(di Mauro Faverzani) È il Codice di Diritto Canonico a precisare, al can. 284: «I chierici portino un abito ecclesiastico decoroso secondo le norme emanate dalla Conferenza Episcopale e secondo le legittime consuetudini locali». E cosa preveda la Cei è reso molto chiaro dalla sua delibera n. 12 del 23 dicembre 1983, in cui si legge testualmente: «Salvo le prescrizioni per le celebrazioni liturgiche [che prevedono vesti apposite – NdR], il clero in pubblico deve indossare l’abito talare o il clergyman».
Giovanni Paolo II, da parte sua, nella sua Lettera al Cardinale Vicario Ugo Polettidell’8 settembre 1982, parla dell’abito ecclesiastico come di un «segno distintivo», non solo per una questione di «decoro», bensì e soprattutto per il fatto d’evidenziare «la pubblica testimonianza che ogni sacerdote è tenuto a dare della propria identità e speciale appartenenza a Dio». Giovanni Paolo II fa poi un’affermazione importante: specifica cioè come porre tali questioni non significhi affatto essere “malati” di vacuo formalismo o di inutile rigorismo, stanti anzi le «conseguenze pastorali» implicite nella questione. E ribadisce: trascurare il valore di richiamo dell’abito ecclesiastico provoca un «impoverimento del nostro servizio sacerdotale».
Riflettendo su queste opportune e chiarissime indicazioni, peraltro tutte motivate, ancor più addolorano e sconcertano le parole pronunciate da papa Francesco nel corso dell’omelia tenuta nella cappella di Casa Santa Marta lo scorso 9 dicembre. «Su rigidità e mondanità, è successo tempo fa che è venuto da me un anziano monsignore della curia, che lavora, un uomo normale, un uomo buono, innamorato di Gesù e mi ha raccontato che era andato all’Euroclero a comprarsi un paio di camicie e ha visto davanti allo specchio un ragazzo – lui pensa non avesse più di 25 anni, o prete giovane o (che stava) per diventare prete – davanti allo specchio, con un mantello, grande, largo, col velluto, la catena d’argento e si guardava. E poi ha preso il “saturno”, l’ha messo e si guardava. Un rigido mondano. E quel sacerdote – è saggio quel monsignore, molto saggio – è riuscito a superare il dolore, con una battuta di sano umorismo e ha aggiunto: “E poi si dice che la Chiesa non permette il sacerdozio alle donne!”. Così che il mestiere che fa il sacerdote quando diventa funzionario finisce nel ridicolo, sempre».
Sarebbe dunque, deprecabile e censurabile accertarsi che il vestito calzi a pennello, prima dell’acquisto?
Il giovane sacerdote impegnato a provarsi talare, saturno e mantello, sarebbe ipso facto, secondo il Pontefice, colpevole di «rigidità e mondanità» e addirittura effeminato. Par che qui si sia persa traccia della tanto declamata «misericordia»: com’è possibile da una circostanza giungere ad un giudizio, anzi ad una sentenza tanto sferzante, quindi ad un processo alle intenzioni?
Com’è possibile sapere cosa avesse davvero in animo il reverendo tanto biasimato? Come si può, ad intermittenza, ostentar comprensione (ricordate il «chi sono io per giudicare?») di fronte a patenti violazioni della Dottrina cattolica, per poi accanirsi con chi agisca conformemente alle norme della Chiesa? Sino al punto da ammettere la prassi della crudele derisione, bollando il sacerdote come un «funzionario», per ciò stesso destinato a finire «nel ridicolo, sempre».
Disturba che un prete si vesta da prete? V’è il fondato dubbio che, in realtà, nell’esempio riportato possa non essere in questione l’atteggiamento, bensì l’abbigliamento, non la posa del reverendo, bensì la sua talare. Ma se è questo ad esser oggetto di furibonda censura, non mancano i motivi di inquietudine: come può il Papa contravvenire al Codice di Diritto Canonico? Le leggi della Chiesa sono rigido formalismo?
Vi fossero sacerdoti in talare! In molte Diocesi son “merce rara”, in altre una “razza estinta”. Forse sarebbero da preferirsi ad essi quei campioni di sciatteria, che girovagano in camicie a quadrettoni rossi e bermuda, in jeans e magliettine fantasia? Ad inquadrare correttamente la situazione (e la posta in gioco) provvedono ancora una volta i testi della Chiesa. Per i quali abiti diversi da quelli prescritti sono contrari alle norme: non basta una spillina con la croce, se l’abbigliamento è inadeguato.
È il can. 285 commi 1 e 2 del Codice di Diritto Canonico a raccomandare ai sacerdoti di astenersi da tutto quanto sia «sconveniente al proprio stato» o, in ogni caso, ad esso «alieno». Non risulta che tali disposizioni siano mutate. E, nel caso, andrebbe anche spiegato come ed in base a che cosa. Quel giovane sacerdote, arbitrariamente ed inopinatamente posto “all’Indice”, continui pure serenamente a provarsi l’abito! Ad altri, evidentemente, la talare va stretta, anche quando sia della taglia giusta… (Mauro Faverzani)
http://www.corrispondenzaromana.it/segno-di-rigidita-mondana-o-di-appartenenza-alla-chiesa/
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