VANGELO FARLOCCO DI ROUSSEAU
di Francesco Lamendola
Non è esatto affermare che l’uomo moderno si è allontanato dal vangelo; anzi, lo ha abbracciato in pieno; solo che è il vangelo sbagliato. Vangelo, o Evangelo, sta per “lieto annuncio”: eu anghélion; e il “lieto annuncio” sta, nel medesimo tempo, per una visione globale del mondo e per una norma indefettibile d’azione: ora, l’uomo moderno possiede una cosa del genere, ed è la filosofia di Jean-Jacques Rousseau.
Qual è il nocciolo della filosofia di Rousseau, che è una “filosofia”, appunto, non nel senso di discorso speculativo sulla natura del reale, bensì in quello di “lieto annuncio”? È molto semplice, e lo si può riassumere in una sola frase: L’uomo è buono, ma infelice, perché si trova in catene; la società è cattiva, ed è essa che lo ha incatenato; spezzate quelle catene, rifate la società, e l’uomo ritroverà, insieme, sia la libertà che la felicità. Bello, no? Suona bene; è convincente; è rassicurante; e, allo stesso tempo, offre una chiara linea dazione all’individuo, sempre e comunque (ma l’individuo astratto, ossia l’Uomo; non già l’individuo concreto, ossia la singola persona), contro la società. La società è il male; cambiatela, e diverrà la fonte di ogni bene, e tutti vivranno felici e contenuti. Un vangelo adatto per dei microcefali, per degli imbecilli, per dei minorati mentali, quali son diventati gli uomini moderni; e un vangelo così facile che qualsiasi deficiente, appunto, lo può mandare a memoria e sentirsene infervorato, lanciandosi all’assalto per la edificazione del Nuovo Mondo, che sarà, infallibilmente, più Bello, più Buono e più Giusto.
L’uomo moderno, perciò, perfino quando non ne è consapevole, perfino quando si tratta del tipo umano più lontano da ciò – è naturalmente rivoluzionario. Gli ingredienti essenziali dello spirito rivoluzionario, infatti, sono tre: la scontentezza, il rancore, l’invidia sociale cronicizzati; il sovrano disprezzo per la tradizione, per il passato, per le radici; la baldanzosa certezza di poter rifare in meglio ogni cosa, purché si riesca a mettere le mani sulla “macchina” sociale: si tratta, infatti, d’una tipica visione meccanicistica, dove la società non è un organismo, cresciuto su se stesso, un anello dopo l’altro, come il tronco dell’albero, ma semmai qualcosa di simile a un orologio che si deve caricare. Ora, per fare questo, c’è bisogno d’una mappa mentale, di un prontuario d’intervento, di un manuale d’istruzioni: e il vangelo di Jean-Jacques è tutto questo, e forse anche qualcosa di più, nel senso che contiene anche gli elementi accattivanti del basso romanticismo: l’eroe “bello” in lotta contro un mondo sordo e grigio, un mondo di “mercanti” e “filistei”; insomma, Gesù Cristo più che Che Guevara (qualcuno ha detto che il marxismo è il Vangelo più la rivoluzione).
Ora, dimmi in quale vangelo credi, e ti dirò chi sei. Abbiamo già visto che i seguaci del vangelo di Jean-Jacques sono dei cerebrolesi disposti a credere a tutto, purché si possano intruppare dietro gli stendardi della rivoluzione (di qualsiasi rivoluzione, e anche controrivoluzione); nella versione attuale, la rivoluzione è quella tecnologica, e bisogna dire che è veramente la più adatta ai minuscoli cervelli degli uomini moderni: basta uno smartphone per consentire all’ultimo imbecille di sentirsi un Aristotele, più la tecnologia: un Aristotele, perché nell’individualismo di massa ciascuno si sente promosso al rango di genio per virtù infusa; mentre la disponibilità dei gingilli tecnologici lo inebria ulteriormente, dandogli la sensazione di poter interagire con l’universo mondo, irraggiandolo con la sua genialità (ad esempio, postando su Facebook i suoi imperdibili selfie, magari “rubati” accanto a qualche celebre nullità televisiva: asinus asinum fricat). Si ripensi alla mistica ”rivoluzionaria” del 1968, ai suoi simboli, ai suoi slogan, e si capirà ancor meglio quel che intendiamo dire.
Ha scritto Marcel De Corte nella Fenomenologia dell’autodistruttore. Saggio sull’uomo occidentale contemporaneo (titolo originale: L’homme contre lui-même, Paris, Nouvelles Editions Latines, 19622; trad. dal francese di R. Antonetto, Torino, Borla, 1967, pp. 132-133; 143-145; 148-149):
Considerato individualmente, l’uomo d’oggi appare a se stesso in segreto come un essere mancato, congenitamente segnato da una specie d’incapacità a diventare quello che è: un uomo. Il nostro secolo è quello degli “scontenti”. Non è soltanto della propria sorte economica, politica o sociale che l’uomo d’oggi non si contenta, ma piuttosto di se stesso e del suo destino di uomo. Mentre rifiuta la felicità rifiuta al tempo stesso la propria natura di uomo: si rivolta contro se stesso, contro il suo contenuto, contro i suoi limiti. Per un paradosso che è tra i meno sconcertanti, il superuomo di Nietzsche si è moltiplicato nei mediocri: il secolo ventesimo è quello della deificazione dell’essere umano, spesso del più vile: Dio è morto e l’uomo, qualunque uomo, lo ha sostituito. Una incredibile demagogia, fondata sull’adulazione e su una tecnica pubblicitaria senza precedenti, ha progressivamente portato l’uomo a gonfiare nell’astratto e nel vuoto le sue limitate possibilità concrete. Non c’è pigmeo che oggi non si ritenga un gigante, soprattutto nel campo affettivo, intellettuale e spirituale, nel quale è impossibile il controllo diretto. Una immensa letteratura si specializzata nell’ipertrofizzare l’uomo e nel battezzare le sue “esigenze”, i suoi umori, i suoi caprici, per non dire i suoi delitti: la stampa “del cuore”, i “digests”, la propaganda politica, perfino certe pubblicazioni religiose. Sotto questa enorme pressione sociale, l’uomo moderno aspira continuamente a superare la sua capacità di essere, ma fuggendo se stesso, diventando null’altro che fuga e movimento. Il suo complesso di superiorità è il prodotto sublimato del suo complesso d’inferiorità, la sua passione per il superarsi nasce dai suoi successivi aborti. Gli sembra intollerabile prendere su di sé la propria condizione umana, renderla stabile, e intravedere così la felicità […]
Non c’è mito più nocivo che la convinzione di essere portati avanti da un movimento irresistibile: questa convinzione uccide l’intelligenza, perché essa ha bisogno d’una specie di pausa, ha bisogno di tirarsi indietro di un passo, prima di giudicare; le impedisce di distinguere il bene dal male, la realtà dall’apparenza; la abbandona, vinta o vittoriosa, ai Machiavelli che cercano di conquistare il potere. Così, sotto il pretesto di “liberarsi”, l’intelligenza abdica alla sua capacità di giudizio e alla sua libertà. Persuasa che non si può far nulla per risalire il corso della storia, si abbandona, come un cadavere alla corrente, a tutti i sofismi, purché siano strombazzati abbastanza dall’alto per soffocarla. Diventa incapace di discernere la salute dalla malattia, e di constatare che guarire non significa affatto ritornare all’età che si aveva all’inizio della malattia. Rifiuta la salute, e arriva perfino a chiamare beni i mali che la schiacciano, e felicità la sua disgrazia. È prigioniera dell’opportunismo, del conformismo: “Vox populi, vox Dei”. Trasformandosi in intelligenza collettiva, si nega come intelligenza. È normale: l’uomo che non conosce il suo bene non cessa per questo di desiderarlo, d’un desiderio informe e senza volto, nervoso e indeterminato, che si confonde con il movimento del tempo, con lo svolgimento della storia. Sprovvisto di intelligenza e di finalità reali, l’appetito umano si riduce a un indifferenziato divenire, che rende uguali e mobili tutte le condizioni, nella misura stessa in cui è indeterminato e mobile. Privo d’una direzione, esso è braccato in tutti i sensi; sgretola tutte le diversità individuali o specifiche; livella la molteplicità gerarchizzata degli esseri e delle cose, e ciascuna diventa allora il sosia di tutti. La fraternità si pere nella similitudine; razze e patrie svaniscono, classi e persone diventano nebbia, e la natura a sua volta è volatilizzata e costituisce con l’umanità unanime un tutto unico, una “noosfera”, come scrive nel suo gergo Teilhard de Chardin; una “noosfera” che tende all’unità attraverso la miriade dei punti di coscienza fuggevoli e occasionali che sono gli uomini. L’universo si trasforma in “Colui che è Unico”, ne diventa il corpo, in cui tutti gli uomini, confusi in una specie di democrazia mistica e panteistica, godono della beatitudine per virtù automatica della storia che li muove. Questo, il sogno messianico sollevati del desiderio degli adoratori della storia; ed è la misura della degradazione dell’intelligenza e del risentimento contro la felicità personale che imperversano nelle diverse ideologie contemporanee. L’uomo moderno, schiavo di un desiderio che si rivela incapace di illuminare, ritorna automaticamente all’ideale della felicità, caratteristico dell’alveare o del termitaio. […]
L’ossessione della felicità collettiva e il magico prestigio della storia sono i segni d’un rovesciamento interiore di valori nello spirito dell’uomo contemporaneo. L’epoca moderna è stregata dalla rivoluzione a tal punto che non ne percepisce più la suggestione, come un morfinomane perduto negli incantesimi fantastici della droga. La maggior parte dei controrivoluzionari sono essi stessi dei rivoluzionari sena credere di esserlo, i quali mettono sossopra la realtà proprio pretendendo di raddrizzarla. Lo spirito rivoluzionario si condensa interamente nella formula del vangelo secondo “l’apostolo” Jean-Jacques: l’uomo è infelice perché dipende da una società malfatta: il rifacimento di questa società gli darà la felicità a cui aspira. Non è l’uomo in carne ed ossa che deve dargliela, liberandolo dai mali che lo opprimono. Il Sociale è il Benne, il Bene il Sociale; la Società è Dio, e Dio è la Società. Essa sola conosce il bene e il male, discrimina tra buoni e cattivi, pronuncia le benedizioni e le maledizioni. Il Sociale si trova investito di tutti i privilegi dell’Etica e della religione. Per lo spirito rivoluzionario, l’esistenza sociale rinnovata dalla rivoluzione è rivestita di carattere sacro: attentare alle sue conquiste sociali sarebbe non solo un delitto ma una profanazione. L’Arca dell’Alleanza che il messianismo e il razionalismo riconsacrano è intoccabile. La nuova Società è un Assoluto a cui l’uomo non può accostarsi senza morire: è insieme una Chiesa, una Provvidenza, un Redentore e un Salvatore. Il suo marchio s’imprime sugli atti stessi degli uomini: “Senza di me non potete fare nulla” o meglio “non siete proprietari di voi stessi”. Come ha sottolineato acutamente Michelet, la rivoluzione continua il cristianesimo e nello stesso tempo lo contraddice: ne è insieme l’erede e la nemica”. In parole più povere, ne è la caricatura.
D’altra parte, c’è una ragione ben precisa nella preferenza accordata dal mondo moderno al vangelo apocrifo di Jean-Jacques rispetto al Vangelo di Gesù Cristo, ed è perfettamente in linea con il nucleo psicologico più tipico della modernità: ossia la pretesa di conseguire il massimo dei risultati con il minimo del sacrificio e dell’impegno, di poter avere assai più di quanto si è disposti a dare, e, cosa ancor più importante, di potersi trovare dalla parte della ragione anche quando si aveva torto marcio. Non si tratta di un gioco di prestigio particolarmente raffinato, al contrario: si tratta, semplicemente, di affidarsi alla corrente del Progresso. I rivoluzionari sono fautori del Progresso; e, siccome il progresso è, per definizione, irresistibile, cioè ha sempre ragione (perché chi vince sempre ha ragione per definizione, anzi è la Ragione incarnata), allora anche l’uomo moderno, purché rivoluzionario e progressista, si troverà sempre ad aver ragione, qualunque cosa accada e qualsiasi errore o crimine abbia commesso.
Bisogna poi aggiungere che la civiltà moderna, proprio perché costruita sul mito del Progresso, ha la memoria corta, cortissima: il progresso divora ogni cosa con velocità sbalorditiva, perché si fonda sulla superiorità indiscussa e indiscutibile del presente, di qualunque presente, sul passato; e se, come avviene ai nostri giorni, il progresso è essenzialmente progresso tecnologico, ne deriva che bastano pochi anni, pochi mesi, poche settimane, per usurare le “novità” e per proiettare in avanti le neo-novità e le post-novità (come, appunto, il post-moderno). Ora, se la memoria è annullata, è evidente che nessuno si accorge delle promesse non mantenute, delle previsioni clamorosamente mancate, delle profezie fallite (e i politici, infatti, l’hanno capito benissimo, alzando continuamente il livello della loro cialtroneria e la loro tendenza a far promesse sempre più grandiose e altisonanti, in perfetta malafede). E dunque, perché mai bisognerebbe preoccuparsi se domani il Progresso smentirà completamente quel che si era proclamato, con i più sacri giuramenti, appena ieri? Nessuno ricorda, nessuno nota le incongruenze, nessuno reclama, né domanda ragione delle più plateali contraddizioni.
Ciò detto, è chiaro che il vangelo di Jean-Jacques piace in modo particolare a una umanità rimbambita, proprio perché è un vangelo da bambocci (non da bambini, che è cosa assai diversa): assolve tutti da ogni responsabilità, solleva tutti da ogni serio impegno, e addossa ogni colpa e ogni male alla società. In base ad esso, non c’è bisogno di lavorare su se stessi, di imparare qualcosa dai propri errori, di raccogliersi in silenzio, di meditare sulle sconfitte, di perfezionarsi e di elevarsi: non c’è bisogno, perché noi siamo già buoni, eccellenti, perfetti, e l’unica cosa che va cambiata non è in noi, ma fuori di noi: è la società. Tutto questo rafforza a dismisura le tendenze narcisiste già tipiche dell’uomo moderno, e già artificialmente alimentate dal sistema consumista e pubblicitario, che lo sottopone a un vero e proprio martellamento quotidiano, fino a convincerlo che nulla al mondo è più importante o più ammirevole della sua abbronzatura, del taglio dei suoi vestiti, dei gioielli che indossa, del tipo di automobile sulla quale va in giro.
Il bello è – si fa per dire – che tutto questo disprezzo per la società brutta e cattiva, per i padri, per la tradizione, finisce per alimentare un culto mostruoso nei confronti della Società futura; e che tutto questo narcisismo nei confronti dell’Individuo finisce per generare il più abietto avvilimento che l’individuo abbia mai conosciuto. Infatti, se la società è cattiva, mentre l’uomo è buono, allora bisognerà dedicare ogni studio a cambiare la società, onde rendere l’individuo felice: ma, così facendo, si sottrae la ricerca della felicità all’uomo concreto e la si demanda ai risultati di un lavoro collettivo, a una entità superindividuale, ad un Moloch mai sazio di lacrime e sangue, che sarà la Società stessa: non quella attuale, naturalmente, ma quella che si vuol costruire, e che immancabilmente verrà realizzata, sotto la spinta irresistibile del Progresso, Ma il Progresso, per definizione, è proiettato sempre un passo più avanti del presente, confina con la barriera dei sogni, compreso il sogno della Grande Felicità. Ed è così che l’uomo concreto sacrifica la sua possibile felicità individuale ad una impossibile e irrealizzabile felicità futura, che gli verrà data in dono, egli pensa, quando la Società peretta sarà stata edificata.
E anche in questo ragionamento delirante c’è una logica, chiarissima e, a suo modo, coerente. L’uomo moderno non accetta il suo limite ontologico, non accetta di essere creatura: vuol farsi dio, il dio di se stesso. E la prova ne è che egli non accetta la sua mortalità, e non vuol neppure sentirla nominare, altrimenti va su tutte le furie. Ma, così facendo, sarà sempre infelice: è infelice, infatti, colui che non si accetta per quel che è, colui che litiga incessantemente con il principio di realtà. Pertanto, non gli resta altro da fare che attribuire la colpa della sua infelicità alla società cattiva, e aspettare, magari all’infinito, però con fede – mio Dio, quale immenso spreco di fede! – l’arrivo della felicità futura, che, sulle ali del Progresso, prima o poi la Società, finalmente raddrizzata nelle sue storture, donerà a tutti e a ciascuno.
Chi lo dice che l’uomo moderno è un cinico, un disincantato, e che non crede più a niente? Al contrario: come aveva ben visto Gilbert Keith Chesterton, l’uomo moderno, proprio perché non crede più a Dio, non è diventato razionalista, bensì è diventato capace e disposto a credere in qualsiasi cosa…
Liberarsi dal vangelo farlocco di Rousseau per tornare al Vangelo di Cristo
di
Francesco Lamendola
http://www.ilcorrieredelleregioni.it/index.php?option=com_content&view=article&id=10541:vangelo-farlocco-di-rousseau&catid=96:filosofia&Itemid=124
L’uomo moderno è in preda a mille demoni perché ha spezzato la sua unità interiore. L'immagine deformata del Medioevo e la preferenza accordata dalla cultura cristiana alla filosofia di Aristotele rispetto Platone di Francesco Lamendola
UNITA'INTERIORE DELL'UOMO
Non sono ancora passati tre anni da quando quella volontà malvagia e perversa che tutto mi possedeva e che regnava incontrastata nel mio spirito cominciò a provarne un’altra, ribelle e contraria; e tra l’una e l’altra da un pezzo, nel campo dei miei pensieri, s’intreccia una battaglia ancor oggi durissima e incerta per il possesso di quel doppio uomo che è in me.
Così Francesco Petrarca, nella famosa epistola in cui descrive, a Dionigi da Borgo San Sepolcro, l’ascensione al Monte Ventoso, in Provenza, descrive la sua intima natura: quel doppio uomo che è in me. E quel che Petrarca coglie in se stesso e dice di sé, vale anche per l’uomo moderno in generale, di cui egli è il primo, consapevole rappresentante, come iniziatore dell’Umanesimo. L’uomo moderno è “doppio”, duplice, o anche molteplice, perché qualcosa ha spezzato la sua unità interiore; ma prima non era così. E Machiavelli, che è il primo filosofo moderno, ha ben presente questa natura spezzata e costruisce la sua filosofia della politica partendo appunto da questo dato: per lui non ci sono più il bene e il male, ma l’utile e il dannoso, sempre relativamente alle situazioni, mai secondo una norma fissa, una morale assoluta.
L’uomo medievale, al contrario, era coeso e ben saldo in se stesso: basti pensare a Dante. Ma quel che vale per Dante, vale anche per l’ultimo contadino o pastore o fabbro ferraio: con o senza cultura, con o senza una particolar intelligenza, l’uomo medievale è coeso e sente di appartenere a un tutto unico; di esser cucito, per così dire, in un solo pezzo di stoffa. In questo, egli è assai più simile all’uomo antico, all’uomo greco e romano, di quanto non lo sia all’uomo moderno: la continuità della coscienza si spezza al sorgere della modernità, e non all’apparire del cristianesimo. Il cristianesimo ha spiritualizzato la natura, ma senza disprezzarla, e, soprattutto, senza staccarla dall’anima; la persona, infatti, è un’anima incarnata, e il suo destino soprannaturale si decide quaggiù, nelle scelte che essa fa nel corso della vita terrena, dentro un corpo di sangue e carne, agitato da passioni, ma guidato dalla ragione e illuminato dalla fede. Il fatto che il Verbo si sia incarnato e che sia risorto corporalmente, e corporalmente asceso al cielo; e il fatto che il Giudizio finale verrà preceduto dalla resurrezione dei corpi, dicono fino a che punto nell’uomo medievale fosse chiara la consapevolezza della dignità della natura e della sua bontà originaria, poi lacerata dal Peccato originale, ma destinata a ricomporsi per merito del sacrificio di Cristo e per l’effusione di grazia dello Spirito Santo.
Scriveva acutamente, come sempre, Marcel De Corte nella sua Fenomenologia dell’autodistruttore. Saggio sull’uomo occidentale contemporaneo (titolo originale: L’homme contre lui-même, Paris, Nouvelles Editions Latines, 19622; traduzione dal francese di Roberto Antonetto, Torino, Borla, 1967, pp. 163-165):
Il medioevo è dominato dalla concezione aristotelica dell’uomo, integrata nel cristianesimo dal genio di san Tommaso. Dell’uomo medievale, si può dire, all’ingrosso, che è tutto d’un pezzo, senza rotture e crepe fra le componenti del suo essere, come un contadino la cui semplicità ignora i conflitti psicologici propri del cittadino, sollecitato in direzioni diverse dalle seduzioni della civiltà urbana e portato così speso a spingere all’estremo la sua visione cerebrale del mondo. Il suo atteggiamento di fronte al reale è sintetico, non analitico, ed egli riconosce se stesso come un tutto, proprio alla maniera degli esseri e delle cose della natura che osserva intorno a sé e alla cui vita si mescola. Un albero non è per lui delle radici più un tronco più delle fronde, perché le parti ricevono la vita da un principio unico. Un animale non è un’addizione di organi e di membra giustapposte come gli ingranaggi di una macchina, ma un essere vivente che trae la sua vita da un’entità misteriosa serpeggiante, senza distinzione, in tutte le sue parti: quella che i sapienti chiamano anima. L’universo appare all’uomo medievale come una vasta rete di corrispondenze che concordano fra di loro in maniera organica. La sua concezione dell’uomo del mondo è essenzialmente vitalistica. Nulla di strano quindi che l’uomo del medioevo, formato dal contatto con la natura, abbia adottato nel suo comportamento, in modo conscio per i colti, inconscio per gli incolti, la dottrina aristotelica, che gli si adatta come un guanto. Per Aristotele infatti l’anima non è separata dal corpo, né lo spirito dalla carne: le due entità, incomplete, esistono l’una per l’altra. È stato l’aristotelismo cristiano a orchestrare questa concezioneUNITARIA dell’uomo, secondo cui lo spirito è carnale, per riprendere la formula di Péguy, uomo del medioevo capitato per sbaglio nel secolo XIX. Senza dubbio, la grazia è distinta dalla natura, ma, lungi dall’abolirla, la porta a compimento, incarnandovisi, Non è affatto una mano di pittura, o un compensato deposto sull’uomo, ma è invece intimamente mescolata alla sua vita, come il nutrimento al sangue, e costituisce il principio di tutte le sue azioni soprannaturali e l’origine delle sue virtù teologali. L’aristotelismo cristiano è governato dalla legge dell’incarnazione radicale della grazia e dell’anima nel corpo, con il quale fanno un TUTT’UNO.
Non ci sono dunque per l’uomo medievale l’anima da una parte e il corpo dall’altra, come un pilota in un vascello, ma un solo essere tutto d’un pezzo. Non c’è da una parte il soprannaturale e dall’altra il naturale, ma un essere umano completo: l’uomo battezzato, completamente naturale e completamente soprannaturale, nella misura in cui realizza in sé le esigenze della natura e della grazia. L’essere umano è dunque per il medioevo un individuo nel senso più forte della parola, vale a dire un essere indiviso. Soltanto la morte viene a rompere questa fondamentale unità: ma la morte, nella prospettiva cristiana, non è altro che la porta aperta verso la risurrezione, nella quale anima e corpo si ricongiungono, e si ricostituisce l’unità concreta dell’essere umano. Le scene della risurrezione che si vedono sui portali delle cattedrali romaniche o gotiche del medioevo non sono soltanto la traduzione in immagini del giudizio finale, ma anche il simbolo della ricostituzione dell’essere umano integrale, dotato di un’anima, provvisto di carne ed ossa, destinato ad una gioia eterna, o ad una sofferenza eterna, a seconda del modo in cui ha vissuto. Il dogma della risurrezione dei corpi è strettamente legato alla concezione unitaria dell’uomo passata dal’aristotelismo al cristianesimo.
Il macrocosmo dell’universo non è altro che il gigantesco ingrandimento del microcosmo dell’uomo. Anch’esso è sottoposto alla regola d’oro dell’unità delle parti che lo compongono. Ogni fenomeno terrestre ha il suo corrispondente celeste, e viceversa; il dogma del corpo mistico della Chiesa, nel suo triplice aspetto militante, sofferente e trionfante, sottolinea ancora una volta la stretta solidarietà che esiste fra la concezione gerarchizzata e unitaria del “cosmos” aristotelico e la teologia cristiana.
L’uomo si trova dunque in accordo fondamentale con l’universo nel quale s’inserisce per destino di nascita, Senza dubbio, il peccato originale ha allentato questa relazione, ma non l’ha ritta completamente. L’uomo è stato escluso dal beneficio della grazia ma la natura in lui, per quanto ferita, non è stata corrotta al punto da non essere più natura…
Una immagine storpiata e deformata del Medioevo, di ascendenza illuminista, e passata di generazione in generazione fino ai nostri giorni, soprattutto per merito di quel conformismo intellettuale che è così tipico della modernità (con buona pace del suo tanto sbandierato “senso critico”, che si riduce, in realtà, alla critica di ciò che le si oppone o che risulta inconciliabile con essa), ci presenta, invece, l’uomo medievale come intimamente scisso e lacerato fra i desideri e gli appetiti della carne e il richiamo delle cose spirituali. Tale, ad esempio, è l’immagine che emerge da romanzi come Il nome della rosa, di Umberto Eco; e tale è l’immagine che molti commentatori del carteggio fra Abelardo ed Eloisa vogliono trasmettere alla mente dei lettori; per non parlare di quei commentatori di Dante che citano il quinto canto dell’Inferno, e l’episodio di Paolo e Francesca, come tipico esempio dello sdoppiamento cui il Dante teologo e moralista costringe il Dante uomo e poeta. Nient’affatto: nessuno sdoppiamento, nessuna lacerazione, e, quindi, nessuna contraddizione: non è contraddittorio il fatto che Dante, pur partecipando intensamente al dramma umano di Paolo e Francesca, li ponga tuttavia all’Inferno: la contraddizione, se c’è, non appartiene alla cultura medievale in quanto tale, ma alla condizione umana. La lacerazione incomincia con l’Umanesimo e l’abbiamo vista in Francesco Petrarca, per la sua stessa bocca. È Petrarca che non riesce a mettere d’accordo l’uomo carnale e l’uomo spirituale, che in lui convivono e si fanno la guerra; l’uomo medievale conosce quella guerra, ma è proteso verso la pace, perché sa come essa si combatte e come si vince: lo ha mostrato Cristo, lo ha insegnato san Paolo: si vince facendo la volontà del Padre. Quando si è nella grazia di Dio, la guerra fra i sensi e l’anima si acquieta e subentra la pace. Si noti, peraltro, che “i sensi” non sono il corpo, non sono tutto il corpo; e nemmeno la carne è tutto il corpo: i sensi sono ciò che induce la carne verso il peccato, sono le vie d’accesso alla tentazione attraverso la fragilità umana; ma sono anche gli strumenti che consentono all’uomo di apprezzare la creazione in tutta la sua bellezza e il suo splendore: Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate Sole, o quale è iorno, et allumini noi per lui…
E qui il discorso cade inevitabilmente sui digiuni, sulle mortificazioni, sul cilicio e sulle confraternite dei battuti o flagellanti. La moglie di Jacopone indossava il cilicio sotto la veste da festa: ciò apparve quando il suo corpo venne ricomposto, dopo il crollo del pavimento della sala in cui si ballava; nemmeno suo marito lo sapeva. Ora, si dice, se l’uomo medievale praticava queste forma di penitenza, ciò significa che era interiormente scisso. E perché mai? Essere scissi, significa sentirsi presi fra due opposte spinte, fra due tendenze tanto prepotenti, quanto inconciliabili. Il desiderio di mortificarsi, e di mortificare il corpo, è un’altra cosa: non nasce dal disprezzo del corpo, ma dalla coscienza della fragilità della condizione umana sotto il profilo morale. Anche la raccomandazione di Gesù: Vegliate e pregate per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole, può essere facilmente fraintesa. È chiaro, infatti, che ad essere debole non è la carne, di per se stessa, bensì proprio lo spirito, attraverso gl’impulsi della carne. Ciò equivale al riconoscimento che vi è piena integrazione fra il corpo e l’anima, e che non si può pensare all’anima separandola dal corpo, dal suo legame indissolubile con esso (nella vita terrena: perché il corpo risorto sarà un corpo glorioso, non fatto di materia, ma splendente e incorruttibile). Mortificando il corpo, l’uomo medievale non esprimeva rabbia, disgusto e odio contro la peccaminosità del corpo, ma ricordava a se stesso che, per vivere in grazia di Dio, bisogna tenere a freno le tentazioni della carne. Nello stesso tempo, e, forse, ancor prima di questo, la mortificazione del corpo aveva un significato imitativo, piuttosto che punitivo: si voleva imitare la Passione di Cristo, essere simili a Lui nella sofferenza, per diventare poi degni della Sua misericordia, nella gloria. Perciò esse non erano solo uno strumento di auto-repressione, ma, in primo luogo, di auto-elevazione: cosa che noi moderni facciamo fatica a capire e ad accettare, perché siamo talmente immersi in un orizzonte edonista e permissivo, da non poter neanche comprendere un simile linguaggio.
Il fatto che l’uomo medievale non fosse affatto un odiatore della natura, e quindi neanche del corpo e della sessualità, permette di rendere ragione pure di un altro fatto, che, diversamente, resterebbe pressoché inspiegabile: la preferenza accordata dalla cultura cristiana alla filosofia di Aristotele, attraverso la mediazione di san Tommaso, rispetto a quella di Platone, che, di primo acchito, parrebbe assai più vicina alla spiritualità cristiana. Invece, a ben guardare, in Platone, e più ancora nel platonismo, vi è un dualismo irriducibile fra anima e corpo (non si diceva forse, di Plotino, che viveva come uno che si vergogni di avere un corpo?), dualismo che giungerà al culmine con il manicheismo e, più tardi, con il catarismo: un’eresia che la Chiesa combatté colla massima durezza, proprio perché avrebbe trascinato il cristianesimo fuori dai suoi binari, sulla strada dell’odio e del rifiuto della carne, svalutando la stessa Incarnazione e, addirittura, contrapponendo Cristo, il Dio fattosi uomo (che, a quel punto, non era più tanto divino…) al Padre celeste. È quindi logico che la cultura cristiana medievale abbia trovato una maggiore consonanza con l’aristotelismo (non con l’averroismo), che non postula un contrasto insanabile, ma una stretta unità fra l’anima ed il corpo...
L’uomo moderno è in preda a mille demoni perché ha spezzato la sua unità interiore
di
Francesco Lamendola
http://www.ilcorrieredelleregioni.it/index.php?option=com_content&view=article&id=10500:uomo-e-unita-interiore&catid=96:filosofia&Itemid=124
La storia sacra scorre in senso contrario alla storia umana. Storia che sarebbe il regno della brutalità e della disperazione se a bilanciarla non vi fosse un’altra storia quella sacra cioè dell’uomo che sente il richiamo di Dio di Francesco lamendol
STORIA SACRA E STORIA UMANA
Qualcuno riesce ad immaginare un fiume, o un torrente, che scorre dalla sorgente verso valle, nel bel mezzo della cui corrente avanza una corrente esattamente contraria, che risale dalla foce verso la sorgente, aprendosi la strada, per così dire, tagliando il filo della corrente principale, contro tutte le leggi della fisica e della dinamica? È una cosa difficile da immaginare e tanto più da descrivere: non è secondo la logica, né secondo l’esperienza; in natura non esiste niente del genere, e quindi esula completamente dai nostri schemi mentali. E tuttavia, non sapremmo escogitare una immagine più appropriata per descrivere il doppio movimento che si verifica nella storia, quella sacra e quella profana. Forse potremmo aggiungere che la controcorrente “impossibile”, quella che risale dalla valle verso il monte, non scorre in superficie, ma al di sotto, e quindi non è visibile, o lo è solo a tratti, e solo all’occhio particolarmente esercitato, altrimenti la sua esistenza sfugge completamente e l’unica corrente che si vede è quella principale, che segue le normalissime leggi della fisica e che scorre, come avviene in tutti i corsi d’acqua di questo mondo, dalla sorgente verso il mare.
La corrente naturale rappresenta il corso della storia umana. E la storia umana è fatta da uomini, non da angeli, checché ne pensino Platone, Rousseau, Marx e tutti coloro i quali hanno descritto o predicato futuri impossibili, che non tengono conto della natura umana quale essa è effettivamente, quale noi la vediamo, la osserviamo, la sperimentiamo, in noi stessi e negli altri: una natura imperfetta, ferita dal Peccato originale, che possiede una nozione e una nostalgia del bene, ma che, ciò nonostante, tende a fare il male, perché ciò le riesce assai più naturale che non il contrario. Per fare il bene, infatti, occorre andare contro gl’impulsi immediati dell’io, che reclama la propria continua gratificazione; che incessantemente brama o teme qualche cosa, e non trova mai pace, perché, se pure riesce a raggiungere quel che bramava, se ne stanca assai presto, o ne resta deluso, e rinasce in lui la brama di qualcos’altro – e, naturalmente, anche il timore di qualcos’altro; ad esempio, il timore di perdere per sempre, o di non riuscire a raggiungere, quel che brama.
E magari si trattasse solo di questo, cioè di una incessante, ossessiva, esasperata ricerca del proprio bene egoistico e di un incessante timore di non riuscire a raggiungerlo o a conservarlo. Ad essi si accompagna pressoché stabilmente un’altra componente, di natura estremamente maligna: l’invidia per il bene altrui, la gelosia nei suoi confronti, il rancore verso chi ci appare più fortunato, il desiderio di vendetta verso chi, secondo noi, è stato ingiustamente favorito dalla sorte, e ciò, naturalmente, a nostro danno. E non importa se si tratta di persone o situazioni che non ci riguardano direttamente, né, in alcun modo, ci potrebbero riguardare: noi ci sentiamo egualmente defraudati, egualmente offesi, egualmente risentiti, se qualcuno - con il quale mai entreremo realmente in competizione, per una quantità di ragioni oggettive che lo fanno escludere a priori - ha ottenuto qualcosa che noi, potendolo, avremmo desiderato al suo posto. Certo, la cosa è ancor più forte se si tratta di una competizione reale, ad esempio nel caso di una rivalità in amore, o fra due colleghi di lavoro, per primeggiare agli occhi del direttore o del superiore gerarchico; ma si verifica anche se si tratta di due persone le cui sfere d’interessi non hanno alcun punto in comune, addirittura viventi in due epoche diverse. L’istinto maligno della gelosia ci morde anche se si tratta di qualcuno che non conosciamo, o conosciamo solo di sfuggita, e che mai incrocerà i suoi passi con i nostri: come osa, costui, essere favorito dalla sorte – in amore, negli affari, nella salute, in politica, o in qualsiasi altro ambito - laddove noi stentiamo ad ottenere il meritato riconoscimento del nostro valore, delle nostre capacità? In pratica, e come si vede assai bene nei bambini piccoli, la competizione, almeno a livello inconscio, è di tutti contro tutti, senza esclusione di alcuno: basta che un altro essere umano riceva ciò che anche noi vorremmo, e sia pure in un raggio d’azione completamente distinto e separato, ed ecco che lo prendiamo in antipatia, ne elenchiamo i difetti, li mettiamo sotto la lente d’ingrandimento, andiamo a caccia delle cento e cento ragioni per le quali costui è un impostore, un miserabile, un cialtrone, un farabutto, la cui sola esistenza è un affronto ed il cui successo è una provocazione. Per esempio: come osa, costui (o costei) essersi felicemente sposato, avere dei bei bambini, una bella casa, una buona professione, mentre noi non ci siamo riusciti? E come osa costui (o costei) riscuotere l’approvazione dei vicini, dei colleghi, degli amici, del pubblico, quando è evidente che non possiede neppure la metà del nostro ingegno, della nostra cultura, della nostra serietà, ma è solo un pallone gonfiato, ingiustamente baciato dalla fortuna, e, probabilmente, agevolato da sporche manovre di corridoio, che penalizzano il merito e favoriscono i soliti raccomandati? È la storia delle due città di cui parla sant’Agostino: di Dio e dell’uomo.
Ora, se questa è la normale attitudine degli esseri umani, solo a stento contenuta e corretta (ma più che altro in superficie) dall’educazione e dalle norme sociali, al punto che ci asteniamo dal calunniare e dal danneggiare attivamente il nostro prossimo più per paura delle sanzioni di legge, che per senso della giustizia e di umano rispetto, ne deriva che la storia umana è una storia di sopraffazioni, di astuzie, di calunnie, di violenze, d’inganni, di perfidie. La storia umana non ha mai premiato il merito, il valore disinteressato, la generosità, l’altruismo, la bontà; ha sempre favorito e portato al successo chi è privo di scrupoli, chi è disposto a utilizzare qualsiasi mezzo, chi non ha esitato a mancare alla parola data o a tradire i patti: Machiavelli non ha inventato niente, ha solo dato una veste scientifica a una realtà di fatto, empiricamente osservabile da chiunque si prenda la briga di farlo in maniera onesta. Questa è la storia umana; questo e non altro: bellum omnium contra omnes, come sosteneva, con crudo realismo, Thomas Hobbes. Tanto è vero che, per “spiegare” le sue storture, le sue evidenti aberrazioni, le sue macroscopiche ingiustizie, Rousseau e altri hanno inventato la favola bella (e pericolosissima) di un uomo buono, innocente, libero e felice quanto a se stesso, ma reso cattivo, colpevole, schiavo e infelice dalla società.
Prendiamo il caso del marxismo-leninismo. Non basta che il proletariato abbatta il giogo della borghesia e socializzi i mezzi di produzione: il puzzo della borghesia (come diceva Lenin) gli resterà attaccato ancora per un certo tempo, con tutti i suoi bassi ed egoistici istinti, per cui sarà necessario un periodo di transizione, una quarantena, una fase passeggera, pudicamente chiamata dittatura del proletariato, onde spazzar via gli ultimi residui di mentalità capitalistica e sfruttatrice: peccato solo che si è trattato, ogni volta che i comunisti sono andati al potere in qualche Paese, di una dittatura del partito e non del proletariato, e che non è stata affatto temporanea, ma duratura, tanto è vero che è finita solo quando quei regimi sono caduti, sotto il peso dei loro stessi errori e dei loro crimini. Non si inganna impunemente la natura; non ci si beffa del principio di realtà, solo perché si vuole attribuire tutta la cattiveria dell’uomo a un fattore di classe, eliminato il quale egli tornerà buono e innocente come lo aveva concepito Rousseau. I comunisti, come i russoviani, come gl’illuministi, come i positivisti, come i fascisti, come i nazisti, come i progressisti d’ogni genere e d’ogni colore, hanno preferito dare ragione alla loro idea astratta dell’uomo, piuttosto che inchinarsi davanti alla realtà dei fatti: per fare ciò, sarebbe stato necessario un minimo di umiltà intellettuale, merce sempre più scarsa nel supermercato delle idee e degli stili di vita dell’uomo moderno, figlio di una indebita sopravvalutazione di se stesso che ha nome, appunto, Umanesimo.
La storia umana, dunque, sarebbe il regno della brutalità, dell’ingiustizia e della disperazione, se a bilanciarla non vi fosse un’altra storia, che scorre sotto la superficie, e va in senso contrario al suo: la storia sacra, cioè la storia della salvezza. La storia sacra è la storia dell’uomo che sente il richiamo d Dio, la nostalgia di Dio, e, con ciò stesso, la nostalgia della verità, della bontà, della giustizia e della bellezza. Ogni volta che l’uomo vede calpestato il vero, il buono, il giusto e il bello – ed è uno spettacolo frequentissimo, quotidiano, nell’ambito della storia umana, come dicono anche le pagine di cronaca dei giornali – egli avverte nondimeno, in se stesso, un certo qual fremito, un sottile disagio, magari messo prontamente a tacere. Quell’attimo di disagio, quel fremito di raccapriccio, per quanto fuggevoli, ma assolutamente istintivi, sono la voce della coscienza: sono il segno che, nell’uomo, vi è anche qualcosa di grande, qualcosa che vale l’altissimo prezzo di sofferenza che la storia continuamente richiede agli uomini. È la rivelazione della verità profonda che giace in fondo all’anima: quella della libertà originaria dell’uomo, che nessuna decadenza e nessuna abitudine al male possono offuscare completamente, almeno nei soggetti psichicamente normali; è la prova del fatto che l’uomo non è solo quel che appare, quel che effettivamente manifesta nel corso della sua vita, ma vi è dell’altro: una sottile corrente contraria a quella dell’egoismo, della brutalità, della prevaricazione verso i suoi simili e contro se stesso.
Se l’uomo è libero, è libero di scegliere il bene. Di fatto, però, c’è qualcosa che lo trattiene – qualcosa o qualcuno – che gli impedisce di fare il bene che vorrebbe, e lo spinge a fare il male che non vorrebbe. Questa è la ragione per cui l’uomo buono non è colui che sa fare il bene con le sue forze – un tale uomo non esiste; così come, nel giudaismo, non esisteva l’uomo “giusto”, autorizzato a scagliare la prima pietra contro il suo fratello peccatore; ma colui che sa di non poter fare nulla di bene da solo, e perciò si rimette a Dio, con l’aiuto del quale il servo inutile diventa utile, e riesce a fare anche quel bene che, prima, pur vedendolo, non era capace di fare. Ed è allora che si verifica il prodigio della corrente che risale il fiume, e che va controcorrente rispetto alla tendenza principale della storia umana: perché semina luce, speranza, comprensione, pazienza, mitezza, benevolenza; tutte cose che controbilanciano, o smorzano, l’impatto negativo della corrente principale. È la storia dei profeti, degli apostoli, dei santi; è la storia degli uomini e delle donne di buona volontà, che hanno scelto il perdono invece della vendetta, la compassione invece del rancore, la generosità invece dell’avarizia; che hanno crocifisso il proprio ego, le proprie passioni, il proprio impulso animalesco verso l’affermazione di sé, e hanno scelto di rendersi umili e docili nelle mani del grande Vasaio, del saggio e amorevole Agricoltore: di rendersi simili ai tralci della vite, che danno molto vino, a condizione di restare attaccati alla vite.
La storia sacra è fatta da tutti coloro i quali, nelle diverse epoche della storia, hanno operato per il bene, hanno pregato, hanno preso su di sé il male e la sofferenza, hanno perdonato le offese, hanno reso bene per male, si son fatti carico delle necessità dei bisognosi, hanno corrisposto alla chiamata di Dio; di tutti coloro i quali, come ha fatto Maria Vergine con insuperabile umiltà, hanno risposto semplicemente: Eccomi! Sia fatto di me secondo la volontà del Signore; di tutti coloro che la grande storia dei conquistatori, dei rivoluzionari, dei macellai all’ingrosso, dei falchi e degli avvoltoi, non si è accorta, né si accorge: persone piccole e umili, talvolta analfabete, quasi sempre prive di mezzi e di cultura; ma persone grandi, perché seppero e sanno farsi piccole, e mettersi completamente a disposizione della Verità e del Bene, che sono in Dio. Tale è il concetto della comunione dei santi: un circuito virtuoso di anime buone, miti, benevole, sia quelle viventi, sia quelle vissute in passato, ma unite da uno stesso fuoco d’amore e cooperanti ad un medesimo fine: la salvezza dell’umanità per mezzo del ritorno all’amore di Dio, così come esso si è manifestato, in maniera sublime, nella Incarnazione del Verbo e nella sua Passione, Morte e Risurrezione.
Gli storici moderni, che hanno completamente smarrito la nozione stessa di storia sacra, non tengono affatto conto di questa controcorrente sotterranea, grazie alla quale, probabilmente, siamo ancora in vita, così come lo è la nostra civiltà: perché è certo che le preghiere di una suora di clausura, sinceramente rivolte a Dio, hanno scongiurato all’umanità mali tremendi, come nessuna opera puramente umana, né politica, né sociale, né intellettuale, avrebbe mai saputo o potuto fare. Per gli storici moderni, l’unica storia è la storia umana, fatta da uomini, entro un orizzonte puramente umano. Quella storia esiste, ma è solo una parte della umana vicenda: ed è quella peggiore. Possiamo anche dire che essa è l’inferno, o, quanto meno, l’anticipazione terrena dell’inferno: un deserto infuocato, dove non c’è spazio se non per l’egoismo più grossolano, né per il trionfo che non sia dei più malvagi. Più in generale, l’intellettuale moderno altro non vede se non ciò che cade sotto i sensi: vale a dire il perenne, monotono, atroce spettacolo degli egoismi individuali in lotta fra loro, per sopraffarsi a vicenda, senza esclusione di colpi. E l’uomo moderno è abituato, a sua volta, a non vedere, e a non sperare, nulla che vada oltre l’orizzonte immediato ed immanente. Ma l’uomo moderno è diventato cieco: resta abbagliato da ciò che è secondario e transitorio, e gli sfugge ciò ch’è essenziale e permanente. Essenziale e permanente è Dio, solo Dio...
La storia sacra scorre in senso contrario alla storia umana
di
Francesco Lamendola
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