; forse più di qualcuna; forse saranno in molte. Il Buon Pastore non è un padrone geloso, non è un despota, non è un tiranno; e non tiene le pecore rinchiuse nell’ovile, notte e giorno, senza mai lasciarle pascolare in libertà, per essere sicuro che non si allontanino. Egli le ama così tanto che ne rispetta la libertà: le va a cercare se si perdono, tuttavia non le obbliga, con la forza, e rientrare nel recinto. Non si serve dei cani per terrorizzarle e costringerle a obbedire ciecamente. Preferisce dare la Sua vita per loro, piuttosto che levare la mano anche contro una sola di esse. È buono. Ma non è buonista. Non le vizia, non le coccola più di quanto sia giusto; non le incoraggia ad essere pigre, a giocare di furbizia. Ciascuna di esse deve fare la sua parte, per quanto sa e quanto può; ciascuna deve mettere a frutto i suoi talenti; ciascuna deve risponde alla Sua chiamata: nessuna è obbligata, ma chi non lo fa, ne subirà le conseguenze.
Ecco il concetto della giustizia come rovescio dell’amore. La giustizia, in senso morale, non è, o non è in primo luogo, una forza che agisce dall’esterno, a punizione dei peccatori. Prima di tutto la giustizia non è solo punire i malvagi, ma anche premiare i buoni: la giustizia consiste nel dare a ciascuno il suo, cioè quel che gli spetta, quel che si è meritato. In secondo luogo, la giustizia agisce come un effetto delle libere scelte umane: chi sceglie il male, ne pagherà le conseguenze; e chi sceglie il bene, troverà il bene. Se qualcuno crede che la vita sia una passeggiata, e che le scelte che si fanno nel corso di essa riguardino solo la coscienza individuale, è bene che si levi dalla testa una simile illusione. La vita è una cosa estremamente seria, perché tutto quel che si fa in essa ha una ricaduta: il bene chiama altro bene, il male chiama altro male. Bene e male, naturalmente, in senso assoluto: e siccome gli uomini, nel loro comprendere limitato, vedono solo il bene e il male contingenti, succede che non comprendano il senso della loro stessa vita, e s’ingannino sugli effetti delle loro stesse azioni. Infatti la legge è questa: chi rifiuta la benedizione, si attira la maledizione…
Sento compassione di questa folla, perché non hanno da mangiare
di Francesco Lamendola
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