UN NUOVO RITO IN CHIESA PER CELEBRARE LE NOZZE GAY. L’ULTIMA IDEA DEL VESCOVO DI ANVERSA
Mons. Bonny: "Basta applicare a tutti lo stesso modello". In passato aveva chiesto di archiviare l'Humanae vitae
Mons. Johan Bonny, vescovo di Anversa
Roma. A un anno dalla conclusione del Sinodo ordinario sulla famiglia e a pochi mesi dal documento che ne ha tirato le conclusioni – l’esortazione Amoris laetitia – nella variegata chiesa europea c’è chi propone una propria interpretazione – che va ben al di là delle determinazioni sinodali – della nuova prassi che si dovrebbe applicare a quelle “situazioni nuove” (per usare una formulazione assai udita tra i padri nell’ultimo biennio di confronto voluto dal Papa) presenti nella società.
Il vescovo di Anversa, mons. Johan Bonny, ha proposto di creare “un rito alternativo” che consenta la benedizione delle coppie omosessuali, dei divorziati risposati e dei conviventi. Nel suo ultimo libro, Puis-je? Merci. Désolé (Posso? Grazie. Mi spiace), pubblicato in Belgio martedì scorso, il presule sostiene la necessità di uscire dagli schemi consueti, di smetterla di “applicare a tutti lo stesso modello” e di aprirsi alla “evoluzione in una varietà di rituali in cui si possa riconoscere il rapporto d’amore tra omosessuali, anche dal punto di vista della chiesa e della fede”. Il volume è pensato come una serie di interrogativi posti ragionando sullo stato della fede nel mondo contepornaeo. Domande che però già contengono le risposte e ribadiscono la linea che il vescovo di Anversa aveva già esplicitato più volte.
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In un’intervista concessa al quotidiano De Morgen, alla fine del 2014 e cioè poco dopo la conclusione del primo Sinodo, Bonny era netto: “La chiesa deve riconoscere la relazionalità presente nelle coppie formate da persone dello stesso sesso”, aggiungendo che “troppe persone sono state escluse per troppo tempo”. Basta, insomma, con “i traumi” dovuti alla “discriminazione”.
Da abbattere, sosteneva, era “il dogma della chiesa” che conferisce l’esclusività alla relazione tra uomo e donna, e questo perché “i valori intrinseci sono per me più importanti della mera questione istituzionale. L’etica cristiana si basa su relazioni durature dove esclusività, fedeltà e cura per l’altro sono centrali”. Nel libro, mons. Bonny conversa con il teologo Roger Burggraeve e con il giornalista Ilse Van Halst, ribadendo che “non possiamo continuare a dire che non ci sono altre forme di amore diverse dal matrimonio omosessuale. Lo stesso amore che troviamo in un uomo e una donna che vivono insieme lo troviamo in gay e lesbiche”.
Quanto ai divorziati risposati, e nonostante quanto esplicitato in Amoris laetitia, Bonny è favorevole alla benedizione della seconda relazione anche perché “la chiesa ortodossa già da molto tempo ha la pratica di confermare una nuova relazione per ragioni di misericordia, che consente di ritrovare un posto nella comunità”. Soluzione, quella ortodossa, che il Sinodo ha però negato, osservando che – disse il relatore generale, il cardinale Péter Erdo – “non può essere valutata giustamente usando solo l’apparato concettuale sviluppatosi in occidente nel secondo millennio”. Il vescovo di Anversa, poche settimane prima dell’apertura dell’assemblea straordinaria sulla famiglia (ottobre 2014) aveva mandato in stampa un documento plurilingue da lui redatto in qualità di vescovo dell’Europa occidentale in cui domandava di superare il contenuto della Humanae vitae di Paolo VI dal momento che il Papa “andò contro il parere della commissione di esperti da lui stesso nominata, della commissione di cardinali e vescovi che avevano lavorato su questo tema, della grande maggioranza dei teologi morali, dei medici e degli scienziati, delle famiglie cattoliche”.
Una posizione che va oltre anche le parole del Papa che, solo una settimana fa, ribadiva che un conto è l’accoglienza di tutti nella chiesa e un altro è l’avallare la teoria del gender. Inoltre, diceva lo scorso gennaio nel discorso alla Rota Romana, “non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione”. La famiglia “fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo – aggiungeva – appartiene al sogno di Dio e della sua chiesa per la salvezza dell’umanità”.
di Matteo Matzuzzi | 12 Ottobre 2016 ore 18:52
Il vescovo di Sulmona-Valva ultima vittima del “gender diktat”
Il gender diktat ha fatto una nuova vittima illustre. E’ ora infatti il turno del vescovo di Sulmona-Valva, don Angelo Spina, il quale si trova, suo malgrado, al centro di una furiosa polemica a causa di alcune sue dichiarazioni “politically uncorrect,” rilasciate in un’intervista apparsa sul sito web “La Fede Quotidiana”.
L’INTERVISTA “INCRIMINATA”
L’unica colpa del vescovo molisano è stata quella di aver espresso le proprie considerazioni, anche in virtù del suo ruolo di pastore della Chiesa cattolica, riguardo l’indiscutibile profonda crisi nella quale versa oggi l’istituto della famiglia.
Interrogato a tale riguardo, don Spina ha puntato il dito contro due responsabili principali:
«Direi che i problemi sono due e interagiscono. Politica e clima culturale ostile remano contro la famiglia naturale fatta da uomo e donna. Partiamo dalla politica. Penso che non le attribuisca la cura che merita. In quanto al clima culturale è negativo e spesso addirittura ostile».
In particolare, ciò che ha fatto sobbalzare i paladini del verbo LGBT sono state le sue parole di denuncia nei confronti dell’asfissiante clima culturale odierno, monopolizzato da una potente e danaruta lobby,interessata ad imporre il proprio diktat ideologico con il decisivo supporto di media e stampa compiacenti:
«Oggi il mondo è impregnato da una ideologia che spaccia per diritti quelli che in realtà sono arbitrio. La stessa politica in Italia ne ha dato prova correndo per approvare la legge sulle unioni civili che certamente non erano la priorità, ma sono figlie di potenti e ricche lobby. Io non discuto i diritti individuali, ma non è possibile accostare come è stato fatto, la famiglia naturale composta da uomo e donna aperti alla vita con altri tipi di unione. Spiacevolmente anche la stampa e i media spesso danno una pessima informazione, orientata a far credere che tutto sia lecito e permesso nel nome di una falsa libertà».
Parole evidentemente scomode e troppo “forti” per la comunitàLGBT+ che non ha perso tempo a scagliarsi contro don Spina, capitanata dalla stessa parlamentare PD Monica Cirinnà, che ha subito commentato così, sulla sua pagina Facebook, le esternazioni del Vescovo:
“Giorni fa ho fatto due assemblee nella sua diocesi, sale gremite da chi vuole il rispetto dell’art. 3 Cost., è uguaglianza non libero arbitrio”.
L’onorevole Cirinnà, che si vanta di aver riempito due sale in Molise per fare propaganda riguardo la legge da lei voluta sulle “unioni civili”, farebbe bene a sapere e a raccontare anche che l’intera provincia di Campobasso detiene il primato nazionale di non aver chiestonemmeno una unione da quando la legge è entrata in vigore.
SOLIDARIETÀ DAI PROPRI FEDELI
In mezzo a tale pesante clima di persecuzione mediatica, monsignor Spina ha ricevuto l’appoggio e la solidarietà dei propri fedeli della concattedrale di San Bartolomeo a Bojano dove don Angelo è popolare ed amatissimo. I cittadini del piccolo comune molisano stanno utilizzando la rete Internet per cercare di far sentire il più possibile la propria voce in difesa del loro pastore attaccato ingiustamente.
Di seguito riportiamo uno dei numerosi messaggi di sostegno apparsi in rete :
“Il Vescovo di Sulmona-Valva, mons. Angelo Spina sta subendo, in queste ore, un feroce attacco mediatico ad opera di UAAR, truppe cammellate LGBT e Cirinná solo per aver ribadito il valore della famiglia naturale e tradizionale! Sosteniamolo!”.
L’UNICA VERITA? NESSUNA VERITA’
Il vergognoso attacco che sta subendo il vescovo di Sulmona-Valvarivela ancora una volta il carattere totalitario ed intollerante dell’odierno diktat etico. La dittatura LGBT+ arriva addirittura a pretendere che le proprie folli idee siano propagate ed imposte urbi et orbi con il silenzio/assenso della stessa Chiesa cattolica.
Si assiste così ad curioso e già visto paradosso, per il quale, la Cirinnà e i sostenitori di ogni tipologia di diritto, in nome del principio di non-discriminazione, negano ai rappresentanti cattolici il diritto a professare il proprio credo religioso.
Un’evidente e macroscopica contraddizione che mette in luce come ilclima culturale odierno, opportunamente condannato da don Angelo Spina, sia quello di non poter proclamare alcuna verità al di fuori dell’unica verità accettata e praticabile: il non avere nessuna verità.
Rodolfo de Mattei
https://www.osservatoriogender.it/il-vescovo-di-sulmona-valva-ultima-vittima-del-gender-diktat/
La dignità di Tobia e la bomba nella morale cattolica
La dignità di Tobia e la bomba nella morale cattolica
Nel disperato tentativo in atto ormai da tempo, ad ogni livello, di normalizzare tutto ciò che riguarda il mondo gay, non poteva non fare notizia, debitamente riferita con la giusta dose di simpatia da tutti i media, il battesimo del piccolo Tobia, il bambino che i notiziari e i giornali dicono, pudicamente, essere nato otto mesi fa in America, ma che meglio si dovrebbe dire essere stato otto mesi fa strappato dalla madre e consegnato al suo padre biologico, Eddy Testa, e relativo “compagno”, Nichi Vendola, per diventare il “figlio” di due uomini, privato definitivamente di una mamma.
Il rito è avvenuto in un piccolo paese sul confine tra Lazio e Campania, come richiesto dai due omo-pseudo-genitori.
A commento del fatto ci sono anche le parole di parroco e vescovo del luogo, che dietro al laconico comunicato sembrano trattenere a fatica il compiacimento per questo gesto che manifesta una Chiesa doverosamente “aperta”, “in-dialogo”, “non-discriminante” e via dicendo.
Il parroco dichiara tranquillamente ai giornali che i genitori hanno fatto il regolare percorso di preparazione. Ora, si dovrebbe capire a chi si riferisce. Prima possibilità: con la parola genitori ci si riferisce all’uomo da cui proviene il seme e alla donna che lo ha portato in grembo e partorito: è evidente che non si tratta di questo, visto che la donna in questione si trova di la dall’Altantico; seconda possibilità: i genitori sono la coppia che lo ha adottato (ammesso che un bambino che ha ancora entrambi i genitori biologici al mondo abbia bisogno di adozione): ma non può essere nemmeno questo, visto che né la legge canonica né, per ora, quella italiana permettono l’adozione di un bambino da parte di due uomini. Dunque, ammesso che si parli di loro, a che titolo il signor Vendola e il signor Testa hanno fatto questo percorso di preparazione?
Non pago, il parroco aggiunge che i padrini scelti dalla coppia sono persone di fede. Benissimo. Ora, è noto che il compito primario dei padrini è aiutare i genitori o, nel caso di inadempienza, sostituirli nell’assicurare l’educazione cristiana del bambino. Quindi possiamo legittimamente aspettarci che, consapevoli del loro compito, tra qualche anno cominceranno con bel garbo a spiegare al piccolo Tobia che i due uomini che lo crescono vivono una vita incompatibile con le esigenze della fede in cui lui è stato battezzato?!
Il vescovo aggiunge a questo l’immancabile riferimento a Papa Francesco, senza per altro precisare dove e quando il Pontefice abbia detto che due persone dello stesso sesso siano genitori, e che la Chiesa li possa considerare garanti dell’educazione cristiana di un bambino.
Ecco allora alcune precisazioni.
È evidente che la Chiesa e ogni cristiano, non può che gioire del fatto che un bambino riceva il battesimo e diventi così Figlio di Dio ed erede della vita eterna. Ed è per questo che la legge canonica non pone che condizioni minimali alla celebrazione di questo sacramento.
In linea con questo, noi non possiamo che rallegrarci del battesimo del piccolo Tobia, divenuto ora cristiano, e sperare con tutto il cuore che le condizioni basilari ci fossero, così che per il presente, ma soprattutto per il futuro, questo nuovo cristiano possa crescere e vivere secondo l’incommensurabile dignità che ha ricevuto.
Dinanzi a questa vicenda restano, infatti, due interrogativi, uno riguardante il presente e uno il futuro; uno legato alla risonanza che può avere ciò che è accaduto in quella parrocchia del basso Lazio, e uno riguardante il futuro di questo bambino.
Il primo interrogativo è questo, e lo abbiamo già accennato: quando nelle formule che il sacerdote pronuncia durante il rito di questo sacramento, più volte, ci si riferisce ai “genitori” in questo caso chi rispondeva? I già citati signori Vendola e Testa? Questo sarebbe gravissimo e fuorviante! Significherebbe che durante un’azione liturgica della Chiesa si riconosce esplicitamente che due persone dello stesso sesso sono genitori e costituiscono una famiglia; e dato che lex orandi est lex credendi, cioè che la liturgia della Chiesa esprime e condiziona la sua fede, compiere un atto del genere significherebbe mettere una bomba nel fondamento di tutta la morale cattolica.
Il secondo interrogativo riguarda il futuro del bambino, e anche questo lo abbiamo già accennato: che speranza realistica ci può essere che il piccolo Tobia venga davvero cresciuto da cristiano? Possiamo sperare, tutti noi ma soprattutto chi si è assunto le responsabilità del caso, che le persone che circondano questo bambino lo educhino a comprendere la bellezza, il valore, la verità assoluta di tutto, tutto, ciò che insegna la divina Rivelazione e che si compendia nel Catechismo della Chiesa Cattolica, nella fede e nella morale?
Come si vede, la questione va ben al di là del fatto singolo, se non come apripista di un problema che si può facilmente prevedere diventerà sempre più grande.
ANCORA SU VENDOLA E IL BATTESIMO SHOW DEL PICCOLO TOBIA. COSA AVREBBE DOVUTO FARE IL PARROCO
Visto che più di qualcuno mi ha chiesto cosa pensi io della vicenda “battesimo-del-figlio-dell’amico-di-Vendola-comprato-in-America”, e sorvolando sulla questione preliminare del perché-a-qualcuno-importi-quello-che-penso-io, provo a dare qui una risposta.
Questione preliminare è quella canonica, non perché il diritto sia tutto (anzi), ma perché senza quei riferimenti non sappiamo di che stiamo parlando, come si dà in effetti il caso per molti che pure prendono la parola in materia. L’assioma pare essere “il battesimo non si può negare”. È un dogma che si impone anche nelle facoltà teologiche, e con una qualche ragione di fondo: se non si dicesse così, il seminarista sempliciotto e disattento, diventato prete, comincerebbe ad atteggiarsi a «giudice in terra del bene e del male», dando il via a una serie di complicazioni che tutti preferiamo evitare.
Ma veniamo al Can. 843 - §1: I ministri sacri non possono negare i sacramenti a coloro che li chiedano opportunamente, siano ben disposti e non ne abbiano dal diritto la proibizione di riceverli.
Il “non possono” è dunque molto ben circostanziato e condizionato. A cosa si riferisca il canone con quelle tre condizioni (ma soprattutto con le prime due: la terza è fin troppo ovvia) lo aveva spiegato tre anni prima una Istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede (una volta tanto, non c’entra Ratzinger: porta la firma di Šeper, e del resto era ancora il 1980). L’istruzione si chiama “Pastoralis actio” e ne riporto di seguito due numeri (30 e 31):
«30. Potrebbe capitare che si rivolgano ai parroci dei genitori poco credenti e praticanti solo occasionalmente, o anche non cristiani, i quali per motivi degni di considerazione chiedono il battesimo per il loro bambino. In questo caso si cercherà, con un colloquio perspicace e pieno di comprensione, di suscitare il loro interesse per il sacramento che chiedono e di richiamarli alla responsabilità che si assumono. La Chiesa, infatti, non può venire incontro al desiderio di questi genitori, se essi non danno la garanzia che, una volta battezzato, il bambino riceverà l’educazione cattolica richiesta dal sacramento; essa deve avere la fondata speranza che il battesimo porterà i suoi frutti (40). Se le garanzie offerte — ad esempio la scelta di padrini e madrine che si prenderanno seria cura del bambino, o l’aiuto della comunità dei fedeli — sono sufficienti, il sacerdote non potrà rifiutarsi di amministrare senza indugio il battesimo, come nel caso dei bambini di famiglie cristiane. Ma se le garanzie sono insufficienti, sarà prudente differire il battesimo; tuttavia i parroci dovranno mantenersi in contatto con i genitori, in modo da ottenere da essi, per quanto è possibile, le condizioni richieste da parte loro per la celebrazione del sacramento. Se poi non fosse possibile neppure questa soluzione, si potrebbe proporre, come ultimo tentativo, l’iscrizione del bambino in vista di un catecumenato, all’epoca della scolarità.
31. Le presenti norme, già promulgate ed entrate in vigore (41), richiedono alcuni chiarimenti. Deve essere chiaro, anzitutto, che il rifiuto del battesimo, non è una forma di pressione. Del resto non si deve parlare di rifiuto, né tanto meno di discriminazione, ma di un rinvio di natura pedagogica, che tende, secondo i casi, a far progredire la famiglia nella fede o a renderla più cosciente delle proprie responsabilità. Quanto alle garanzie, si deve ritenere che ogni assicurazione che offra una fondata speranza circa l’educazione cristiana dei bambini merita di essere giudicata sufficiente. L’eventuale iscrizione in vista di un futuro catecumenato non deve essere accompagnata da un apposito rito, che potrebbe essere considerato come l’equivalente del sacramento stesso. Deve essere chiaro, inoltre, che tale iscrizione non è veramente un ingresso nel catecumenato e che i bambini così iscritti non sono da considerarsi catecumeni con tutte le prerogative proprie di quello stato. Essi dovranno essere presentati, in seguito, ad un catecumenato adeguato alla loro età. A questo proposito, si deve precisare che l’esistenza di un Rituale per i bambini giunti all’età della catechesi, nell’Ordo initiationis christianae adultorum (42), non significa affatto che la Chiesa preferisca o consideri come normale il rinvio del battesimo a quella età. Infine, in quelle regioni in cui le famiglie poco credenti o non cristiane costituiscono la maggioranza della popolazione, al punto da giustificare da parte delle Conferenze Episcopali l’introduzione di una pastorale d’insieme che prevede un intervallo più lungo di quello stabilito dalla legge generale prima della celebrazione del battesimo (43), le famiglie cristiane che vi dimorano conservano integro il loro diritto di far battezzare prima i loro bambini. In questo caso si amministrerà, dunque, il battesimo, come desidera la Chiesa e come meritano la fede e la generosità di quelle famiglie».
Questa è la dottrina cattolica, la sana e prudente prassi della Chiesa che niente di buono vuole negare a qualcuno e ogni scandalo vuole risparmiare a tutti. Il resto sono chiacchiere da bar, buone ultime quelle di Moia martedì su Avvenire, perché – e qui si giunge sul piano teologico-sacramentale – i sacramenti non sono biglietti che dànno accesso al Paradiso, sono strumenti che appesantiscono la colpa se non vengono usati adeguatamente: non siamo protestanti e sappiamo che il sacramento vale ex opere operato, ma se con ciò vogliamo affermare che solo per questo non necessitino di fede non siamo neanche cattolici – stiamo vagheggiando di magia. Qualcuno obietterà: «Tanto se trovi un prete che ti fa questo discorso basta bussare ad altre porte fino a trovarne uno accomodante». Vero, ma dipende sempre da quello che stai cercando: se vai dal prete eretico il battesimo vale lo stesso, ma se chiedi il battesimo per ciò che è e che significa, sarà meglio ottenerlo con tutti i crismi, o sarà più “giudizio di condanna” che “rimedio e difesa dell’anima e del corpo”.
E qui arriviamo al punto: «Che cercate?» In estrema sintesi, se io fossi stato il prete a cui si fossero rivolti i due ladri di bambini, di primo acchito non avrei visto alcuna condizione per l’amministrazione del battesimo; ma se alla fine i due mi avessero convinto, avrei almeno posto come condizione (sine qua non!) dell’azione liturgica la massima discrezione mediatica. È cosa pienamente fattibile: non hanno problemi a criptare e secretare tutto quando si tratta di soldi, non vedo perché sia impossibile battezzare un bambino senza che tutta Italia venga a saperlo. Abbiamo forse saputo che ha mangiato ieri sera, Tobia? Se suo padre e il di lui complice nel sottrarlo alla madre non sono disposti a questo, non ho il minimo appunto per credere alla loro buona fede. E a quel punto sono costretto a pensare che il prete e il vescovo siano due coglioni (ah, su queste cose è comunque meglio essere coglioni che in malafede).
La malafede, invece, la vedo cubitale nella filigrana di certi corsivi di certi quotidiani cattolici, in cui spira forte la cortigianeria, quell’attitudine a non scontentare il potente anche (e soprattutto!) quando non si capisce bene che cosa voglia di preciso, il potente. Di loro scrisse il poeta dicendo il suo “Addio” «a chi […] sceglie a caso, / nell’inclinamento del momento, / curando però sempre di riempirsi la pancia». Allora si fiuta l’ultima frase comprensibile che gira per l’aria e si imbastiscono esercizî di retorica, appunti dialettici, sponde e attacchi, finalizzati a nient’altro che a dare prova al padrone di essere segugî affidabili. E me ne scusino i segugî, i quali davvero tengono molto più alle carezze del padrone che alla pancia piena.
Questo è quello che penso, se a qualcuno interessa. Non credo sia una posizione immisericordiosa, e se forse è ruvida non lo è meno giustamente del giudizio di Salomone. Rimando invece nettamente al mittente, cioè al corsivo di Luciano Moia, l’accusa di essere “fuori bersaglio” quando sostengo questa tesi: fuori bersaglio è piuttosto la sua tiratina d’incenso, perché qui si parla di utero in affitto e lui ciancia di omosessualità (si porta meglio in società, vero, ma non c’entra lo stesso). In ultima analisi, il rilievo mediatico che la celebrazione ha avuto – e di certo io non c’ero, in quella chiesa – desta vivo il sospetto che il lavacro lustrale sia stato voluto e ottenuto dai due signori di cui sopra più per loro stessi, e per sfregiare l’ambiguità e l’imbecillità di certi contesti ecclesiali, che per il povero innocente di cui hanno fatto spettacolo. «Accedit verbum ad elementum – diceva sant’Ambrogio – et fit sacramentum». Se fosse bastato l’opus operatum anche le mani di Pilato sarebbero risultate pulite.
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