ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 11 novembre 2016

La via protestante al Vangelo

RISCOPRIRE L'AMORE DELLA PAROLA

Lectio divina: riscoprire l’amore della Parola che riscalda e vivifica la fede. Il pastore del gregge deve conoscere bene la Parola di Dio, e deve diffonderla tra le pecorelle del gregge che gli è stato affidato 
di Francesco Lamendola  



Siamo profondamente convinti che una delle ragioni principali della caduta di tensioni della fede, da parte di molti cristiani, sia dovuta alla loro disattenzione riguardo a un aspetto fondamentale della dimensione religiosa: l’amore della Parola divina, il Logos, che, nel Vangelo, è Dio stesso, fattosi uomo in Gesù Cristo; l’amore, la meditazione e l’ascolto della sua Parola, che ritempra e fortifica l’anima, chiarisce i dubbi e disperde lo scoraggiamento.
In altre parole, vi è stato un calo, nello steso tempo, sia della spiritualità, sia della frequentazione del Logos: i cristiani hanno introiettato, troppo spesso, lo spirito mondano, fatto di cose materiali, di orizzonti limitati, e hanno trascurato gravemente di cibarsi e sostenersi con la familiarità quotidiana, o almeno settimanale, della Parola di Dio. Detto in maniera ancora più semplice, e, se vogliamo, impietosa, ma chiara: sono diventati materiali e sono sprofondati nell’ignoranza. La lettura o l’ascolto frequente della parola di Dio è ciò che alimenta la vita dell’anima, cioè la partecipazione alla vita soprannaturale, in Cristo Gesù.

Bisogna dire che a tale stato di trascuratezza e di abbandono i cristiani sono giunti anche per la diretta responsabilità dei loro pastori. Non tutti, ma molti, forse troppi, hanno dimenticato la vocazione fondamentale del pastore: essere un alter Christus, un modello e un interprete della parola di Gesù, per un calo di tensione della fede che si è diffuso, come un inarrestabile contagio, proprio in mezzo al clero, e di cui è stato responsabile, o al quale ha potentemente contribuito, crediamo, un certo spirito neomodernista e una certa tendenza pseudo progressista che hanno preso piede a partire dal Concilio Vaticano II, e che hanno trascinato i pastori lontano dalla loro ragione d’essere vera e propria, per spingerli a inseguire altri modelli, magari, in se stessi, anche nobili, o, comunque, rispettabili, ma assolutamente non essenziali alla loro vocazione di pastori, perché tali che possono interpretarli benissimo altre figure, e non specificamente nella dimensione religiosa, come i sociologi, gli storici, gli animatori sociali, i medici, i sindacalisti, e chissà quanti altri esperti di questa o quella disciplina.
Il pastore del gregge deve conoscere bene la Parola di Dio, e deve diffonderla tra le pecorelle del gregge che gli è stato affidato; e, naturalmente, per poter fare questo in maniera credibile, e suscettibile di agire in profondità su quelli che l’ascoltano, deve vivere la dimensione della fede con purezza, con intensità, con coerenza, con generosità, con benevolenza, con mitezza, con spirito fraterno e con un costante, inesauribile atteggiamento di umiltà. Oggi, nelle chiese, si odono delle prediche inadeguate: o perché troppo povere, banali, meschine, e impregnate di spirito mondano, anche nelle modalità esteriori; o perché, pur essendo dotte, profonde, e, per molti aspetti, valide, mancano però della cosa essenziale: lo Spirito che le vivifica. Sono, cioè, stanche, vuote, poco convincenti, non per ciò che il sacerdote dice, ma per come lo dice, per ciò che egli esprime e per ciò che non è in grado di esprimere, né, evidentemente, di trasmettere: quella passione calda, impetuosa, contagiosa, per la Parola di Dio, che trasforma ogni cosa in un attimo e la illumina di una luce splendente, come un raggio di sole che si posa d’improvviso sopra un oggetto, sbucando fuori dal grigiore delle nuvole, in una giornata buia e triste.
Scriveva don Santino Corsi nel Sussidio Biblico Patristico per la Liturgia domenicale (vol. della Introduzione Generale, Rimini, Guaraldi Edizioni, 1996, pp. 11-13):

Il dinamismo apostolico dà  origine e impulso a tutto il movimento ecclesiale. Da dove nasce questo dinamismo iniziale e originante? Qual è la sorgente primaria e inesauribile alla quale il ministero si rinnova e si rinvigorisce? Qual è la molla interiore della tensione apostolica? È l’amore, lo “studium” per la Parola divina, per il Verbo eterno. L’amore per il Signore Gesù che ci ha amato fino a dare se stesso per noi, come ogni altro amore arde dal desiderio di conoscere il cuore e il pensiero dell’Amato, e spinge a scrutare appassionatamente quella traccia luminosa e profumata (per usare una calda espressione di S. Teresina) che ci ha lasciato nelle sue parole.
L’amore per la parola di Dio, il Verbo eterno del Padre, è dunque il motore di tutta la vita pastorale. Per questo Gesù per tre volte chiede a Pietro: “Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro?”, e solo alla sua risposta affermativa gli comanda : “Pasci i miei agnelli”  (cfr. Gv 21, 15-19).
È in questo che si realizza la parola dell’apostolo Pietro”Pascete il gregge di Dio che vi è affidato,  non per forza ma volentieri secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando, sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli (τύποι) del gregge” (1 Pt 5, 2-3).
Essere tipi o forma del gregge vuol dire camminare innanzi alle pecore, affinché esse possano posare i piedi sulle orme del pastore, percorrere ciò le stese tappe, compiere gli stessi passaggi, bere alla stessa sorgente, nutrirsi dello stesso cibo, essere illuminate dalla stessa luce, essere mosse dallo stesso Spirito.
Anche l’apostolo Paolo così scrive ai Filippesi: “Fratelli… questo soltanto io so: dimentico del passato e proteso verso il furto, corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù. Quanti dunque siamo perfetti, dobbiamo avere questi sentimenti; se in qualche cosa pensate diversamente, Dio vi illuminerà anche in questo. Intanto, dal punto in cui siamo arrivati, continuiamo ad avanzare sulla stessa linea. Fatevi miei imitatori, fratelli, e guardate a quelli che si comportano secondo l’esempio (τύπον ) che avete in noi” (Fil 13, 13-17).
Il τύπος, la forma del pastore, è l’essere primo discepolo, cioè attento ascoltatore della parola preziosa, custode vigilante di un deposito amato e consegnato alle generazioni seguenti come il tesoro che rende luminosa ed amabile tutta la vita.
Così scrive l’apostolo Paolo a Timoteo: “Tu, figlio mio, attingi sempre forza nella grazia che è in Cristo Gesù e le cose che hai udito da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali siano in grado di ammaestrare a loro volta anche altri (2 Tim 2, 1-2).
La forza e il vigore della vita di ogni uomo sono dati dalla chiarezza del suo pensiero, come la debolezza interiore nasce dalla confusione mentale e dal dubbio del suo cuore.
La capacità di un pastore di rafforzare nella fede il gregge che gli è affidato, di confortare e consolare gli smarriti di cuore, viene unicamente dalla conoscenza del Cristo che ci è data attraverso le Sacre Scritture. “L’ignoranza delle Scritture infatti è ignoranza di Cristo” (S. Girolamo, Comm. In Is., Prol.;PL 24, 17).

Ci sembrano considerazioni pienamente condivisibili, con la sola aggiunta, nella parte finale, della Tradizione quale fonte della fede cristiana, accanto alle Scritture: altrimenti si rischia d’imboccare la via protestante al Vangelo, puramente intellettualistica, arida, fredda; e si sa che l’intelletto puro finisce per gonfiarsi nella sua superbia e rischia di cadere nell’eresia, cioè rischia di perdere di vista la Verità, proprio per un eccesso di sicurezza in se stesso: pericolo contro il quale Gesù ha messo in guardia più e più volte, ammonendo il credente a cercare la fede con la semplicità di un bambino, se vuole entrare nel regno dei Cieli.
Amare Dio, vuol dire amare Gesù; amare Gesù, vuol dire amare la sua Parola; amare la sua Parola, vuol dire aprire la mente e il cuore all’ascolto di essa, lasciare che essa riempia tutta l’anima e ne scacci ogni residuo di egoismo, di attaccamento alle cose, di disordine spirituale e intellettuale. La fede cristiana, infatti – e questo è un aspetto che, ultimamente, è stato alquanto trascurato, e bene faceva don Santino Corsi a richiamare l’attenzione su di esso – si fonda anche sulla forza e la chiarezza del pensiero: forza che vuol dire volontà, e chiarezza che vuol dire comprensione.
In fondo, il dramma dell’uomo moderno è tutto qui – e lo si vede fin dall’apparire delle prime generazioni moderne, ad esempio nel teatro di Shakespeare: nella debolezza della volontà e nella confusione delle idee. Debole e confuso, l’uomo moderno è caduto in preda a tutte le illusioni e a tutti gli inganni, anche i più funesti, anche i più esiziali. Può essere considerato un caso il fatto che il culmine della modernità abbia prodotto alcuni dei sistemi politici più mostruosi e criminali che mai la storia abbia veduto, perfino rispetto alle epoche oscure e barbariche di un lontano passato? Ci siamo forse scordati, che, appena settant’anni fa, milioni di uomini hanno servito con fedeltà e obbedienza dei regimi sanguinari, e collaborato a pratiche quali lo sterminio di massa, per non parlare dell’olocausto nucleare? Ebbene, tutto questo è avvenuto non quando l’uomo aveva una chiara coscienza di sé e del suo rapporto a Dio, ma quando l’uomo, dopo aver cacciato la presenza di Dio ed essersi seduto sul trono di Lui, al Suo posto, ha incominciato ad intuire la propria inconsistenza, la propria inadeguatezza, come un misero tralcio che sia stato staccato dalla vite, e  a dubitare perfino di chi egli sia realmente, e se la realtà non sia per caso un sogno, ed il sogno, al contrario, la realtà “vera”.
Possiamo enunciare, a questo punto, una legge di carattere universale: per amare la vita ed essere realmente unito ad essa, ogni uomo ha bisogno di sviluppare la forza interiore e la chiarezza intellettuale: solamente se è capace di affrontare difficoltà e sacrifici senza perdersi d’animo, e solamente se sa vedere con lucidità e con costanza la meta verso cui è diretto, la sua avventura esistenziale avrà un senso compiuto, indipendentemente dai risultati materiali che avrà raggiunto. Una vita riuscita è una vita nella quale si realizza lo scopo per cui si è stati chiamati a viverla; una vita mancata quella di colui che non realizza alcuno scopo, perché non è arrivato neppure a vederlo, e, forse, neanche a comprendere che uno scopo esiste, sempre e comunque, che noi lo vediamo oppure no. Una persona debole e confusa è una persona che non sa amare la vita e che, per questo, conserva dei legami molto deboli con essa; che non sparge intorno a sé amore e fiducia, ma tristezza e scoraggiamento; che, posta davanti a una crisi particolarmente dura, è tentata dalla scorciatoia del suicidio, magari in senso spirituale: ossia di chiudersi in quel lungo e timido suicidio che è la chiusura spirituale e l’abbandono di ogni orizzonte di speranza, per cui la persona diventa un cadavere vivente e un peso insopportabile anche per se stessa.
E adesso torniamo alla fede cristiana. Se essa è in crisi, ciò dipende anche dalla scarsa o nessuna assiduità con cui i cristiani d’oggi si accostano alla fonte viva della Parola; la loro ignoranza della Scrittura è pari solo al senso di pesantezza che provano se, per caso, si vedono quasi costretti a confrontarsi con la Bibbia, sia nella lettura e nella meditazione personale, sia nell’ascolto di essa. E ribadiamo che i pastori del gregge hanno una grave responsabilità in un tale stato di cose: basta vedere il grado di decadenza e d’impoverimento in cui sono caduti sia l’istruzione del Catechismo, sia, come già detto, anche le omelie della santa Messa. Nulla può sostituire la Lectio divina, che non è una funzione distinta, ma parte integrante della vita soprannaturale che scaturisce dalla relazione con il Sacrificio eucaristico: sono due maniere complementari, ed entrambe necessarie, di amare Dio, di accostarsi a Lui, di cercar di penetrare nell’abisso misterioso e insondabile del Suo cuore misericordioso. Il Buon Pastore, dice Gesù, conosce le sue pecore, ed esse conoscono la sua voce: per questo gli si fanno incontro, mentre non si avvicinano ai falsi pastori, che sono soltanto dei mercenari, o anche qualcosa di peggio.
Ogni sacerdote e ogni religioso è, per il suo piccolo gregge, il pastore che ha ricevuto da Gesù l’incarico di guidare le pecorelle, affinché esse posino gli zoccoli nel solco da lui tracciato. Se il pastore si laicizza, se si secolarizza, se perde la tensione spirituale, se la sua fede si indebolisce, nessuna parola, nessun rito, nessuna strategia e nessun espediente “moderno”, per quanto chiassoso e spettacolare, anzi, proprio perché chiassoso e spettacolare, potrà evitare che appaia tutta la sua povertà, tutta la sua incapacità di svolgere la funzione del vero pastore. Il pastore trascina le anime se, a sua volta, si fa trascinare da Gesù; e questo scaturisce dalla fede, non dalla cultura, né dalla sociologia, né dall’impegno politico. Abbiamo troppi pastori che sanno fare di tutto, e troppo pochi pastori che sanno far bene la sola cosa necessaria: vivere la fede intensamente, e trasmettere, con essa, la Parola divina. Ma il Figlio dell’uomo, quando ritornerà, troverà ancora la fede sulla terra? 

Lectio divina: riscoprire l’amore della Parola che riscalda e vivifica la fede

di Francesco Lamendola

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