LA LEZIONE DEL SANTO EREMITA
Da quel santo eremita nella foresta di faggi che lezione per noi uomini moderni. Senza spiritualità la fede è morta. Non ci servono discorsi melensi e sorrisi melliflui ma uomini di Dio, ci servono eremiti come Launomaro
di Francesco Lamendola
Un santo eremita vive nella foresta di Perche, in Normandia: la notizia della sua presenza si diffonde a partire da quando una banda di briganti, che lo aveva avvicinato per derubarlo (e di che cosa, poi?), è stata da lui convertita e ha promesso di cambiar vita. Ma le voci più curiose a suo riguardo parlano d’un rapporto straordinario con gli animali: egli parla con loro, e quelli gli obbediscono, come se fossero creature razionali. Uno di questi racconti narra di una cerva che, inseguita dai lupi, si era rifugiata presso di lui, ed egli l’aveva salvata, ammonendo severamente i suoi inseguitori, che avevano desistito dalla caccia e si erano ritirati in buon ordine. È un episodio che ricorda quello del lupo di Gubbio, narrato nei Fioretti di San Francesco: solo che san Francesco è vissuto a cavallo fra il XII e il XIII secolo (dal 1181 o 1182 al 1226), mentre il santo eremita della foresta di Perche, Launomaro – in francese: saint Laumer -, è vissuto seicento anni prima, nel VI secolo: pare sia morto, ormai più che centenario, nel gennaio del 593, ed è ricordato nel Proprio dei Santi, insieme ad altri, alla data del 19 gennaio.
Che cosa ci faceva, Launomaro, in quell’angolo sperduto d’Europa, in mezzo al fitto intrico dei faggi e delle querce, residuo della selva primeva che ricopriva, in tempi antichissimi, gran parte del nostro continente?
Non sappiamo molto di lui; le fonti sono delle Vitedell’età carolingia, scritte, dunque, oltre due secoli dopo la sua morte, e perciò di scarsissimo valore storico. Ad ogni modo, sappiamo che, nato in una povera famiglia di Neuville-la-Mare, nella diocesi di Chartres, dopo aver fatto il pastore, aveva seguito la vocazione religiosa, era stato consacrato sacerdote e aveva assunto la funzione di economo nel capitolo di Chartres. In quella posizione, però, Launomaro soffriva per la difficoltà di seguire interamente la chiamata divina, che lo voleva dedito a una vita di pura contemplazione; per cui aveva scelto la foresta di Perche, come luogo ideale per l’eremitaggio, e vi si era ritirato, percorrendo quei luoghi selvaggi, ombrosi e solitari, mentre cantava gli inni al Signore. Abituato ai vasti spazi deserti della sua precedente vita di pastore, aveva tuttora bisogno di raccoglimento e solitudine per incontrare Dio, né era uomo da mezze misure: non temeva di nulla, perché non possedeva nulla e apparteneva interamente a Dio. Gli animali selvatici “sentivano” la sua santità e, davanti a lui, parevano trasformarsi in creature umane, dotate d’intelligenza, sentimento e volontà: segno inconfondibile di una vocazione vera e di una santità perfetta (qualcosa di simile si narra anche di un santo assai più recente, il russo Serafino di Sarov).
Dopo aver trascorso molti anni in solitudine, fra piante ed animali, Launomaro aveva fatto ritorno tra gli uomini, stabilendosi dapprima nella località di Bellomer, dove poi sarebbe sorto un convento, e infine, tra il 560 e il 575, a Corbion, non lungi da Chartres, dove partecipò alla costruzione di un nuovo convento (più tardi denominato di Le -Moutier-au-Per-che). Dopo la morte, le sue spoglie conobbero diverse vicissitudini, dovute anche alla necessità di sottrarlo alle offese delle incursioni normanne, e trovò infine riposo nel monastero di St-Laumer; però, nel corso delle guerre civili del XVI secolo, gli ugonotti saccheggiarono il convento e dispersero i resti del santo, a eccezione del teschio, che era stato portato a Moissac fin dal 912, poi di nuovo traslato per iniziativa di Simone di Bourges, nel 1284.
Così lo presenta Domenico Casagrande in un libro destinato a un pubblico di giovanissimi, Santi e animali, e scritto, perciò, nello stile adatto a dei bambini (Roma, Editrice Cor Unum, Figlie della Chiesa, 1970, pp.64-66):
Che cosa direste, miei piccoli amici, se v’incontraste, in un bosco, con un monaco che canta a voce spiegata inni al Signore?
Proprio così faceva il santo monaco Launomaro nella foresta di Perche, in Gallia. E com’era bello, si racconta, vedere quel sant’uomo, ormai vecchio, con una fluente barba bianca che gli scendeva sul petto, a piedi scalzi, una tunica lunga nera stretta ai fianchi da una cintura di cuoio, camminare lentamente fra le alte piante di faggi e d’abeti, cantando salmi ed inni. Stromi d’uccelli gli volavano intorno ed univano il loro cinguettio allegro alla sua voce stanca.
Nessuno, da principio, conosceva la presenza del sant’uomo nella foresta. Egli fu scoperto nientemeno che da alcuni briganti, che s’aggiravano nei dintorni per rapinare i viandanti. Quelle birbe matricolate credevano di fare un colpo buono anche con Launomaro, e invece il colpo lo fece lui... convertendoli tutti alla fede e ad una vita onesta. Una volta convertiti, essi diffusero la notizia della presenza del Santo in quel bosco; e la gente accorreva da lui per ricevere la sua benedizione e raccomandarsi alle sue preghiere.
Ma la carità del servo di Dio si esercitò anche con gli animali.
Si racconta che, un giorno, Launomaro stava passeggiando solo soletto in profonda meditazione, quando vide corrergli incontro, tutta tremante, una timida cerva inseguita dai lupi. Launomaro provò tanta compassione che, rivolto ai lupi, esclamò: “Oh, bestie sempre rapaci, lasciate stare quella povera cerca, e tornate ai vostri luoghi!”. I lupi si fermarono e, mogi mogi, se n’andarono a denti asciutti.
La cerva s’accostò al suo salvatore sino a strisciare sulle vesti di lui per esprimergli tutta la sua commossa gratitudine, e lo seguì alla capanna, mentr’egli andava mormorando tra sé: “Ecco: come i lupi non cessano mai di divorar le carni altrui, così il diavolo, lupo ancor più rapace, va in giro a divorare anime!”.
Era giusto riportare questa pagina tratta da un libro per ragazzi: nella vita di questo santo nascosto, il cui nome non si trova nemmeno nella poderosa Enciclopedia Cattolica, si respira un’atmosfera fiabesca, mite, gentile, ma al tempo stesso rude e vigorosa, come le sterminate foreste che un tempo coprivano le terre della cristianità, e delle quali non restano che pochi lembi – la Foresta delle Ardenne, la Foresta Nera, la Selva Boema – e che erano luoghi di eremitaggio per anacoreti, nonché luoghi del mito cristiano - si pensi solo al Santo Graal, celato lassù, da qualche parte, nelle foreste dell’Europa occidentale, così com’era celata la fontana dell’eterna giovinezza, o quella dell’amore e dell’odio. Nella vicenda umana di Launomaro si respira il profumo intenso della resina, degli abeti, e quello aspro degli animali selvatici, i cervi, gli orsi; l’odore della solitudine, del vento, delle foglie che stormiscono ai temporali d’autunno, e i grandi silenzi innevati dell’inverno, quando ogni cosa pare immersa in un sonno senza sogni, nel gelo dai riflessi azzurrini; il calore del fuoco che crepita sui ciocchi, e il rumore della neve che si scioglie, sgocciolando, alle prime carezze della primavera; e l’atmosfera raccolta, solenne, della preghiera e della contemplazione, quando l’anima è assestata di Dio, e di Dio soltanto, e anche un semplice sospiro sembra una voce profana, capace di rompere l’incantesimo. È l’atmosfera di un mondo meraviglioso, uscito perfetto dalle mani di Dio, anche se poi ferito dal Peccato originale; un mondo di pace, di bellezza, fatto per l’uomo, e non certo il mondo diabolico immaginato dalla eresia catara; ma un mondo dal quale bisogna prepararsi a prendere commiato, perché la sua bellezza è transitoria, tutto in esso è transitorio, e l’anima non deve aggrapparsi alle cose che fuggono, ma puntare dritta all’assoluto, a ciò che permane.
Gesù ha detto che, per entrare nel regno di Dio, bisogna divenire simili a dei fanciulli; e questa è appunto la sensazione che si ricava dalla figura di un santo come Launomaro; e anche da una biografia, ingenua, se si vuole, ma ricca di fede, in un libro religioso destinato ai bambini. Il che non significa che il cristianesimo sia una religione fanciullesca, che sia solo un insieme di miti poetici, escogitati per consolare gli uomini nelle tribolazioni dell’esistenza; no, niente affatto: è una religione talmente profonda, che le menti più raffinate, come quella di sant’Agostino o quella di san Tommaso d’Aquino, vi si sono affaticate e vi hanno profuso il meglio della loro intelligenza, senza tuttavia arrivare a scorgerne il fondo, anzi, restando ancora in superficie, tanto è abissale la Verità del Vangelo. Talmente abissale che l’intelligenza umana, per quanto vi si affatichi, somiglia ad un bambino che voglia travasare l’acqua del mare in una piccola buca scavata sulla riva. Eppure, la ragione può indirizzare, può guidare, può sorreggere per un bel tratto di strada; può chiarire dubbi, sciogliere incertezze, rischiarare oscurità, incoraggiare gli esitanti: ma solo fino ad un certo punto. Poi, ci vuole qualcosa di più – e non certo qualcosa di meno - della ragione umana: qualcosa che i fanciulli possiedono, ma gli uomini, resi superbi dalla loro intelligenza e dal loro sapere, hanno pressoché dimenticato. Ci vuole la fede. Credo ut intelligam, et intelligo ut credam, diceva, giustamente, sant’Agostino. E chi non ha capito ciò, non ha capito nulla.
Ed ecco la fede di un santo, di un eremita, di un confessore dei briganti, di un amico degli animali; di un uomo che se ne va per le solitudini dei boschi a cantare i salmi e gli inni al Signore. Una fede rude e semplice, ma che punta dritto all’essenziale: al colloquio con Dio, alla contemplazione, alla lode, al ringraziamento per le meraviglie del creato. La fede di un vecchio che, senza dubbio, aveva, oltre che la barba lunga, anche le mani callose, la pelle rugosa, il fisico provato dai digiuni e dalle asprezze della vita selvatica, ma lo sguardo mite e penetrante di un bambino. Quante cose avremmo da imparare, noi moderni, da questa storia esemplare, che pare una favola per bambini e non lo è, semmai appartiene al mito; e il mito non è un gioco della fantasia, è una forma di conoscenza, tanto rispettabile quanto quella scientifica, e anche di più: perché la scienza descrive la superficie delle cose, il mito punta direttamente al cuore di esse. Che stiano bene attenti, i cristiani moderni, a non perdere di vista l’essenziale, a non scordarsi di andare al cuore delle cose: perché l’impressione che essi danno è quella di essere venuti talmente a patti con il mondo, con la cultura moderna – la cui essenza, non bisogna mai scordarlo, è anticristiana: materialista, edonista, ateista – da aver smarrito in se stessi ciò che è specificamente cristiano – la fede, per prima cosa. Quella vera, quella profonda, quella di un santo eremita che scelse la vita del bosco.
Oh, certo, per carità: si può essere buoni cristiani e veri testimoni di Cristo anche stando in mezzo al mondo, anche nel frastuono della modernità. Bisogna vedere come ci si sta. Il cristiano dovrebbe starci come un viandante di passaggio: oggi è qui, ma domani sarà giunto alla sua vera destinazione; e, anche stando qui, il suo sguardo non è mai distolto dalle cose di quaggiù, ma conserva sempre la tensione verso l’alto, l’istinto di cercare il Cielo. Un cristiano che smette di guardare verso il Cielo e che si adatta fin troppo ai compromessi e alle comodità di questo mondo; che sostituisce la Bibbia e il Rosario con il computer e il telefonino; che ha sempre poco tempo per pregare, ma trova sempre il tempo per fare cento, mille cose materiali: ebbene, è un cristiano che si è dimenticato di essere tale. È andato fuori strada, semplicemente. In genere non lo sa e non vuole saperlo; anzi: si vanta di aver più fede lui, di dieci monaci di clausura; e di servir Dio più lui, di tutti loro. Ma non è vero. Si è scordato l’essenziale, come un marito che, giunto a una certa età, e dopo aver raggiunto il successo e la ricchezza, si è scordato il motivo per cui aveva preso moglie, e si è scordato il tempo in cui era felice, con poco, insieme alla sua sposa.
Tutto l’insieme della vita dei cristiani, del loro stile e dello stile di una parte della Chiesa stessa, mostra questa secolarizzazione strisciante, questo processo di accomodamento con il mondo, ipocritamente chiamato “dialogo”, mentre invece è una resa a discrezione. Potremmo fare innumerevoli esempi, dalla pastorale alla liturgia, dal catechismo al linguaggio. Ogni settimana, una rete nazionale manda in onda la Messa domenicale insieme ad un programma di riflessione religiosa rivolto specialmente ai ragazzi. C’è un giovane sacerdote che sembra un fotomodello, lo si vede parlare e gesticolare in maniera insipida, sforzata, artificiale, imitando i modi di Alberto Angela. Le domande sono banali, le risposte, peggio; nessuna atmosfera di autentico raccoglimento, né di mistero (nel senso teologico del termine), o di vera spiritualità. Ma senza spiritualità, la fede è morta, e la religione si riduce a un troncone bruciato dal fulmine. Abbiamo bisogno di ben altro, che di queste minestrine precotte, per accendere - o riaccendere - la fiamma della fede.
Non ci servono discorsi melensi, sorrisi melliflui, giardinetti e fiorellini; non ci serve una fede presentata come facile e liscia, come si trattasse di bere un bicchier d’acqua. No: ci servono testimoni; ci servono uomini di Dio; ci servono eremiti come Launomaro, che amano la bellezza del mondo, ma per lodare la maggior gloria di Dio. La Chiesa non ha bisogno di damerini, ma di santi..
Da quel santo eremita nella foresta di faggi che lezione per noi uomini moderni
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