IL DEMONIACO DELLA MODERNITA'
Il demoniaco della modernità consiste nella negazione della giustizia divina. Dostoevskij diceva che:"l’uomo senza dio è qualcosa meno d’un insetto" perché in se stesso è una creatura perfetta mentre l’uomo è un essere mancato
di Francesco Lamendola
Se dovessimo indicare quali sono i tratti essenziali della modernità, ci sembra che uno dei primi dovrebbe essere la negazione della giustizia divina. Non la negazione dell’esistenza di Dio, ma la negazione della sua giustizia e della sua provvidenza – la provvidenza non essendo altro che un aspetto della giustizia divina.
L’uomo moderno si pone, rispetto a Dio, come se la cosa più importante da decidere non sia la sua esistenza (problema ritenuto dai più come superato, storia vecchia che interessa solo le vecchine), ma la sua giustizia: è come se l’uomo moderno volesse sapere se Dio, posto che esista, sia un dio giusto, perché, se non lo fosse, ciò meriterebbe, da parte dell’uomo, tutto il suo disprezzo, e chiuderebbe il discorso, perfino indipendentemente dalla sua esistenza. Ed è logico. L’uomo moderno ha creato un punto di vista totalmente antropocentrico e radicalmente immanentistico: non gli importa davvero sapere se Dio c’è, ma se c’è un dio che risponda alle sue esigenze, un dio della sua stessa misura, che lui possa giudicare così come si giudicano gli esseri umani. Un Dio trascendente e misterioso non rientra nel suo orizzonte, vorremmo dire nel suo campo percettivo; dunque non lo riguarda. In senso psicologico, questa evoluzione è molto comprensibile: l’uomo moderno ha voluto fare da solo, come se dio non ci fosse, come se lui fosse il dio di se stesso; però è andato sbattere contro il proprio limite ontologico, a cominciare dal limite della sua mortalità, esattamente come prima.
Allora, in qualche modo, e pur non ammettendolo volentieri, è tornato a socchiudere la possibilità che un dio esista, dopotutto; si tratta però di sapere, per lui, se sia un dio che possa servirgli nella spiegazione del proprio limite, che possa fargli da stampella nel fronteggiarlo, che possa sostenerlo nell’accettarlo. Impresa impossibile, perché intrinsecamente contraddittoria, dato che l’uomo moderno, in quanto cittadino della modernità, non accetta, né accetterà mai, il proprio limite ontologico. Quel che cerca realmente, pertanto, non è un dio che gli confermi l’esistenza di tale limite, e sia pure per aiutarlo a confrontarsi con esso, tanto meno per accettarlo, ma un dio che lo rimuova, o, se questo non è possibile, un dio sul quale scaricare la sua frustrazione, la sua rabbia impotente, la sua amarezza. Certo che l’uomo moderno desidera un “dio tappabuchi”, ma non nel senso criticato da Dietrich Bonhoeffer e dalla teologia negativa, cioè un dio che serva a risolvere le situazioni difficili, bensì nel senso del nichilismo più estremo, cioè un dio che serva a prendere su di sé le maledizioni dell’uomo, per non aver voluto abolire il limite ontologico di questi, o, almeno, per non avergli dato gli strumenti per farlo.
L’uomo moderno vorrebbe essere dio: da Adamo ed Eva in poi, passando per la torre di Babele, e per l’uomo nuovo comunista e nazista, questo è sempre stato il suo sogno; e ultimamente, con i successi spettacolari della tecnica, e specialmente della tecnica genetica, comincia a sentirsi - follemente, è chiaro – più vicino alla meta di quanto non lo sia mai stato. In attesa di insediarsi definitivamente sul trono dell’auto-deificazione, il che avverrà quando riuscirà ad avere il controllo totale del proprio Dna, per smontarlo e rimontarlo a piacere, secondo i suoi gusti, nonché per incrociarlo con quello di altre creature, in quell’attesa, dicevamo, l’uomo moderno è disposto a concedere un certo spazio all’ipotesi di dio, ma solo per rovesciare su tale dio “tappabuchi” il suo rancore per il fatto di non essere, lui, l’uomo, onnipotente, ma di dover ammalarsi, invecchiare e morire, come tutte le creature. Non ha il fegato di dirlo chiaro e tondo neanche a se stesso, perché vede bene l’assurdità e la contraddittorietà del suo desiderio: quello di non aver tutori sopra di sé, ma di averne bisogno per accusarli di crudeltà e insensibilità. Inoltre, come sempre, l’uomo preferisce cercare una vittima “ideale” di cui chiedere conto a questo dio ingiusto, e la trova, si capisce, fra gli “innocenti”, meglio se bambini. Come può essere, dio, così crudele da permettere la sofferenza e la morte di tante persone innocenti, e specialmente dei piccoli? Ed ecco che i terremoti, le eruzioni vulcaniche, le grandi pestilenze gli vengono in buon punto per rovesciare sopra un siffatto dio tutto il loro malumore, con il secondo fine di auto-giustificare la propria fragilità e la propria impotenza. Essere fragile e impotente, in realtà, non è una colpa, è una condizione naturale dell’uomo; ma l’uomo moderno non la accetta, non ne vuole neanche sentir parlare: essendo aspirante al posto di dio, deve trovare il modo di giustificare la colpa di essere un dio così debole e impotente, dato che, per un dio, la debolezza e l’impotenza sono, in effetti, delle colpe. E questo voler incriminare dio è non solo blasfemo, ma demoniaco. Ha scritto Marco Ravera nel suo saggio Joseph De Maistre, pensatore dell’origine (Milano, Mursia, 1986, pp. 38-41):
… Questo il carattere veramente demoniaco della negazione, il non mostrarsi come tale in modo palese, l’assumere un volto di consolatrice; non il promettere: “sarete come Dio”, ma il domandare, con sagace costanza: “che ve ne fate di Dio?”.
Ora, la vera arma di Mefistofele, cioè di QUESTA forma del demoniaco, non è la rivolta violenta o il rifiuto ostinato e grandioso, ma il cinismo, il SARCASMO; e chi, nel “scolo dei lumi”, lo ha incarnato meglio di Voltaire? Se la TEOMISIA è il “carattere distintivo del secolo XVIII” (EB, VI 262), CHI se n’è fatto portatore in modo più raffinato e compiuto di François-Marie Arouet? Ecco, e non è possibile sottrarsi a questa riflessione, il vero contrasto, l’opposizione assoluta e inconciliabile rispetto a Maistre; ma almeno un avversario ala sua altezza, un vero genio che salvo gli scopi, nulla ha in comune con la superficiale volgarità di tanti “philosophes” come Condillac, Helvétius, Lamettrie, d’Holbach “et consortes”, e la cui multiforme grandezza è ripetutamente riconosciuta da Maistre stesso che un più luoghi deplora soltanto le finalità cui è stata asservita; in ogni caso, è chiaro che egli lo conosce a fondo, che ne rispetta e apprezza molte pagine (soprattutto sotto il profili estetico), che si sente di battersi ad armi pari contro un avversario la cui forza di pensiero è soltanto pari all’intensità del suo effetto devastatore.[…]
In quale senso, dunque, non incarna Voltaire la negazione assoluta e violenta o il rifiuto volgare e facilmente smascherabile proprio per la sua eccessiva virulenza, ma piuttosto si identifica con kl’inganno allo stato puro, libero da concrezioni di sorta e pertanto sottilmente e autenticamente demoniaco? La risposta di Maistre è costante ed univoca: perché ovunque, in tutti i suoi scritti e a proposito di qualsiasi questione, politica o filosofica, storica o scientifica, egli muove SEMPRE da giusti presupposti, SEMPRE conduce analisi penetranti ed acute, pensa insomma nel modo migliore e tuttavia SEMPRE conclude per l’errore (LI, III349; DP, II 251ss.); e poiché questo non può certo essergli imputato a debolezza, data la forza del suo ingegno di cui mai Maistre si sogna di dubitare (anche quando apertamente lo insulta: DP, II 252), non resta che attribuire questa costante deformità del “raisonnement” voltairiano a una lucida regia che fin dall’inizio coscientemente utilizza premesse corrette, piegandone poi impercettibilmente lo sviluppo verso conclusioni aberranti, per altro già sempre perseguite in nome di un odio “mortale e personale verso Dio” (SP, IV 210). […]
Il suo poema sul terremoto di Lisbona può certo essere frutto di una sincera commozione per quello spaventoso disastro, un pianto sulla morte di migliaia di bambini e di innocenti, su tutta la sofferenza umana nella sua impotenza contro i flagelli della natura; ma nei suoi intenti FILOSOFICI, nel suo sfruttare il dolore per la neppur troppo implicita confutazione di un pensiero, com’è quello di Leibniz, che può esser tacciato d’ingenuo ottimismo soltanto da chi non lo ha compreso che in modo del tutto superficiale, sbaglia completamente la mira e si rivela fatuo e tendenzioso, sì che in lui la meditazione sul dolore, ben al di là del rifiuto dell’”ottimismo” di marca leibniziana, , prende il volto di negazione della Provvidenza e in questa negazione si risolve. Si segua tale passaggio in quella stessa opera. Rifiuta Voltaire che il disastro sia dovuto, come alcuni vorrebbero e come anche Herder gli obietta, a leggi cieche e necessarie della natura, leggi contro cui il suo “cuore agitato” si rivolta e che non sono che “sogni dei sapienti, chimere profonde; e Maistre plaude a questo giudizio. Continua Voltaire affermando che, al contrario, tutto è determinato dalla scelta di Dio, di un Dio “libero, giusto, non implacabile”; e fin qui, aggiunge Maistre, “non sarebbe possibile dir meglio”. Prosegue Voltaire, conducendo la questione all’estremo, con versi non privi di efficacia: “Purquoi donc souffrons-nous sosu un maître équitable? / Voilà le noeud fatal qu’il fallait d’élier”. Ma sono proprio questi versi quelli che segnano per Maistre un completo stravolgimento della prospettiva, un “cattivo ragionamento”, un “difetto d’attenzione e di analisi”. Alla domanda: “perché dunque soffriamo sotto un padrone giusto?”, una sola risposta è possibile: “perché lo meritiamo”; ed è questa appunto l’unica risposta che Voltaire non offre, preferendo implicitamente concludere con un rifiuto della giustizia e dell’equità di Dio, come se la bilancia che misura quell’equità e quella giustizia fosse stata posta nelle sue proprie mani (SP, IV 228). I veri e profondi, insondabili misteri del dolore, della sofferenza e della morte degli innocenti gli sfuggono completamente; tutto gli SERVE, piuttosto, per un’implicita, sottile e insinuante negazione della Provvidenza e della giustizia di Dio, e qui egli s’arresta. Dotato di un genio “creato per celebrare Dio e la virtù”, ovunque Voltaire ne fa abuso e lo prostituisce intenzionalmente, sì che “nulla l’assolve”; e basta vederne l’espressione, osservando la sua statua al palazzo dell’Ermitage, per cogliere tutto il demoniaco dei suoi occhi, della sua smorfia ghignante e blasfema” (SP, IV 208-209).
Aveva ragione de Maistre. Del resto, si faccia la prova: si passino in rassegna i ritratti di Voltaire. E non solo di Voltaire, ma dei principali illuministi. La prima cosa in cui ci s’imbatte è il loro sorriso: un sorriso orribile, perché non appartiene che alla bocca; mentre gli occhi non ridono: sono fermi, immobili, gelidi, persi nella contemplazione di sé. Voltaire e gli altri sorridono, ma solo esteriormente; il vero sorriso è la manifestazione della bontà, mentre essi, imbevuti di narcisismo, non conoscono che la benevolenza, che è l’effusione dell’io incapace di relazionarsi veramente con il prossimo, perché si pone un gradino al di sopra di chiunque. Voltaire non sorride che a se stesso; non ha ammirazione che per se stesso. È talmente pieno di sé che non inorridisce a farsi ritrarre dal pittore-discepolo Jean Huber in ogni posa immaginabile, compresa la vestizione mattutina, mentre detta al suo segretario la corrispondenza, appena levato dal letto: in equilibrio su una gamba sola, mentre s’infila le brache, osceno, seminudo, con un ridicolo berretto da notte ancora in testa, il petto scoperto, le gambe secche e ossute di vecchio esposte per la gioia degli ammiratori, guardatemi, sono un così gran genio che posso mostrarmi anche in questa tenuta e in questa postura, potete solo adorarmi. Oppure si osservi il sorriso di Diderot: è quello di un imbecille; il sorriso di d’Alembert: quello di un fauno borioso, scintillante di malizia; il sorriso di La Mettrie: quello di un perfetto idiota; il sorriso di Rousseau: quello di un prete ipocrita; il sorriso di d’Holbach: quello di un vecchio debosciato; il sorriso di Condorcet: quello di un travestito; il sorriso di Hume: il più orribile di tutti, con qualcosa di animalesco, di suino, lo sguardo glaciale, da rettile, le pinne delle narici espanse, le labbra grosse e tumide, dalla sensualità bestiale. È un personaggio che non si vorrebbe incontrare per la strada; o che, incontrandolo, si cercherebbe di superare in fretta; chi mai vorrebbe rivolgergli la parola, anche solo per domandargli una indicazione? Si dirà che stiamo esagerando: ebbene, si vada a controllare.
Ma torniamo a Voltaire: perché dunque sorride, sorride sempre, e perché sorride a quel modo? Perché ha trovato la verità; o, almeno – il che, per lui, è lo stesso – ritiene d’averla trovata. Lui, e lui soltanto. Dall’alto della verità, egli guarda con ironica benevolenza ogni altro verme umano che striscia sulla terra, nelle tenebre dell’ignoranza e della superstizione. Uomini così sono pericolosi; è meglio starne alla larga. Portano disgrazia. Dicono di essere pronti a dare la vita perché chiunque possa esprimersi, ma la verità è che hanno già la torcia accesa in mano, per bruciare chiunque non la pensi come loro. Sono i bigotti della ragione, i bacchettoni dell’ateismo; invece di stare sempre in chiesa a baciar banchi, stanno allo specchio a bearsi di se stessi, e intanto inondano il mondo di proclami. I loro ragionamenti sono, alla fine, sempre sbagliati, notava de Maistre. Logico: un gran conoscitore d’anime, Fëdor Dostoevskij, diceva che l’uomo senza dio è qualcosa meno d’un insetto. Perché questo, in se stesso, è una creatura perfetta; mentre l’uomo senza Dio è un essere mancato...
Il demoniaco della modernità consiste nella negazione della giustizia divina
di
Francesco Lamendola
La libertà non è star sopra un albero…
di Roberto Pecchioli
“In un tempo senza ideali né utopia, dove l’unica salvezza è un’onorevole follia.” Sono versi di Giorgio Gaber, scritti con Sandro Luporini per i suoi spettacoli che restano tra gli eventi italiani più significativi di fine XX secolo. Un’epoca di rassegnata decadenza, come dice l’incipit di quello stesso brano, “Io persona”. Il tema della libertà è forse il più potente tra quelli del signor G, e dà il titolo al suo testo forse più noto, La libertà, del 1972. Vi si dice, ed è così, che la libertà non è star sopra un albero; essere liberi non vuol dire banalmente poter fare tutto ciò che si vuole lasciandosi trascinare da una dionisiaca febbre di astratta indipendenza, ma ha un significato ben più profondo: una libertà autentica si realizza quando ciascuno ha la possibilità di conoscere, partecipare e decidere.
In quest’ottica, il nostro è il tempo della più drammatica tra le illusioni di libertà. Poiché tuttavia le libertà non si perdono mai tutte insieme, ci troviamo ad un punto di svolta, in un tornante durante il quale libertà concrete vengono smontate, negate, anzi decostruite, e si lavora alacremente ad un gigantesco progetto di totalitarismo in maschera. Un rapporto ufficiale del governo britannico, mai smentito, pubblicato dalla coraggiosa Arianna Editrice nel 2015 nel libro del giornalista investigativo Daniel Estulin, Transevolution, l’era della decostruzione umana, afferma testualmente “i concetti di democrazia e libertà scompariranno per essere rimpiazzati da una dittatura ad alta tecnologia fondata sulla sorveglianza, il controllo e la manipolazione mentale.” Niente di meno, e la fonte è un organismo della nazione che si vanta di essere patria e levatrice della libertà. C’è di più, poiché le parole hanno ciascuna un peso: non scompariranno semplicemente libertà e democrazia come fatti, qualunque sia il significato che gli attribuiamo, ma i concetti stessi. Mancheranno le parole per descriverle, perché ce le sequestreranno, come ammise Aldous Huxley nel Mondo Nuovo e capì George Orwell.
Non resta che alzare la guardia, e resistere come la scolta idumea nel canto biblico di Isaia: “una voce chiama da Seir in Edom: Sentinella! Quanto durerà ancora la notte? E la sentinella risponde: Verrà il mattino, ma è ancora notte. Se volete domandare, tornate un’altra volta.” La parte più cupa della notte sta per iniziare, siamo ancora in quell’imbrunire che i francesi chiamano “entre chiens et loups”, tra cani e lupi, allorché si distingue ancora, ma in maniera imperfetta. Il francese Etienne De la Boétie, nel celebre Discorso sulla servitù volontaria, fu il primo ad avvertire che spesso l’uomo rinuncia alle libertà naturali per piaggeria, abitudine, pavidità. Al tiranno, sosteneva, non si tratta di strappargli qualcosa, ma di non offrirgli nulla, ossia l’anima nostra.
Con altre parole, espresse analogo concetto Goethe, scoprendo che non vi è miglior schiavo di chi si crede libero. Vero, ma i mezzi dei loro secoli erano imparagonabili a quelli posseduti dalle oligarchie contemporanee: l’intero sistema di comunicazione ed intrattenimento, più il dominio della tecnologia, il monopolio del denaro e la forza coercitiva, quando serve, degli apparati del potere politico e militare. Possiedono tutti i mezzi, determinano tutti i fini, se ne inquietò persino il più coerente dei liberisti, Friedrich Von Hajek.
L’attacco, formidabile e concentrico, all’albero della libertà, quello che Jefferson diceva dovesse essere bagnato ad ogni generazione dal sangue dei patrioti e dei tiranni, è in pieno svolgimento. Vediamo alcuni segnali. Sul versante della libertà di pensiero e di espressione, le società liberali moderne hanno ormai imboccato la strada del proibizionismo con sanzione penale. Non si possono discutere “gli esiti del processo di Norimberga”, né si è permesso dir bene di se stessi, giacché preferire la propria nazione o etnia alle altre è espressamente vietato da norme come la nostra legge Mancino, che vuol colpire le cosiddette “discriminazioni “(ma discriminare significa distinguere, quindi ragionare, scegliere!) ed è ormai una norma omnibus.
Se lo scrivente, nelle righe a seguire, manifestasse fiera antipatia per la città di Cuneo e per i suoi abitanti potrebbe essere trascinato dinanzi ad un tribunale e condannato a pene detentive. A molti ragazzotti ultrà di calcio, i cui limiti culturali e civili sono evidenti a tutti, sono state inflitte pene per cori da stadio spesso stupidi o volgari, ma certo meno pericolosi dei mille gravi reati che restano quotidianamente impuniti. Il presente è quello delle norme a contrasto di un altro psico -reato, l’omofobia, il neologismo che bolla chi preferisce (discrimina…) l’orientamento sessuale normale, ribattezzato eterosessuale, a quello omosessuale. In galera, urlava anni fa una canzone del genere demenziale di Giorgio Bracardi. “La vuoi la minestrina? Te piace la minestrina? Mangia la minestrina! In galera!”
Delle norme sempre in vigore contro i rigurgiti fascisti nel 2017, in totale assenza di fascismo, meglio tacere. Si può andare a processo ed essere condannati per aver levato il braccio in un saluto vecchio di due millenni. In assenza del reato, peraltro, nessuno si esibirebbe nel saluto. L’ultima novità, pericolosissima, che dimostra l’esistenza di un piano per sottomettere il libero pensiero, è quella che intende punire le “false notizie”, o fake news, nell’inglese degli stenterelli. Un’operazione che va avanti da mesi, in Italia grande sponsor è la signora Boldrini, la presidenta della Camera passata dal ruolo di funzionaria dell’ONU, organizzazione mondialista e transnazionale alla militanza nella sinistra radical chic premiata con la terza carica dello Stato italiano. A proposito, il correttore del sistema Word non riconosce come esatto il termine presidenta: proponiamo sanzioni contro Microsoft.
Ma quali saranno le false notizie? Ci vorrà un bollino blu, o un timbro della Questura, forse basterà il via libera della CNN o dell’Agenzia Reuter, tanto sono tutte di proprietà degli stessi super padroni, Rothschild, Rockefeller, ora anche Amazon (Washington Post). Ricordate quando deridevamo le veline provenienti dall’agenzia sovietica Tass, o i plumbei editoriali della Pravda, che vuol dire verità? Insomma, è già attiva la psico polizia decisa a stroncare chi non dice la (loro) verità, in rete o sulla stampa. Scommettiamo un centesimo su chi si accanirà, e ricordiamo che in Francia, altra terra della libertà, inscindibile dall’uguaglianza e della fraternità, è in corso di discussione una legge che impedirà di svolgere attività contro l’aborto. Contro la vita si può dire o fare qualsiasi cosa, ma se si oserà fare propaganda contro l’interruzione volontaria di gravidanza (sentite come è più dolce e neutro il concetto, se lo chiamiamo così) è pronta la Bastiglia.
Nulla di nuovo, infine: Karl Popper, pensatore sopravvalutato, scagliò dardi velenosi contro i nemici della “società aperta”, indegni di manifestare le loro convinzioni. Si stanno solo allargando, esplorano il terreno, sino ad oggi la ribellione è poca e limitata a soggetti che il sistema provvede quotidianamente a screditare e stigmatizzare. Dai tempi di 1984, il capolavoro di Orwell, è aumentata la quantità di odio sparso ai quattro venti. Prudente, o più moderato, il partito Socing tiranno di Oceania, obbligava alla pratica collettiva di due minuti quotidiani di odio nei confronti dell’arcinemico inesistente Emmanuel Goldstein. La dose è massicciamente aumentata, nella realtà degli anni Duemila. Bersagli favoriti, populisti, omofobi, razzisti, xenofobi, sessisti, femminicidi (!), ma anche insegnanti severi, genitori non permissivi, sacerdoti che difendono la fede di sempre, a scendere sino a chiunque non sia allineato al pensiero unico liberale, libertario, progressista eccetera eccetera. Vietato vietare, da circa mezzo secolo, eccetto che per lorsignori e lorcompagni.
Quanto alle false notizie, una la ricordiamo bene, le rivelazioni sulle armi di distruzione di massa in possesso, garantì l’America, del bieco Saddam Hussein. Per evitare l’accusa infamante di complottismo, evitiamo di discutere dei dubbi relativi all’ 11 settembre ed alla figura di Bin Laden. I complottisti sono infatti i falsari per eccellenza, non a caso il termine fu introdotto dalla CIA per bollare chi non credeva alla verità ufficiale sull’assassinio di John Kennedy, il quale, come tutti sanno, fu ucciso da un killer solitario, Lee Oswald, caduto pochi giorni dopo sotto i colpi di un altro squilibrato, Jack Ruby.
La verità non può mai essere “ufficiale”: qualunque aggettivo ne sminuisce o nega il principio. Le versioni ufficiali di qualcosa, innalzate a verità per motivi di potere o di interesse, dovrebbero essere bandite proprio nei regimi liberi, nelle società aperte. Così non è, ma è molto irritante il solo pensarlo, affermarlo espone già a rischi. La scienza, ad esempio, afferma che molte delle differenze tra uomo e donna sono di natura genetica. La nuova, potentissima teoria del gender, cara alle oligarchie, lo nega con forza. A chi verrà tappata la bocca? Sarà la tecnologia, sarà il mercato, ma persino i supporti di ausilio contro le apnee notturne sono diversi tra uomo e donna: pare che ci siano differenze nell’apparato respiratorio. Si suggerisce una nuova battaglia per farla finita con questa “discriminazione”.
L’ossessione per l’estensione dell’uguaglianza ad ogni ambito dell’esistenza colpisce per la sua incapacità di fermarsi, fosse solo per prendere fiato e guardarsi intorno. Naturalmente, l’unica ineguaglianza ammessa ed incoraggiata è quella economica, e le disuguaglianze in quel campo sono tali da far arrossire chiunque, specie i difensori dei poveri chiamati sinistra. Ma le verità munite del timbro santificante di quella parte sono indiscutibili come i dogmi della Chiesa al tempo in cui vigeva la fede cattolica. Per molti adoratori della libertà e della democrazia, è lecito e giusto impedire con ogni mezzo l’attività dei movimenti politici loro avversari, e propongono quasi ogni giorno nuove leggi contro le idee di qualcuno. Nuovi pregiudizi si sostituiscono a quelli vecchi, con la pretesa della superiorità morale e l’invocazione della sanzione e del divieto scritti nei codici.
Butto giù qualche luogo comune (i luogocomunisti sono partito di immensa maggioranza!): il Medioevo fu un’epoca buia, l’inquisizione e la caccia alle streghe furono una vergogna esclusivamente cattolica, gli Spagnoli furono brutali conquistatori, a differenza degli Inglesi, gran civilizzatori (oltreché mercanti di schiavi), l’illuminismo trasse l’umanità dall’ignoranza e dall’infanzia della conoscenza, l’Italia vinse (!!!) la seconda guerra mondiale per merito dei partigiani, la strategia della tensione e le bombe ci furono per impedire ai buoni ( Il PCI) di andare al potere. Potremmo continuare, fino all’aborto “legge di civiltà” o al matrimonio omosex vittoria dell’amore. Non ci sono più le mezze stagioni, l’ ultimo povero luogo comune innocente ed innocuo.
Negli ultimi giorni abbiamo verificato anche che è sostanzialmente vietato, anche ad una madre in lutto, dire che le canne e le droghe dette leggere fanno male. Roberto Saviano, l’intellettuale di riferimento dell’Italia smart, si è indignato, scagliandosi contro il “proibizionismo”, che naturalmente difende a spada tratta allorché si tratta di impedire la diffusione di principi ed idee opposte al pensiero dominante di cui è esponente di punta. I giovani italiani- e non solo loro- sballino pure, è un loro pieno diritto, e sia apprestato un rogo in Campo de’ Fiori per chi si ostina a dire che le droghe fanno male, chi siamo noi per giudicare e proibire? Se qualcuno muore, sono danni collaterali, come nei bombardamenti umanitari. Unanime riprovazione per Trump che ha tagliato i fondi alle organizzazioni abortiste. E’ una società disinfettata che inclina all’obitorio, se conoscessimo l’inglese forse la chiameremmo morgue society, ci si indigna non per le vite buttate o soppresse, ma perché qualcuno ritira dal gioco il denaro pubblico.
Il clima è questo, e intanto il potere vero cuoce la rana a fuoco moderato. Ritirano il denaro contante dalle nostre tasche, dicendo che così è più comodo, ma ciò che non ho in mano non è più davvero mio. Promettono salute e lunga vita per tutti applicando sotto pelle microchip e, presto, biochip, ma l’esito è il controllo, al centimetro, dei nostri spostamenti, delle nostre abitudini, dei consumi e delle convinzioni di ciascuno. Riveliamo tutto allegramente a Facebook, ovvero ad un super miliardario come Zuckerberg. Nessun regime totalitario ha mai potuto neppure sognare un controllo globale tanto capillare. Del nostro p/c e dello smartphone, siano proprietari solo della ferraglia, l’hardware, dei software siamo solo licenziatari, possono ritirarceli quando vogliono, come può fare la banca per la carta di credito e Facebook per un profilo non conforme ai criteri stabiliti da loro.
Tante cose ce le offrono gratis, ma, qualcuno osservò che quando qualcosa è gratis, anzi free, significa che sei tu il prodotto che stanno vendendo. Le menzogne dalle quali siamo circondati sono rassicuranti, insinuanti, dolci. I fatti sono che l’opera di ri-costruzione di un’umanità docile ed ignara è avanzata, i lavori sono ben oltre le fondamenta. Insieme con le sigle nemiche del potere finanziario, iniziamo tutti a tenere a mente un altro acronimo: GAFA, Google, Amazon, Facebook, Apple. Silicon Valley, oggi padroni in condominio, domani padroni e basta. Non sono marchi o ologrammi, ma i titolari delle tecnologie che cambiano il mondo, modificano gli uomini, muovono fiumi di denaro, possiedono già la mente di milioni di persone. Non si fermeranno, se non li fermeremo. Ma questa è un’altra storia, e riguarda la libertà e la vita di questa vecchia specie chiamata umanità. Ne riparleremo.
Roberto Pecchioli
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