Fra tamburelli e cattochitarrismo
Sono solo canzonette, cantava Bennato, per dire che non intendeva occuparsi né di politica né fare cultura. Solo musica, fine a se stessa. Mi si perdoni lo sfogo, ma credo che un discorso analogo possa valere, oggi, anche per i canti della liturgia contemporanea. A partire dalle canzoni frutto della variegata tavolozza cromatica dei Gen, la musica a servizio della Messa si è appiattita al punto da proporre solo coretti di nessun valore artistico, pochissima partecipazione dei fedeli e con testi di tale mielosità da fare invidia allo Zecchino d’Oro.
Lo so, lo so: il tema “musica liturgica contemporanea” è il classico argomento da cristiani-al-bar, e immediatamente porta dietro opposte barricate gli entusiasti della canzone-pop moderna e i paladini della purezza armonica à la Ancien Régime. Lungi da me scatenare polveroni, intendiamoci; però, due parole le voglio comunque scrivere (e lo farò come don Camillo insegna, armato almeno di un palo di pioppo, che è un legno dolce e se è usato non fa troppo male; ma solo per legittima difesa).
Se devo scegliere tra le due barricate, scelgo quella à la Ancien Régime. E lo faccio un po’ a malincuore perché, come dirò più avanti, non mi si offre la terza scelta. D’altronde, l’alternativa sono i jingle di dubbio gusto con testi di dubbio valore. Ma sbaglio io, oppure un tempo – neanche troppo tempo fa – se si cantava in chiesa lo si faceva per pregare? Per rispondere, sfogliate un libretto dei canti di qualunque parrocchia: i capolavori, gettonatissimi, del tipo “la Stella Polare” o “Ecco quel che abbiamo” sono ottimi divertissement, ma hanno testi così generalisti che possono essere cantati da tutti, cristiani e non. Volessero, potrebbero cantarli anche i musulmani: tanto, Dio è uno solo, no?
Sorprende non poco che in molte – non tutte, grazie al Cielo – canzoni che vengono proposte dai nostri coretti siano spariti i nomi di Cristo e di Dio. Spariti. Direte: “sono sottointesi”, oppure ancora: “sono metafore”. Io, da cristiano particolarmente testone, continuo a dire che la musica liturgica non è uno stacchetto musicale che riempie tempi morti. Per tanto così, possiamo anche metterci 30 secondi di pubblicità. No: la musica è parte della liturgia, perché eleva l’uomo verso Dio e perché essenzialmente è una preghiera.
E non ve lo dice un cristiano caprone ed ottuso. Ve lo dicono i Pontefici. Leggiamo alcuni stralci dal Motu Proprio «Tra le Sollecitudini» di San Pio X: «La musica sacra, come parte integrante della solenne liturgia, ne partecipa il fine generale, che è la gloria di Dio e la santificazione e edificazione dei fedeli». Corbezzoli: abbiamo letto bene, la musica deve partecipare alla gloria di Dio ed alla edificazione dei fedeli. Ebbene, viene da meditare un attimo sul tipo di musica che ci viene proposta, praticamente senza alternativa, nelle Messe contemporanee: perché se da un lato possiamo dire che, in fondo, ognuno glorifica Dio secondo un proprio sentimento, è anche vero che non è proprio possibile dire che le canzoncine nazional-popolari che vengono strimpellate durante il contemporaneo rito Novus Ordo edifichino i fedeli. I loro testi sono così epurati di significati profondi e così intrisi di buonismo, baci, abbracci, vollemmossebbene e via dicendo, da far pensare che, in fondo, la Chiesa altro non sia che una onlus del buonumore. E, a proposito di Novus Ordo, vale la pena dare una sbirciatina a ciò che afferma il Vaticano II in tema di musica sacra. Leggiamo la costituzione Sacrosanctum Concilium, par. 112: «La musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all'azione liturgica, sia dando alla preghiera un'espressione più soave e favorendo l'unanimità, sia arricchendo di maggior solennità i riti sacri».
E sugli strumenti? Di nuovo Pio X ammoniva: «È proibito in chiesa l’uso del pianoforte, come pure quello degli strumenti fragorosi o leggeri, quali sono il tamburo, la grancassa, i piatti, i campanelli e simili». E di nuovo, mi si dirà che Pio X era all’antica e non parlava con lo “spirito del Concilio”. Leggiamo quindi nuovamente la Sacrosanctum Concilium, par. 120: «Nella Chiesa latina si abbia in grande onore l'organo a canne, strumento musicale tradizionale, il cui suono è in grado di aggiungere un notevole splendore alle cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti. Altri strumenti, poi, si possono ammettere nel culto divino, a giudizio e con il consenso della competente autorità ecclesiastica territoriale, […] purché siano adatti all'uso sacro o vi si possano adattare, convengano alla dignità del tempio e favoriscano veramente l'edificazione dei fedeli». A ben vedere, oggi abbiamo aperto le porte delle chiese a tamburelli, chitarre e chitarrine, maracas, ukulele e via dicendo, tanto che le nostre Messe sembrano suonate dagli animatori di un camping della riviera romagnola. Ma la funzione non deve essere “animata” dai fedeli, pur mossi dalle migliori intenzioni; piuttosto, è essa stessa che deve “animare” il fedele.
Sì, diciamolo: i bonghi, i tamburelli e gli ukuleli tipici delle spiagge o delle crociere non comunicano niente di sacro: trasmettono soltanto sciatteria. Sciatteria ben certificata da un processo in atto, ormai da mezzo secolo: cioè quello di purgare la musica sacra – e la liturgia – con il gusto mondano. Solo così si possono spiegare concessioni singolari e talvolta fortemente discutibili, come la scelta di canzoni di autori pop o ancora l’uso di movimenti in stile “macarena” (l’avete presente? “Alleluja” – si sventolano le mani – “Alleluja” – si sventolano le mani).
Ora, a bocce ferme, come uscire dal pantano di questo imbarazzante kitsch musicale? Forse riproponendo le Messe cantate di Vivaldi o di Perosi? Davvero, oltre all’irrealizzabilità di una simile proposta bisogna anche prendere atto che il gusto è cambiato. Radicalmente. Non resta che affidarci a musicisti moderni nel gusto ma validi nello stile: cosa per niente peregrina, perché anche del desolante panorama culturale nostrano ci sono compositori in grado di scrivere musica sacra di valore. L’unico, insignificante problema è che un moderno Mozart non può andare in chiesa mettendosi a suonare a suo piacimento. No. Deve prima passare sotto il vaglio del coretto e, comunque, deve prima ricevere il nulla osta dal sacerdote. Non so proprio con chi dei due sia più facile venire a patti: se con taluni Zecchini d’Oro delle parrocchie o con molti dei preti post-Concilio-e-post-‘68. Tanto – ti vengono a dire – a che serve cambiare? A che giova la qualità? A che pro celebrare una Messa che elevi l’animo dell’uomo? Se ai fedeli piacciono le canzonette, gli vengano date le canzonette. E solo quelle.
Lo so, lo so: il tema “musica liturgica contemporanea” è il classico argomento da cristiani-al-bar, e immediatamente porta dietro opposte barricate gli entusiasti della canzone-pop moderna e i paladini della purezza armonica à la Ancien Régime. Lungi da me scatenare polveroni, intendiamoci; però, due parole le voglio comunque scrivere (e lo farò come don Camillo insegna, armato almeno di un palo di pioppo, che è un legno dolce e se è usato non fa troppo male; ma solo per legittima difesa).
Se devo scegliere tra le due barricate, scelgo quella à la Ancien Régime. E lo faccio un po’ a malincuore perché, come dirò più avanti, non mi si offre la terza scelta. D’altronde, l’alternativa sono i jingle di dubbio gusto con testi di dubbio valore. Ma sbaglio io, oppure un tempo – neanche troppo tempo fa – se si cantava in chiesa lo si faceva per pregare? Per rispondere, sfogliate un libretto dei canti di qualunque parrocchia: i capolavori, gettonatissimi, del tipo “la Stella Polare” o “Ecco quel che abbiamo” sono ottimi divertissement, ma hanno testi così generalisti che possono essere cantati da tutti, cristiani e non. Volessero, potrebbero cantarli anche i musulmani: tanto, Dio è uno solo, no?
Sorprende non poco che in molte – non tutte, grazie al Cielo – canzoni che vengono proposte dai nostri coretti siano spariti i nomi di Cristo e di Dio. Spariti. Direte: “sono sottointesi”, oppure ancora: “sono metafore”. Io, da cristiano particolarmente testone, continuo a dire che la musica liturgica non è uno stacchetto musicale che riempie tempi morti. Per tanto così, possiamo anche metterci 30 secondi di pubblicità. No: la musica è parte della liturgia, perché eleva l’uomo verso Dio e perché essenzialmente è una preghiera.
E non ve lo dice un cristiano caprone ed ottuso. Ve lo dicono i Pontefici. Leggiamo alcuni stralci dal Motu Proprio «Tra le Sollecitudini» di San Pio X: «La musica sacra, come parte integrante della solenne liturgia, ne partecipa il fine generale, che è la gloria di Dio e la santificazione e edificazione dei fedeli». Corbezzoli: abbiamo letto bene, la musica deve partecipare alla gloria di Dio ed alla edificazione dei fedeli. Ebbene, viene da meditare un attimo sul tipo di musica che ci viene proposta, praticamente senza alternativa, nelle Messe contemporanee: perché se da un lato possiamo dire che, in fondo, ognuno glorifica Dio secondo un proprio sentimento, è anche vero che non è proprio possibile dire che le canzoncine nazional-popolari che vengono strimpellate durante il contemporaneo rito Novus Ordo edifichino i fedeli. I loro testi sono così epurati di significati profondi e così intrisi di buonismo, baci, abbracci, vollemmossebbene e via dicendo, da far pensare che, in fondo, la Chiesa altro non sia che una onlus del buonumore. E, a proposito di Novus Ordo, vale la pena dare una sbirciatina a ciò che afferma il Vaticano II in tema di musica sacra. Leggiamo la costituzione Sacrosanctum Concilium, par. 112: «La musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all'azione liturgica, sia dando alla preghiera un'espressione più soave e favorendo l'unanimità, sia arricchendo di maggior solennità i riti sacri».
E sugli strumenti? Di nuovo Pio X ammoniva: «È proibito in chiesa l’uso del pianoforte, come pure quello degli strumenti fragorosi o leggeri, quali sono il tamburo, la grancassa, i piatti, i campanelli e simili». E di nuovo, mi si dirà che Pio X era all’antica e non parlava con lo “spirito del Concilio”. Leggiamo quindi nuovamente la Sacrosanctum Concilium, par. 120: «Nella Chiesa latina si abbia in grande onore l'organo a canne, strumento musicale tradizionale, il cui suono è in grado di aggiungere un notevole splendore alle cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti. Altri strumenti, poi, si possono ammettere nel culto divino, a giudizio e con il consenso della competente autorità ecclesiastica territoriale, […] purché siano adatti all'uso sacro o vi si possano adattare, convengano alla dignità del tempio e favoriscano veramente l'edificazione dei fedeli». A ben vedere, oggi abbiamo aperto le porte delle chiese a tamburelli, chitarre e chitarrine, maracas, ukulele e via dicendo, tanto che le nostre Messe sembrano suonate dagli animatori di un camping della riviera romagnola. Ma la funzione non deve essere “animata” dai fedeli, pur mossi dalle migliori intenzioni; piuttosto, è essa stessa che deve “animare” il fedele.
Sì, diciamolo: i bonghi, i tamburelli e gli ukuleli tipici delle spiagge o delle crociere non comunicano niente di sacro: trasmettono soltanto sciatteria. Sciatteria ben certificata da un processo in atto, ormai da mezzo secolo: cioè quello di purgare la musica sacra – e la liturgia – con il gusto mondano. Solo così si possono spiegare concessioni singolari e talvolta fortemente discutibili, come la scelta di canzoni di autori pop o ancora l’uso di movimenti in stile “macarena” (l’avete presente? “Alleluja” – si sventolano le mani – “Alleluja” – si sventolano le mani).
Ora, a bocce ferme, come uscire dal pantano di questo imbarazzante kitsch musicale? Forse riproponendo le Messe cantate di Vivaldi o di Perosi? Davvero, oltre all’irrealizzabilità di una simile proposta bisogna anche prendere atto che il gusto è cambiato. Radicalmente. Non resta che affidarci a musicisti moderni nel gusto ma validi nello stile: cosa per niente peregrina, perché anche del desolante panorama culturale nostrano ci sono compositori in grado di scrivere musica sacra di valore. L’unico, insignificante problema è che un moderno Mozart non può andare in chiesa mettendosi a suonare a suo piacimento. No. Deve prima passare sotto il vaglio del coretto e, comunque, deve prima ricevere il nulla osta dal sacerdote. Non so proprio con chi dei due sia più facile venire a patti: se con taluni Zecchini d’Oro delle parrocchie o con molti dei preti post-Concilio-e-post-‘68. Tanto – ti vengono a dire – a che serve cambiare? A che giova la qualità? A che pro celebrare una Messa che elevi l’animo dell’uomo? Se ai fedeli piacciono le canzonette, gli vengano date le canzonette. E solo quelle.
di Giorgio Enrico Cavallo
http://www.campariedemaistre.com/2016/10/fra-tamburelli-e-cattochitarrismo.html
Smontato un pregiudizio medievale (e non solo): il riso non proviene dal diavolo
Il Papa: l’umorismo ci avvicina a Dio
Smontato un pregiudizio medievale (e non solo): il riso non proviene dal diavolo
L’attitudine umana più vicina alla grazia di Dio è l’umorismo». Con una frase pronunciata ieri a braccio nell’udienza ai confratelli gesuiti, Jorge Mario Bergoglio «sdogana» quel riso che nel Medioevo descritto da Umberto Eco nel romanzo «Il nome della rosa» andava ferocemente combattuto a salvaguardia della fede. La «riabilitazione» dell’umorismo da parte di Francesco arriva dopo che, in pieno pontificato di Joseph Ratzinger, Letture, la rivista dei Paolini, aveva riconosciuto che l’arma più efficace contro ogni forma di retorica è l’ironia: «L’umorismo finisce per abbattere le costruzioni più seriose».
Nei monasteri spaccati dalle diatribe teologico-ecclesiastiche dei seguaci del papa avignonese Giovanni XXII e dell’imperatore Lodovico il Bavaro, Guglielmo di Baskerville scopre la sanguinosa rimozione del codice di Aristotele sul comico, perché «non c’è nulla di più pericoloso, per la dottrina ufficiale, della comicità, dell’ironia, della parodia». Il testo proibito era in custodia a un monaco che lo aveva intriso di un veleno in grado di uccidere chiunque lo toccasse.
Non solo un pregiudizio medievale. Era convinto che il riso venisse dal diavolo e che il comico fosse figlio del peccato anche il poeta maledetto Charles Baudelaire. La pensa in tutt’altro modo Francesco. A presentare lo scorso gennaio in Vaticano il suo libro «Il nome di Dio è misericordia» è stato il comico Roberto Benigni. E al ritiro per gli esercizi spirituali di quaresima, il leit motivdelle meditazioni è stato: «Non perdiamo la speranza, né l’umorismo». Non più una risata vi dannerà, bensì l’umorismo via per il Paradiso.
Il coretto che boccia tutti i canti che non fanno "gioire". Allora non è una nuvola di Fantozzi, ma una piaga diffusa... Lì se il parroco dà carta bianca al coretto, non c'è niente da fare...
RispondiEliminaQuanto al secondo articolo, chi lo ha scritto forse ignora che "Verba vana aut risui apta non loqui" fa parte della Regola di San Benedetto, prima di essere una citazione di un romanzo decisamente più recente...