SANTA MESSA BARAONDA DA CIRCO
di Francesco Lamendola
Scambiatevi un segno di pace, dice il sacerdote, durante la Messa – la nuova Messa, sia ben chiaro; perché, prima della riforma liturgica del Concilio Vaticano II, non esisteva nulla del genere, e nessuno se lo sarebbe mai sognato – allorché si avvicina il momento dell’Eucarestia, appunto per predisporre l’animo dei fedeli all’esortazione di Gesù: Vi lascio la pace, vi do la mia pace, peraltro omettendo il seguito di quella frase, riportato nel Vangelo di Giovanni (14, 27): ve la do, non come la dà il mondo, cosa che sfuma alquanto il senso della raccomandazione di Gesù, che è tutto giocato sulla contrapposizione fra il mondo e il Vangelo.
Ebbene, a quel punto scoppia, sovente, la baraonda: i fedeli non si limitano a scambiarsi una stretta di mano con il proprio vicino, a destra e a sinistra, ma si girano all’indietro, si protendono in avanti, escono dai banchi, camminano lungo le navate, vanno in cerca di quante più persone possibile alle quali stringere calorosamente le mani, con grandi sorrisi e ammiccamenti, come una scolaresca cui il maestro abbia detto: Vi lascio cinque minuti di libertà, fate quel che volete: è come se foste in ricreazione.
E i bambini ne approfittano, eccome se ne approfittano, quasi non avessero aspettato altro per affrettarsi ad uscire dai banchi, sgranchirsi le gambe, parlare tutti insieme e fare un bel po’ di confusione.
E non basta: succede che il sacerdote molli tutto, scenda giù dai gradini dell’altare, esca dal presbiterio e si affanni lui pure a stringere mani, quante più mani gli riesce, non solo tra i fedeli seduti nei primi banchi, ma anche più in là, anche in seconda e in terza fila; per non parlare dell’eventuale sacerdote con il quale sta concelebrando, dei coristi raccolti ai lati dell’altare, del (quasi) immancabile chitarrista, dei chierichetti e, se possibile, del sagrestano o del volontario incaricato di raccogliere le offerte dei fedeli. Anche il sacerdote con molta enfasi, anche lui con molta elasticità e gioco di garretti, saltellando avanti e indietro, a destra e a sinistra; anche lui tutto agitato e felice di potersi muovere, le vesti svolazzanti, come se fosse desideroso di far vedere che non è una vecchia mummia, ma un giovanotto simpatico e non privo di agilità, né di quel saper vivere che conquista i più ritrosi e accaparra la popolarità. Vedete che bel parroco abbiamo noi, che parroco giovanile, dinamico, scattante, tutt’altro che ingessato, tutt’altro che imbambolato? Altro che i parroci di una volta, così rigidi e legnosi, così freddi e inespressivi, così chiusi e riservati nel loro ministero sacerdotale, quasi appartenessero a un altro mondo, a un’altra dimensione, e avessero in disdegno il contatto fisico con le loro pecorelle?
Sono, molto spesso, gli stessi sacerdoti che tollerano, quando addirittura non sollecitano gli applausi nel bel mezzo della Messa, e non solo in occasione delle esequie per i defunti, contesto peraltro già del tutto fuori luogo, ma pressoché sempre, ad ogni minima occasione e ad ogni pretesto che si offra. I bambini del coro hanno cantato bene, il chitarrista ha strimpellato con entusiasmo? Un bell’applauso, signori; mostriamo loro di aver apprezzato, di aver gradito lo spettacolo. Oppure il sacerdote, nel corso della sua omelia, ha creduto bene di piazzare una bella battuta, magari in dialetto, magari un po’ forte, un po’ audace, un po’ spinta? Ed ecco, dalla platea parte l’applauso: incominciano due, tre, quattro, come una claque; e poi tutti gli altri a seguire, in crescendo, per diversi minuti, come se si fosse al circo o come allo stadio. Così, tra frizzi e lazzi, il clima della santa Messa finisce per diventare sempre più esteriore, sempre più mondano; e, sia pure con le migliori intenzioni di questo mondo, tutti quanti s’immergono in una atmosfera che non ha nulla di spirituale e che non solo non favorisce il raccoglimento, ma distoglie da esso e, quindi, dall’ascolto di Dio, per rivolgere ogni attenzione alla dimensione di quaggiù.
Ora, tutto questo è paradossale. L’idea di scambiarsi il segno della pace (a parte le evidenti ipocrisie cui può dare luogo: perché non basta certo stringesi la mano e abbozzare un sorriso, per seppellire rancori e gelosie che, magari, si trascinano da anni) dovrebbe favorire, in realtà, il raccoglimento, e predisporre il fedele a quello stato di abbandono mistico che si richiede per l’estrema serietà del momento: l’incontro con Gesù eucaristico, ossia con il mistero del Sacrificio che sta al centro della Messa. San Tommaso d’Aquino ha ricordato che si tratta del miracolo più grande compiuto da Dio per gli uomini, perfino più grande della Risurrezione: perché nella Risurrezione Gesù Cristo è ritornato ai suoi discepoli in un luogo e in un tempo determinati, mentre, attraverso il Sacrificio della Messa, egli risorge e ritorna ai suoi fedeli in ogni tempo e in qualsiasi luogo, incessantemente e indefinitamente. Questo per dire quanto sia solenne il momento dell’Eucarestia: è il momento più solenne, in assoluto, non solo nella liturgia della santa Messa, ma nella vita della Chiesa e in quella di ciascun fedele; il più denso di significato, il più sublime, e anche il più misterioso (ovviamente nel significato teologico della parola “mistero”).
Accostandosi al banchetto eucaristico, il fedele, fisicamente ancora immerso nella dimensione terrena, è come se entrasse direttamente nella dimensione ultraterrena; diremo meglio: non è come se entrasse, bensì: entra direttamente nella dimensione ultraterrena, soprannaturale. A chi lo vede dall’esterno, egli appare ancora immerso nella realtà naturale, e ad essa soggetto, con le sue leggi fisiche, chimiche, biologiche, eccetera; ma, nel segreto della sua anima, egli non è più qui, nella dimensione terrena: è già entrato, felicemente e luminosamente, nella realtà vera ed essenziale, quella che sta oltre la natura e sopra la natura; quella che non conosce più il dentro e il fuori, il passato e il futuro, il vicino e il lontano, il prima e il dopo, ma solo il qui e ora fuori dal tempo e fuori dallo spazio, a tu per tu con il Salvatore. È la più grande, la più commovente, la più intensa esperienza emotiva, affettiva, spirituale e intellettuale che un essere umano, un credente, possa fare nel corso della sua vita. Crediamo che nemmeno le esperienze mistiche di certi santi possano reggere il confronto con essa: perché il mistero della Comunione è offerto a tutti, anche ai bambini, e produce effetti di grazia abbondanti e straordinari, che niente altro può eguagliare. A Katharina Emmerich bastava assumere la particola consacrata per restare in vita; e visse così per molti anni. Lo stesso accadde a Marthe Robin, e ad altri ancora.
Ci domandiamo come sia possibile che, per prepararsi a ricevere il massimo fra i Sacramenti, e fare la più intensa e decisiva esperienza spirituale della vita cristiana, si possa trasformare la chiesa, nel bel mezzo della santa Messa, in una specie di allegro ritrovo o di circolo ricreativo, dove tutti, giovani e vecchi, uomini e donne, si agitano, si sbracciano, si muovono su e giù con la scusa di “scambiarsi un segno di pace”. Gesù non disse, a quel che ci risulta: Scambiatevi un segno di pace, ma disse: Vi lascio la pace, vi do la mia pace; ve la do, non come la dà il mondo. Ma Gesù, poverino, è vissuto prima del Concilio Vaticano II: era un tradizionalista anche lui, non capiva il bisogno di partecipazione dei fedeli; non conosceva la “svolta antropologica” di Karl Rahner e compagni in teologia (che volete farci, ciascuno ha i suoi limiti, ciascuno ha le sue disgrazie), e pensava, guarda un po’, che a dare la pace era Lui, e che non si trattava d’una cosa che i suoi seguaci si potessero dare da sé, o scambiare fra di loro. Non era una pace umana, infatti: e lo disse in modo esplicito: Ve la do, non come la dà il mondo. Più chiaro di così… Ma no, sono arrivati Karl Rahner, Edward Schillebeeckx, Walter Kasper e alcune altre teste fine, uomini d’ingegno, teologi all’avanguardia, e le cose sono diventate ancora più chiare: finalmente abbiamo ricevuto, per merito loro, la giusta chiave di lettura del sacrificio eucaristico, e abbiano compreso che non si tratta di una cerimonia in cui i fedeli ricevono il Signore, nelle due specie del pane e del vino, che sono il suo corpo e il suo sangue, ma nella quale i fedeli, ricordando il Signore, si complimentano e si sorridono l’un l’altro, si glorificano a vicenda e si auto-magnificano, visto che il Vangelo è rivolto all’uomo ed è fatto per l’uomo, dunque bisogna che l’uomo la smetta di stare inginocchiato e riverente e si assuma la responsabilità di essere un credente, sì, ma un credente adulto, razionale, maturo, e non già animato da una fede ingenua e fanciullesca.
Qualcuno dirà che la cosa non è poi così importante e che stiamo attribuendo troppi significati a un gesto che vuol essere, in fondo, innocente e spontaneo, come lo è quello di stringersi la mano per mostrare concordia e fratellanza nel nome del Signore. Francamente, vorremmo che fosse così: preferiremmo sbagliarci, e incorrere nell’errore di vedere, in quel gesto, più cose e più intenzioni di quante, in effetti, non ve siano. Purtroppo, siamo certi di non sbagliare. Infatti, non si tratta di considerare solo quel singolo segmento della liturgia della nuova Messa post-conciliare; si tratta di collocare quel gesto nella cornice assai più ampia dell’intera Messa, nella quale, un poco alla volta, senza fretta, senza averne troppo l’aria, molte, moltissime cose sono state cambiate, con tale abilità che parecchi cattolici non se ne sono praticamene accorti. Sono state cambiate numerose formule responsoriali; sono state cambiate le traduzioni del testo della Bibbia, a giudizio della Conferenza Episcopale Italiana, magari per cercare una “concordanza” ad ogni costo con i fratelli separati delle varie chiese protestanti, e talvolta con risultati sorprendenti; sono stati cambiati dei gesti, e persino i criteri nella scelta delle letture del Vecchio e del Nuovo Testamento; è stato cambiato perfino il giorno della santa Messa, che non è più solo la domenica, ma la domenica e il sabato sera, per consentire ai fedeli di godersi la domenica in maniera totalmente profana, magari all’insegna del consumismo più sfrenato, dopo aver espletato in anticipo i noiosi “doveri” verso Dio. Non parliamo, per carità cristiana, dell’abbigliamento con il quale numerosi fedeli si presentano alla santa Messa: più adatto, specialmente nella stagione estiva, alla passeggiata in una località balneare, che all’incontro con Gesù eucaristico.
Bisogna mettere insieme tutte queste tessere per avere un’idea esatta del mosaico, nella sua totalità. E il quadro che ne vien fuori è decisamente malinconico, perfino inquietante. Si direbbe che la santa Messa non sia più, per molti fedeli e per molti sacerdoti, quel che dovrebbe essere, quel che è, quel che è sempre stata: il momento più solenne di tutta la fede cristiana. Quello che regge tutti gli altri, e senza il quale non ci sarebbero né il cristianesimo, né la Chiesa, né la fede di ciascun singolo credente. Come dice san Paolo, nel suo stile conciso ed efficacissimo, di una consequenzialità impressionante (nella Prima lettera ai Corinzi, 15, 13-19):
Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono. Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini.
Stringersi la mano è un gesto umano, troppo umano; ed è un gesto che non ha nulla a che fare con la pace che Cristo dona a quanti credono in Lui, e si apprestano a rinnovare il Sacrificio dell’Ultima Cena. Gesù, quando disse: Vi lascio la pace, eccetera, stava parlando del dono dello Spirito Santo, che sarebbe sceso sui suoi discepoli e li avrebbe consolati, istruendoli su tutte quelle cose nelle quali Egli non li aveva ancora istruiti, perché non sarebbero stati capaci d’intenderlo. La pace che Gesù lascia ai suoi, pertanto, è la Grazia che scende sugli uomini per mezzo dello Spirito Santo, se essi si fanno piccoli e umili di cuore e se si affidano interamente, incondizionatamente a Lui. Altro che stringersi la mano fra di loro, quasi che la santa Messa sia una cerimonia sostanzialmente umana, fatta dai fedeli per solidarizzare tra loro. Ma tant’è: questi sono i frutti della “svolta antropologica” in teologia, e non c’è motivo di meravigliarsene. Una volta stabilito il principio che non è l’uomo a dover cercare Dio per conoscerlo, amarlo e servirlo (come s’insegnava un tempo nel Catechismo di san Pio X), ma è Dio che vuol vedere l’uomo rivendicare la sua autonomia e, quasi, la sua autosufficienza (etsi Deus non daretur, “come se Dio non vi fosse”, sproloquiano e vaneggiano certi teologi “cattolici” neomodernisti e progressisti), è chiaro che il cristianesimo incomincia a diventare un’altra cosa, e precisamente una religione dell’Uomo. È questo, allora, che si vuol fare, quando ci si reca alla santa Messa: celebrare l’uomo, con la benedizione (carpita in mala fede) di Dio? Strano; a noi sembra tanto che ciò equivalga al rinnovarsi del Peccato originale: peccato di folle superbia da parte dell’uomo, e d’invidia e ribellione nei confronti del suo Creatore...
Se l’Eucarestia introduce nella vita divina, che c’entra la baraonda del segno di pace?
di Francesco Lamendola
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