Il silenzio insopportabile del Papa (e del mondo) su Asia Bibi
Esham, la figlia di Asia Naurīn Bibi, cristiana cattolica pakistana, madre di cinque figli, lavoratrice agricola, condannata a morte con l’accusa di blasfemia, ha fiducia in Papa Francesco. «Sento che il Papa prega per mia madre e continuerà a pregare. E con le sue preghiere mia madre sarà liberata», ha detto nei giorni scorsi, alla vigilia dell’udienza della Corte Suprema di Islamabad, che sembra si debba tenere la prossima settimana.
C’è da augurarsi che il Papa trovi uno spazio – nei suoi programmi misericordiosi di accoglienza di omosessuali e musulmani – per una parola pubblica a favore di una donna che al momento del suo arresto avrebbe detto: «Il mio Cristo è morto per me. Maometto per voi che cosa ha fatto?».
Il Pakistan punisce con la morte o il carcere a vita chi insulta il profeta Maometto o chi profana il Corano. È una legge usata sia come pretesto per vendette e ritorsioni personali sia per colpire leminoranze religiose. I cristiani sono il 2%, indù, buddisti o fedeli di altre religioni il 3%, la parte restante è costituita da musulmani. Secondo dati che risalgono al 2010, delle 38 persone uccise per blasfemia, 14 erano cristiane. Dall’entrata in vigore della norma, nel 1986, fino alla fine del 2014, si contano 1438 casi di vittime.
Dopo l’incarcerazione – che Asia commentò con queste parole: “Preferisco morire da cristiana che essere libera da musulmana” – la sua famiglia fu costretta a lasciare il paesino dove abitava, perché considerata la “famiglia della blasfema”, come dichiarò il marito. Per lei, hanno perso la vita coloro che in questi anni l’hanno difesa. Il primo assassinato fu il governatore del Punjab, Salman Taseer, 4 gennaio 2011. Era “colpevole” di essere andato in carcere a trovare Asia e di aver riconosciuto la sua innocenza. Il suo assassino fu condannato a morte il 1° ottobre 2011 da un Tribunale anti-terrorismo di Rawalpindi e il giudice che lo condannò fu costretto a fuggire dal Paese dopo aver ricevuto minacce di morte. Nel marzo 2011 fu vittima di omicidio, per il medesimo motivo – aver difeso Asia Bibi – anche il ministro cattolico delle Minoranze religiose Shahbaz Bhatti: i cattolici pakistani pregano per la sua canonizzazione.
Comunque vada il processo, sulla testa di Asia pende una taglia da 50 milioni di rupie (circa 430 mila euro) e a marzo di quest’anno l’imam Abdul Aziz, capo dell’ultra estremista Moschea rossa di Islamabad, durante la tre giorni di manifestazioni di Islamabad, che chiedevano la sua immediata esecuzione, si rivolse al Governo con queste parole: «Giustiziate al più presto la blasfema Asia Bibi e non piegatevi alla pressione internazionale».
In realtà, l’imam può dormire sonni tranquilli. Tranne qualche appello di organizzazioni cristiane, non si manifesta nessuna mobilitazione internazionale sul destino di questa donna. Nessun Parlamento occidentale ha mai sottoscritto un ordine del giorno, al Parlamento europeo è stata presentata solo quest’anno una generica interrogazione, nello stile del politicamente corretto. Il governo italiano ha organizzato, insieme a Confindustria e ICE-Agenzia, una missione imprenditoriale a Islamabad, per il mese di dicembre, guidata dal sottosegretario Scalfarotto, in cui si discuterà di infrastrutture e edilizia, energie rinnovabili, meccanica e impiantistica, automotive. Se esiste un mercato di 180 milioni di persone, a chi possono importare le conversioni forzate, i rapimenti, i danni alle aree di culto, le violenze sessuali e gli omicidi mirati a cui sono sottoposte le minoranze non musulmane e le persone condannate a morte per blasfemia?
di Danilo Quinto
di Danilo Quinto
http://www.lintraprendente.it/2016/10/silenzio-insopportabile-del-papa-del-mondo-asia-bibi/
Brutta figura di Papa Bergoglio in Colombia
(di Mauro Faverzani) In Ungheria la popolazione ha premiato la linea di buon senso perseguita dal governo in fatto di immigrazione: al referendum, il 98% dei votanti ha detto, infatti, plebiscitariamente “no” alle quote dei “rifugiati” nei Paesi dell’Unione Europea. Certo, la consultazione non è giuridicamente vincolante, poiché l’affluenza alle urne si è fermata al 43,42% degli aventi diritto. Tuttavia il messaggio è già così molto chiaro. Tanto che il primo ministro, Viktor Orbán, intende farlo proprio per via parlamentare, nonostante il gran vociare delle opposizioni, sempre pronte ad invocare le dimissioni del premier.
In Colombia, no: la gente ha clamorosamente bocciato l’abbraccio letale tra governo e Farc, le cosiddette Forze Armate Rivoluzionarie. Col 51,3% dei “no” ed il 49,77% di “sì” il Paese ha respinto l’accordo, voluto fortissimamente dal suo presidente Juan Manuel Santos, uomo di sinistra. Un risultato eclatante, specie tenendo conto delle forti pressioni, anche internazionali, giunte affinché passasse l’intesa. Al punto da spingere due ex-presidenti della Colombia, Uribe e Pastrana, a rivolgere un accorato appello ai Capi di Stato stranieri contro qualsiasi interferenza «negli affari interni» del Paese. Sconvolto ogni pronostico, sono stati 65 mila i voti, che hanno fatto la differenza.
Il presidente Santos ha preso atto della sconfitta, ma è indubbio come anche la sua autorevolezza sia stata indebolita dalla consultazione. Dal canto loro, le Farc, attraverso il loro líder máximo, Timoleón Jiménez detto “Timochenko”, hanno espresso il proprio rammarico, pur dicendo di voler fare ricorso «solo alla parola come arma per costruire il futuro».
In realtà, nemmeno durante i quattro anni di negoziato, mai nulla è stato detto da quest’organizzazione eversiva circa la sorte dei 400 ostaggi ancora nelle loro mani, dei bambini-soldato da loro addestrati alla guerriglia, dei terreni disseminati di mine antipersona e di molte altre questioni irrisolte ancora sul tappeto, questioni che nulla hanno a che vedere col cosiddetto “dialogo”.
È significativo il fatto che, dati ufficiali alla mano, il “no” abbia vinto anche in 6 delle 11 zone sotto il controllo delle Farc e non solo nelle aree urbane ed in quelle delle “élites rurali”. Come a San Carlos, a Yondo, a El Bagre, a Trujillo, a Yolombó ed a Planadas. È un dato, questo, che colpisce e che smentisce le previsioni degli osservatori.
A suo tempo, alla firma dell’accordo – raggiunto a L’Avana, Cuba, ma sottoscritto a Cartagena –, tra le autorità internazionali presenti, v’era anche il Segretario di Stato vaticano, il card. Pietro Parolin. Ma c’è di più. Lo stesso papa Francesco ha scelto di scendere personalmente in campo a favore dell’intesa: «Santos sta rischiando tutto per la pace – ha pubblicamente dichiarato, in udienza – ma la controparte sta rischiando tutto per continuare la guerra». Ed ancora: «Prometto che, quando l’accordo verrà sancito dal referendum, io verrò in Colombia ad insegnare la pace». A correggere il tiro, appena dopo il voto, è stato il presidente della Cec, Conferenza episcopale di Colombia, mons. Luis Augusto Castro Quiroga, che a Radio Vaticana ha dichiarato: «Non è che alcuni dicano sì alla pace e altri dicano no. Quelli che dicono no considerano che l’accordo vada corretto in alcuni punti, però anche loro vogliono la pace. Questo non è un caso di guerra e pace». Molto chiaro: una rettifica dovuta, ma è certo imbarazzante, poiché contraddice il Santo Padre.
José Galat, Rettore dell’Università La Gran Colombia, prima del referendum, ha pubblicamente biasimato, con una «Lettera aperta a Sua Santità», l’indicazione di voto pontificia, rivolta in piena campagna referendaria ad un popolo sovrano a maggioranza cattolica, nell’ambito oltre tutto dell’opinabile e senza che abbia nulla a che vedere col Magistero.
Ancor peggio – come ha osservato il prof. Galat – è che il Papa abbia non solo detto cosa votare, ma sia giunto addirittura a bollare come pericolosi guerrafondai quanti non siano d’accordo col presidente Santos e con l’accordo in questione, ciò che si configura come «un abuso di potere inammissibile». Anche perché qui, in gioco, non c’è un patto tra gentiluomini, tutt’altro. C’è molto di più. E, nella sua «Lettera aperta», il prof. Galat lo svela, punto dopo punto: «Santità, non so se Lei sia al corrente, come difensore della famiglia quale Lei deve essere, che quest’accordo, tra le altre aberrazioni, legalizza ed istituzionalizza l’“ideologia di genere”. Non so se Lei sappia che le Farc mai han mostrato alcun segno di pentimento per i sequestri, le estorsioni, lo spargimento di sangue innocente e per i crimini contro l’umanità compiuti. Non so se Lei sappia che alla base di questo accordo c’è il Socialismo del XXI secolo, un sistema classista, statalista, ateo ed ingiusto, fallito benché rabbiosamente i leader delle Farc cerchino di imporlo in Colombia, proprio nel momento in cui ha perso vigore nel resto del mondo».
Anche le minime “concessioni” fatte rischiano di tramutarsi in una colossale presa in giro: ad esempio, Néstor Humberto Martínez, da poco nominato Procuratore Generale della Colombia, ha messo in guardia la Camera dei Rappresentanti: i territori abbandonati dalle Farc, infatti, sono stati subito rioccupati dai cosiddetti «dissidenti» delle Farc, dal sedicente Esercito di Liberazione Nazionale e dai narcotrafficanti. Morale: in realtà, non è cambiato nulla, al punto da spingere Martínez a sollecitare un intervento immediato e deciso del governo.
Per questo, il prof. Galat ha concluso la propria «Lettera Aperta» al Papa, chiedendosi se le parole del Vicario di Cristo in terra non siano, in realtà, «frutto di posizioni personali e di informazioni faziose provenienti dalla teologia della liberazione. Stupiti, registriamo come questa sia la prima volta nella storia di un Papato in cui un Pontefice rilascia alla stampa mondiale dichiarazioni, che han la pretesa di manipolare gli elettori di una nazione, per indurli a votare in un determinato modo, senza offrire alternative, eliminando così di fatto ogni libertà di coscienza».
Per questo la sonora bocciatura registrata alle urne dall’intesa ha avuto anche l’effetto implicito di ridimensionare ulteriormente il prestigio di papa Francesco, minandone la credibilità e mortificandone l’autorevolezza. Una figuraccia decisamente evitabile, benché subito silenziata dalle grancasse rappresentate dai media di tutto il mondo. Davvero una gran brutta faccenda (Mauro Faverzani)