AUTODEMOLIRE LA CHIESA
La rivolta dei teologi cattolici contro san Tommaso preannuncia l’auto-demolizione della Chiesa. Non vengano a confondere le idee ai semplici fedeli, a turbare le anime, a vomitar fuori tutti i loro contorti vaneggiamenti
di Francesco Lamendola
Colui che entra in una libreria cattolica e passa in rassegna i libri sugli scaffali, nel reparto “teologia”, si imbatte in una serie di autori recenti o recentissimi, straneri e italiani, e non solo cattolici, ma anche protestanti: Karl Rahner, Jacques Maritain, Dietrich Bonhoeffer, Teilhard de Chardin, Walter Kasper, Hans Küng, Enzo Bianchi, Vito Mancuso. Non è detto che trovi Romano Guardini, meno ancora che trovi Romano Amerio; troverà anche, probabilmente, Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger, rispettivamente diventati Giovanni Paolo II e Benedetto XVI; ma avrà difficoltà a trovare Battista Mondin, per non parlare di Cornelio Fabro. No, quest’ultimo dubitiamo assai che riuscirà a scovarlo, in una libreria cattolica: e questo per la buona ragione che è stato, come del resto Romano Amerio, uno strenuo oppositore di certe novità post-conciliari, di certe disinvolture teologiche, di certi pasticci pseudo religiosi, nei quali non si capisce bene dove finisca il cattolicesimo e dove cominci il marxismo, oppure il luteranesimo, oppure il panteismo, o il relativismo, il deismo, lo scetticismo, o magari l’ateismo vero e proprio.
I grandi assenti, comunque, sono i teologi cattolici “classici”, a cominciare dal più classico di tutti, san Tommaso d’Aquino, il doctor angelicus, il più poderoso pensatore vissuto nei mille anni della civiltà medievale; colui che un papa che i cattolici progressisti vogliono arruolare retroattivamente nelle loro file, Leone XIII (probabilmente per la Rerum novarum e per il sostegno dato al cattolicesimo sociale) ha così tanto amato e apprezzato, da volerlo praticamente imporre come il teologo ufficiale della Chiesa cattolica di allora e di sempre. Assenti, o difficilmente reperibili, anche gli altri teologi medievali: Roberto Grossatesta e Anselmo d’Aosta, Giovanni Duns Scoto e Alberto Magno: insomma, quelli che a scuola non si fanno mai, perché i professori di liceo e i docenti universitari sono subalterni, per il novanta per cento, alla cultura marxista e neomarxista (cioè di un cadavere in via di putrefazione, ma non riconosciuto come tale) e non si degnano mai di spiegarli ai loro studenti, alla faccia del diritto allo studio e del concetto della laicità della scola e della libertà dell’insegnamento – dunque, anche della libertà di essere obiettivi e di trattare non solo i filosofi e i teologi che piacciono per motivi ideologici, ma anche gli altri, purché siano rilevanti nella storia del pensiero.
Proseguendo la sua escursione lungo gli scaffali della libreria cattolica, il nostro ipoetico visitatore probabilmente troverà le opere di sant’Agostino (ma più facilmente le Confessioni che la monumentale Città di Dio) e, quasi certamente, anche quelle di Abelardo, un po’ perché considerato “ribelle” e semi-eretico, quindi arruolato fra i precursori del libero pensiero, un po’ per via della sua storia d’amore con Eloisa, che da sempre fa sospirare e gemere innumerevoli giovinette romantiche, e versare fumi di lacrime e sospiri per via del loro struggente Epistolario (struggente, in verità, quello di lei, non quello di lui). Con un po’ di fortuna, salteranno fuori anche san Giovanni della Croce e santa Teresa d’Avila; Caterina da Siena e il suo Dialogo della Provvidenza, invece, non è detto, non si sa.
Che cosa potrà concludere, il nostro paziente visitatore, al termine della sua ricognizione? Che la teologia non è una scienza, ma una forma di letteratura; che ogni secolo, ogni generazione, hanno la loro teologia; e che il modo migliore per farsi una cultura teologica è quello di leggere i libri dei teologi più recenti e più noti. Ahimè: sono tutte impressioni totalmente sbagliate. Primo, la teologia è una scienza, e, se vogliamo, ancor più rigorosa della filosofia: per dirla con sant’Agostino: Nobis ad certam regulam loqui fas est; secondo, che la teologia non va soggetta alle mode culturali delle diverse epoche, perché, come tutte le scienze, mira a un contenuto di verità oggettivo, che non è di nessun tempo, ma perenne; e quindi non ha senso parlare di “rinnovamento” della teologia, e meno ancora di “rivoluzione antropocentrica”, perché l’oggetto della teologia è Dio, e quando si studia il mistero di Dio, bisogna rinunciare ad inseguire le mode degli uomini, che vengono e passano, poi sono superate e dimenticate nel giro di una generazione, anche quelle che, al loro apparire, hanno fatto tanto scalpore e hanno indotto qualche sprovveduto a credere che fosse stata detta l‘ultima parola nell’ambito della ricerca teologica.
Insomma: il nostro esploratore, a meno che possieda, per suo conto, una certa cultura specifica, finirà per credere che nulla sia più istruttivo della lettura dei libri di Karl Rahner, o Yves Congar, o Walter Kasper; e che mai nulla di più utile e intelligente, di più ispirato e illuminante, sia stato detto dopo la pubblicazione delle opere di Hans Küng, Enzo Bianchi, Adriana Zarri e Vito Mancuso. E ignorerà che la Chiesa, i sacerdoti e i fedeli si sono abbeverati, per secoli, generazione dopo generazione, alle opere di Agostino e Tommaso; che vi hanno trovato una sorgente pressoché inesauribile, di straordinaria limpidezza e profondità; che i seminaristi hanno studiato su di essi, fino al Vaticano II, e i sacerdoti li conoscevano bene, e li citavano nelle loro omelie domenicali, e anche nelle lezioni di catechismo; e infine che, allora, non regnava la confusione concettuale che oggi domina ovunque, non c’era la Babele di affermazioni e contro-affermazioni, ma un esercizio logico rigoroso, architettonico, grandioso, specialmente nella Summa di san Tommaso. I grandi teologi classici mettevano Dio al centro e procedevamo, con rigore geometrico, alla discussione sulle condizioni che rendono possibile sapere quel poco che si può sapere intorno alla realtà soprannaturale; dimostrare quel che si può dimostrare a proposito delle verità della fede; scartare ipotesi e congetture prove di fondamento; individuare il giusto metodo di ricerca e di ragionamento a proposito delle realtà invisibili, Dio e dell’anima.
Ma all’inizio degli anni ’60 del Novecento sono arrivati il vento del progresso, la smania delle novità, la febbre del cambiamento. Si è gettata via la moneta buona e ci si è riempiti le tasche di moneta scadente, o addirittura falsa; al posto delle pietre preziose, ci si è adornati con patacche e braccialetti di plastica. C’è stata una rivolta generale contro la tradizione, quindi una rivolta contro san Tommaso e il tomismo: egli è diventato, per i cattolici progressisti, ciò che era Confucio, negli stessi anni, per i seguaci maoisti della Rivoluzione culturale in Cina; o ciò che era l’insegnamento del latino nella scuola dell’obbligo: un simbolo dell’ancien régime, un dinosauro da abbattere, altrimenti la modernità non sarebbe mai arrivata, con il suo benefico influsso, a portare vita e calore nelle lande desolate del tradizionalismo cattolico, fortemente sospettato di essere reazionario e, in fondo, oscurantista.
Scriveva il filosofo Étienne Gilson a questo proposito nel saggio Il tomismo e la sua situazione attuale (in: E. Gilson, Problemi d’oggi, Torino, Borla, 1967, pp. 13; 15-16; 22-23; 23-24; 25):
… Poco meno di un secolo fa papa Leone XIII prescriveva l’insegnamento della dottrina del santo in tutte le scuole cattoliche e ordinava che nessun insegnante cristiano osasse menomamente discostarsi dai principi di questa dottrina. E, mettendo in atto una deliberazione univoca e straordinaria, il diritto canonico trasformava praticamente questa prescrizione dottrinale in un obbligo di legge. Per cui, un docente cattolico ha il dovere d’insegnare la dottrina tomista perché ingiunge il diritto canonico: potremmo dire che è obbligato ad essere tomista “in nome della legge”. […]
Se mi guardo attorno, vedo una massa di cattolici (e molti di loro sono degli ottimi cattolici) che non s’interessano né punto né poco di filosofia e tanto meno di teologia, se per teologia intendiamo uno studio approfondito della fede cristiana. Ma la Chiesa non può far a meno di teologia, come un cristiano non può fare a meno della fede e dei dogmi: la differenza sta nel fatto che un cristiano può salvarsi senza bisogno di essere un teologo e tanto meno un filosofo. Questa massa (ed è la stragrande maggioranza ) è composta di cristiani che non sono né tomisti né di altre scuole. Sono cristiani, ecco tutto: per loro l’importante è questo. […]
Da qualche anno esiste a Quebec un’associazione per aiutare e finanziare l’edizione leonina delle opere di san Tommaso. Tre o quattro anni dopo la fondazione me ne venne offerta la presidenza onoraria e ritenni di dover accettare. Sul finire del 1963 o ai primi del 1964 l’associazione m’invitò a tenere una conferenza per attirare l’attenzione del gran pubblico sull’impresa e raccogliere adesioni. Come presidente onorario, non potevo rifiutarmi. Con molti mesi di anticipo, la data della conferenza venne fissata a lunedì, 16 novembre, ore 20. La mattina di quel giorno, un padre domenicano mio amico mi mise sotto gli occhi un giornale locale appena uscito, che scriveva a caratteri cubitali: “La Chiesa non deve attribuire un valore esclusivo a san Tommaso”. Voglio credere che si trattasse di una pura coincidenza, ma la faccenda mi diede da pensare. Era un ben strano benvenuto a uno che veniva, dietro invito, da oltre Oceano per cooperare a un’impresa così squisitamente religiosa: aveva tutta l’aria di una doccia fredda. Ma da tutto c’è da imparare, e il fatto mi offre almeno un esempio caratteristico di quella specie di reazione al tomismo che tende a manifestarsi anche nelle alte sfere e che oggi vorrebbe vedere meno assoluta e totale la nostra adesione alla dottrina di san Tommaso. […]
Ci dicono: la Chiesa non deve basare tutta la sua dottrina “su un dottore solo”. Ci si preoccupa che san Tommaso, filosofo del secolo XIII, venga considerato da tanti il teologo “ufficiale” della Chiesa cattolica. Ma di chi parliamo? Di san Tommaso FILOSOFO? Ma allora non vedo come un FILOSOFO potrebbe essere il TEOLOGO, ufficiale o meno, di una Chiesa. E qui cominciamo col fare una precisazione. La Chiesa – presa come CHIESA – non insegna nessuna filosofia, sia tomista o scotista o suareziana o come più vi piace. La filosofia vera e propria appartiene al nostro mondo, è di “questo mondo”, come la fisica, la biologia o qualsiasi altra scienza naturale. Con la filosofia la Chiesa non ha a che fare non c’entra per niente: quando Aristotele elaborava la sua dottrina, la Chiesa cristiana non esisteva ancora e non c’era filosofo greco che potesse prevederne l’avvento. L’aristotelismo è diventato una dottrina religiosa soltanto col secolo XIII e se, nei dodici secoli precedenti ci si poteva salvare senza Aristotele, anche oggi l’umanità deve essere in grado di potersi salvare col solo Vangelo, senza bisogno di aristotelismo. Questo vale per tutti i filosofi e le dottrine, incluso san Tommaso. Se è vero, come si dice, che quest’ultimo è diventato il dottore “ufficiale” della Chiesa, il san Tommaso di cui si parla non può essere il filosofo, ma il teologo.
Ma allora – mi verrà obiettato – perché sprecare tante parole sulla filosofia, specie su quella di san Tommaso? Cercherà di rispondere nel modo più semplice a questo interrogativo, benché la faccenda appaia terribilmente complessa e il problema presenti tante complicazioni e addentellati e sfaccettature che si rischia di andare avanti all’infinito, senza giungere a una conclusione.
Il succo della risposta è presto detto: non è certo la Chiesa che va a ficcare il naso nell’insegnamento dei filosofo, sono piuttosto i filosofi che s’intrufolano e intromettono continuamente nell’insegnamento della Chiesa. […]
Prendiamo l’”Index librorum prohibitorum”: è una lettura al contempo scoraggiante eppur ricca di insegnamenti. Perché scoraggiante? Perché salta agli occhi l’inefficacia di quelle condanne. E perché istruttiva? Per diversi motivi. Primo: di tutte le dottrine filosofiche un tempo messe all’Indice, non ce n’è forse una, dico una, che trovi oggi un solo sostenitore. Eppure, ai tempi loro, i partigiani di queste dottrine ritenevano indispensabile abbandonare la teologia tradizionale per procedere a una sua revisione, a un aggiornamento…
La rivolta contro san Tommaso e il ripudio del tomismo, nei decenni successivi a quelli di cui parla la testimonianza di Étienne Gilson, ci hanno portati alla situazione presente: di una povertà teologica impressionante, e, quel che è assai peggio, di una vera e propria falsificazione della teologia cattolica in qualcosa che non è più teologia, e tanto meno cattolica, ma una congerie disordinata di velleità, teorie campate per aria, forzature della Rivelazione, e tanto, tanto umano orgoglio; tanta pretesa di poter far da soli, senza l’aiuto dello Spirito; tanta arroganza davanti al Mistero divino, e faciloneria dilettantistica, su questioni che richiederebbero somma prudenza e ponderazione.
Ma che cosa vogliono, infine, i nuovi teologi? Oh, niente di speciale. Come disse una volta, a bruciapelo, Teilhard de Chardin, proprio a Gilson (ed è quest’ultimo e riferirlo): Secondo lei, chi ci darà finalmente questo metacristianesimo che stiamo tutti quanti aspettando?(op. cit., p. 87). Ecco, quella volta – si era appena nel 1954, a New York; molto prima, dunque, della convocazione del Concilio Vaticano II – Teilhard delineò, in una sola frase, le speranze, le aspettative, il programma d’azione del “partito” cattolico progressista: creare un metacristianesimo, andare oltre il cristianesimo, ma continuando a parlare di Gesù, del Vangelo e tutto il resto, in modo da rendere l’operazione più graduale, ma anche più sicura e pressoché infallibile. E Teilhard era un sacerdote – un gesuita! E un buon sacerdote, anche, dicono quelli che l’hanno conosciuto! Un sacerdote che non vede l’ora di andare “oltre il cristianesimo”: ma che razza di pasticcio è mai questo? Che specie di guazzabuglio infernale, di delirio concettuale? Eppure, il futuro ha dato ragione a Teilhard: ora noi stiamo vivendo quell’epoca gloriosa, che, secondo lui, sessant’anni fa “tutti” stavano aspettando! Oggi, infatti, grazie ai teologi della liberazione, ai teologi della morte di Dio, ai teologi della critica delle forme, ai teologi che detestano il soprannaturale, ai teologi semiprotestanti e semimodernisti, desiderosi di piacere al pubblico e dire ai loro lettori e ascoltatori le cose più simpatiche che si possano dire, siamo arrivati oltre - ma assai oltre! - al cristianesimo: siamo arrivati in una terra di nessuno, dove regna costantemente il dubbio, dive perfino il papa confessa di essere pieno di dubbi, e lo dice davanti a tutti i fedeli, davanti alle televisioni: siamo arrivati a una teologia che, invece di accompagnarci verso Dio, ci respinge nelle paludi dell’incertezza, dello scetticismo, della incredulità.
Un bel risultato, senza dubbio.
Quanto a noi, preferiamo una sola pagina di san Tommaso d’Aquino a tutti i libri di Rahner, Kasper, Congar, Küng e Bianchi messi insieme. Passatismo, conservatorismo, spirito reazionario? No; semplicemente, amore per la buona, sana, chiara teologia cattolica. Quanto ai dubbi dei teologi odierni, che se li tengano: quello è affar loro; ma non vengano a confondere le idee ai semplici fedeli, a turbare le anime, a vomitar fuori tutti i loro contorti vaneggiamenti, miranti a porre Dio fra parentesi e ad insediare, sul suo trono, l’Uomo…
La rivolta dei teologi cattolici contro san Tommaso preannuncia l’auto-demolizione della Chiesa
di
Francesco Lamendola
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