ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 31 marzo 2017

Ovviamente scelta la peggiore x la Via Trucis

Papa Francesco affida i testi della Via Crucis alla biblista femminista Anne Marie Pelletier



Anne Marie Pellettier
di Franca Giansoldati
Città del Vaticano - La biblista francese Anne Marie Pelletier, docente di Sacra Scrittura ed 
Ermeneutica biblica nonché vincitrice della prima edizione del premio Ratzinger per la ricerca teologica, sarà l'autrice delle meditazioni della Via Crucis di quest'anno. Una scelta simbolica quella di Papa Francesco voluta per rafforzare il cammino di valorizzazione delle donne nella Chiesa. «Una società che umilia le donne è priva di futuro» scriveva nei suoi saggi la Pelletier, che è anche collaboratrice del mensile Donna Chiesa Mondo dell'Osservatore Romano, diretto da Lucetta Scaraffia. Gli studi di Anne Marie Pelletier si concentrano sulla interpretazione, da un punto di vista femminile, dei testi sacri. Perchè l’emarginazione delle donne è da cercarsi anche nella Bibbia.http://www.ilmessaggero.it/primopiano/vaticano/papa_francesco_anne_marie_pelletier_femminista_biblista_via_crucis_vaticano_pasqua-2351899.html

La terza Donna La notizia non  è recentissima ma vale comunque la pena di riprenderla e rifletterci sopra. E l'ho fatto lontano dalla data comunista internazionalista dell'8 marzo, perché questo è un personaggio femminile buono per tutti i giorni dell'anno, e non solo per una data diventata fasulla che più fasulla non si può.  E' da molto tempo che volevo parlare della dott.ssa Silvana De Mari, la quale è stata al centro di velenosissime polemiche per certe sue posizioni coraggiose contro la lobby LGBT.  Chi è e cosa fa nella vita,  potete vederlo sulla sua biografia reperibile on line. Come si può ben vedere è anche autrice di romanzi fantasy che ha pubblicato con grande successo. Suo autore favorito è - manco a dirlo - John R.R. Tolkien. 




Silvana De Mari, chirurgo, endoscopista, psicoterapeuta, sembra proprio non aver paura di comportarsi in modo politicamente non allineato, a proposito di omosessualità, politiche gender e leggi pro gay. Famosa è stata la sua intervista su La Verità (che non dispone di un suo sito on line), nella quale illustra la sua esperienza di endoscopista a proposito del sesso anale praticato dai gay e di tutte le malattie ad esso connesso. La sessantatreenne autrice di numerosi best seller fantasy, è infatti un medico specializzato in chirurgia generale e psicologia cognitiva, salita alle ribalta delle cronache per i suoi dettagliati avvertimenti riguardo ai rischi dell' attività omoerotica. Sulle pagine dei siti della comunità gay viene descritta come un ultra-tradizionalista "omofoba" e alcune associazioni hanno chiesto la sua radiazione dall' Ordine dei medici. Prelevo alcune domande con sue risposte-chiave dal quotidiano di Belpietro che hanno suscitato un inferocito vespaio di maldicenze da parte di chi sappiamo:

Ma chi gliel' ha fatto fare di lanciarsi in questa crociata?

«Un gay dovrebbe conoscere le conseguenze di una sistematica attività omoerotica. Mi limito a mettere a fuoco i riscontri medico clinici, della colonproctologia e di epidemiologia. Dati alla mano dell' Organizzazione mondiale della sanità, perché non dovrei dire che un omosessuale ha un rischio di contrarre l' Hiv 19 volte più elevato di un eterosessuale? Sono patologie segnalate anche sui siti gay, cose note a tutta la comunità medico -scientifica».


Perché cominciare a parlarne tutto d' un tratto?
«Sono indignata che attivisti Lgbt entrino nelle scuole, pagati con denaro pubblico, a dire il falso, ovvero che essere gay è una cosa bellissima. L' adolescenza è un periodo molto fragile e i giovani cercano disperatamente un' identità. Se proprio bisogna parlarne, vadano nelle scuole con le statistiche e dicano che la promiscuità sessuale è una catastrofe fisica e psicologica.Il preservativo è un mito, "perché la gran parte degli omosessuali non lo mette, e si rompe spesso perché l' ano non è stato concepito per la penetrazione. Nei titoli di coda del film Milk, che racconta la storia di un noto attivista gay americano, appare la lista dei personaggi: una buona parte sono morti di Aids».

Parla così perché è stata endoscopista?
«Qualsiasi endoscopista può confermare la maggiore morbilità proctologica di uomini e donne che subiscono in maniera sistematica la penetrazione anale». 

Poi continua con la lista delle malattie, dei disturbi e delle gravi patologie più diffuse inerenti a tali pratiche: un quadro clinico da far rabbrividire.

Affermazioni, studi e punti di vista che hanno sguinzagliato le reazioni astiose delle organizzazioni omosessuali, provocato l'apertura di un provvedimento presso l'Ordine dei medici e - ora - anche l'apertura di un' indagine da parte della procura di Torino.

L'accusa è dura: diffamazione aggravata dalla finalità della discriminazione e dell’istigazione all’odio razziale (?) .
Eppure la De Mari aveva detto di averne curati molti e dunque di capirli. E' solo che non si schiera al fianco di quella che lei definisce la schiera dei "nuovi ariani" di cui è "vietato parlar male", dato che ormai è diventato un tabù non condividere le loro idee.
A denunciare la psicoterapeuta sono stati gli attivisti di "Torino Pride" e il procuratore Antonio Spataro (a' rieccolo!) lo ha consegnato nella mani di un pool di pm esperto di legge Mancino, la controversa legge liberticida  definita da esperti in giurisprudenza "un obbrobrio giuridico", che ha trasformato il libero pensiero in reati d'opinione.  Ovvero quella norma che "condanna gesti, azioni e slogan aventi per scopo l’incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali".
Come in tutte le dittature, si vuole togliere la libertà di esprimere pensieri non allineati al Pensiero Unico vigente e accelerare, perciò,  il processo di schiavizzazione e di sudditanza dei popoli. 

Oltre al movimento Lgbt torinese, però, la De Mari dovrà vedersela anche col fuoco incrociato dell'avvocatura del Comune di Torino (visto che il Consiglio per volere del consigliere Pd Maria Grazia Grippo ha deciso di denunciare a sua volta la psicoterapeuta) e quello della Regione (che ha già schierato i suoi avvocati). Tutti contro una, tutti contro di lei e  che bruci la strega! 

Ma la dott.ssa Silvana, sembra non aver paura, nonostante sappia che trattasi di una lobby molto ricca e potente in grado di procurarle un ostracismo violento e  un boicottaggio editoriale.

"Avevo deciso di essere tollerante, tutto sommato, in effetti, perché attaccare c’è il rischio di destabilizzare qualcuno già fragile" dichiara al quotidiano "La Croce". 

"Non ho mai creduta vera l’affermazione sulla normalità dell’omosessualità, ma ho creduta vera l’affermazione sulla inevitabilità per alcuni di questi comportamenti, e mi sembrava corretto lasciare che ognuno vivesse come vuole senza critiche" - prosegue. 

"Perché ho cambiato idea? La persecuzione religiosa del movimento LGBT contro il Cristianesimo. La persecuzione del movimento LGBT contro la libertà di parola. Le scuole cattoliche inglesi costrette a parlare a favore dei matrimoni omosessuali. La parola matrimonio nasce da madre, il matrimonio serve perché un uomo protegga la donna che porta la maternità dei suoi figli così che lei possa diventare madre. Il matrimonio omosessuale non ha questa funzione, quindi è senza funzione, ed apre al matrimonio islamico poligamo. Se va bene tra due uomini, perché non tra tre uomini? E perché non tra un uomo e quattro donne? Love is love. Le multe di centinaia di migliaia di dollari ai pasticcieri che rifiutano di fare ridicole torte con sopra due ometti o due donnine, i sindaci francesi condannati per essersi rifiutati di celebrare cerimonie che trovano insensate. Le mostruose trasmissioni fatte da Rai 3. La legge Cirinnà, la pensione di reversibilità garantita a omosessuali e a chi finge di esserlo, in una nazione dove non c’è più denaro per nulla, una nazione alla fame..." (continua qui sul quotidiano "La Croce").

Ida Magli aiutò con le sue idee a dare una spallata contro l'Europa, contro le sue politiche economiche predatrici che hanno desertificato l'industria e indebitato i popoli, le sue alluvioni migratorie imposte con violenza apocalittica. Oriana Fallaci, ha lanciato le sue invettive contro l'Islam radicale, usato come grimaldello per distruggere la nostra cultura e religione. Silvana De Mari, contro quella lobby LGBT che vorrebbe impadronirsi dell'identità sessuale, manipolandola a suo arbitrio e capriccio. Contro la deriva che ne consegue, contro la disgregazione della famiglia naturale, per la salvaguardia delle giovani generazioni. 
Un grande abbraccio e tanta solidarietà alla dott.ssa De Mari, la terza donna italiana di cui si parlerà a lungo, presumo. 


Immigrazione di massa e ideologia gender sono armi del capitale

Da un lato, importa schiavi sradicati. Dall'altro, complice la disincentivazione dell'eterosessualità come pratica omofoba e veteroborghese, mira all'estinzione degli europei. Non è complotto: è lotta di classe. 

Un'unica narrazione. Un'unica prospettiva. Un'ortodossia che non permette deviazioni di percorso. È questa la situazione desolante in cui siamo costretti a muoverci, noi prigionieri del pensiero unico e del nuovo ordine mondiale classista post-1989. Come sapeva Lenin, non può esservi rivoluzione in assenza di una teoria che rovesci le mappe dominanti e permetta di pensare altrimenti. Qual è il robustissimo nesso che lega tra loro immigrazione di massa e ideologia gender? Lo chiarirò senza perifrasi. E violando scientemente ogni steccato del pensiero unico politicamente corretto.
I NUOVI SCHIAVI. Il capitale deporta dall'Africa migliaia di nuovi schiavi da sfruttare illimitatamente. I signori apolidi del mondialismo giubilano all'arrivo di masse di migranti disperati e disposti a tutto. Addirittura si danno da fare per andare generosamente a prenderli, come fa con solerzia il filantropo George Soros. Giubilano al loro arrivo come il vampiro gioisce quando vede sangue fresco (prendo in prestito l'immagine dal Capitale di Karl Marx). Il capitale - dev'essere chiaro - aspira a sostituire con i migranti il vecchio popolo europeo, composto da individui ancora troppo avvezzi ai diritti sociali, alla dignità del lavoro, alla coscienza di classe, alle conquiste salariali. I migranti non sono il nostro nemico, che è invece rappresentato dai globalisti sradicati. I migranti sono vittime, come noi che non siamo parte dell'oligarchia finanziaria competitivista che regge il mondo.
L'ideologia gender mira a disgiungere la sessualità dalla sua funzione procreativaPer un verso, il capitale importa masse di schiavi sradicati. Per un altro verso, complici politiche depressive e disincentivazione dell'eterosessualità come pratica omofoba e veteroborghese (ideologia gender), mira all'estinzione degli europei. Non è complotto: è lotta di classe. L'ideologia gender (che, come ogni ideologia, dice di non esistere) anche a questo serve: a distruggere le basi stesse della riproduzione biologica e sociale che hanno reso possibili i millenni della civiltà occidentale. Mira a disgiungere la sessualità dalla sua funzione procreativa: complice il corrotto clero degli accademici, dei giornalisti e degli intellettuali organici, mira a far sì che l'idea stessa della famiglia eterosessuale sia liquidata come omofoba, da Aristotele a Hegel, da Tommaso d'Aquino a Manzoni.
LAVAGGI DI CERVELLO DI MASSA. Mira alla rieducazione totalitaria degli individui, mediante programmi imposti nelle scuole e fatti falsamente passare come antidoti all'intolleranza (come se il rispetto delle alterità dovesse passare per la negazione delle identità...): lavaggi di cervello di massa, studiati ad hoc per lobotomizzare il popolo e indurlo alla nuova antropologia dell'atomo unisex e sradicato, migrante privato della coscienza di classe e di genere. Chiedetevi, poi, perché quanti finanziano le deportazioni di massa degli esseri umani sono i medesimi - i signori del mondialismo - che finanziano la diffusione a oltranza dell'ideologia gender (cattedre di gender study che spuntano come i funghi) e avrete completato il quadro. Non è difficile. Basta dotarsi di quello che Hegel definiva «il coraggio della verità».









COSA SERVE LA TEOLOGIA MORALE?

    A cosa serve la teologia morale? Qual è il suo oggetto, quale il suo scopo, la sua ragion d'essere? si direbbe che regni un bel po' di confusione proprio là dove sarebbe naturale aspettarsi che le idee siano ben chiare di Francesco Lamendola  




A cosa serve la teologia morale? Qual è il suo oggetto, quale il suo scopo, la sua ragion d'essere? A giudicare da ciò che dicono i sacerdoti, e anche da quel che non dicono, e a giudicare dai documenti che i vescovi indirizzano alle loro diocesi, e da molti atti concreti che compiono, dalle pubbliche dichiarazioni e dalle interviste che rilasciano alla stampa e alla televisione, si direbbe che regni un bel po' di confusione, in proposito, proprio là dove sarebbe naturale aspettarsi che le idee siano ben chiare: chi deve avere le idee chiare sulla teologia morale, se non un membro del clero cattolico? E non parliamo, poi, dei teologi di professione, dei titolari delle cattedre di teologia, o, comunque, degli autori di libri e trattati di teologia. Se esiste una sostanziale continuità fino al principio degli anni '60 del Novecento, poi, a partire dal Concilio Vaticano II, le cose cambiano, e si assiste a una vera e propria esplosione di tante piccole teologie, di concezioni perfino contraddittorie, di prospettive, proposte e riflessioni che paiono escludersi a vicenda: ciascuna con la sua verità da gridare al mondo, beninteso in nome di Cristo, anzi, in nome del "Vangelo", divenuto - come per i protestanti - una specie di clavis universalis per far dire a Gesù Cristo quasi qualunque cosa, e, naturalmente, anche il suo contrario. Il fondo lo stiamo toccando in questi giorni, con un generale dei gesuiti, Arturo Sosa Abascal, nominato a quell'altissimo incarico da papa Francesco, che lo tiene in grande stima, il quale ha dichiarato, con la massima tranquillità (o sfrontatezza), che noi non sappiamo cosa abbia realmente detto Gesù Cristo, dal momento che, nella Giudea del I secolo, non esistevano dei registratori per catturare e tramandare fedelmente le sue parole. Che è quanto dire che il cristianesimo è una commedia pirandelliana dai mille volti e dai mille significati, a seconda del punto di vista da cui lo si guarda; che tutto quel che credevamo di sapere su di esso, tutto quel che ci è stato insegnato, a noi e a qualcosa come ad ottanta generazioni di cristiani che ci hanno preceduti in questa vita terrena (calcolando quattro generazioni, in media, per ogni secolo da che esiste la Chiesa, cioè da circa venti secoli, una più, una meno), è nient'altro che fumo e aria fritta; e che adesso si tratta di affidarsi a qualche cervello fino, come Sosa Abascal per l'appunto, o magari come papa Francesco, per capire, finalmente, dopo duemila anni d'ignoranza, fraintendimenti ed equivoci, cosa abbia realmente detto Nostro Signore, vale a dire cosa sia il Vangelo.
Vorremmo provare a rispondere alla domanda: che cos'è la teologia morale?, prendendo lo spunto da ciò che ne pensava quello che è considerato uno dei più autorevoli esperti in materia del XX secolo, don Enrico Chiavacci (Siena, 16 luglio 1926-Ruffignano, presso Firenze, 25 agosto 2013), per poi svolgere le nostre riflessioni e deduzioni. Si noti che Chiavacci condivide quel che abbiamo testé affermato circa una linea divisoria fra il prima e il dopo Concilio, che fa da spartiacque fra due epoche nello studio e nell'insegnamento della teologia morale, e, più in generale, fra due epoche nella storia della Chiesa e nella vita della cristianità cattolica. Lo condivide, ma, si badi, esattamente all'incontrario: vale a dire che, per lui, lo "spirito" conciliare, o post-conciliare, che dir si voglia (perché è innegabile, e dimostrabile con le carte alla mano,  che molte delle cose che si sono vagheggiate, proclamate e attuate negli anni susseguenti al Concilio, non trovano alcun vero fondamento nei documenti conciliari stessi, per cui si è trattato di forzature, di abusi ed eccessi, non ascrivibili al fatto del Concilio, ma ad una sua fantasiosa e illecita interpretazione) è stato proprio l'evento benefico che ha messo in moto una più matura e approfondita riflessione in seno alla Chiesa, e, nel caso specifico, che ha tratto fuori la teologia morale dai vecchi schemi formalisti ed asfittici, insufflandovi una vita nuova, aperta, dinamica, coinvolgente, al passo con i tempi della società moderna, e finalmente capace di dare una risposta ai problemi e agli interrogativi degli uomini d'oggi.
Citiamo, dunque, una pagina eloquente di uno dei suoi molti libri dedicati a questo tema, Teologia morale, 1, Morale generale, Assisi, Cittadella Editrice, 1986, pp. 127-129):

Una definizione assai comune della teologia morale era: "la scienza che tratta dell'atto umano in quanto lecito o illecito". Il problema da risolvere è chiaramente: come agire per restare nell'ambito del lecito. Il concetto di coscienza è il già ricordato concetto di coscienza passiva. Il concetto di legge morale è quello di un elenco di precetti che costituiscono il confine certo fra il lecito e l'illecito, e di una regola generale - il sistema morale, appunto - che permetta di stabilire con certezza riflessa quel confine nei casi numerosissimi in cui il disaccordo fra gli autori non permette una certezza diretta. In questo quadro la funzione del magistero è assai semplice: ogni pronuncia, anche non infallibile, anche riformabile o occasionale, serve a dare una certezza riflessa, ed esonera da ulteriori complicazioni, sia essa restrittiva o permissiva rispetto ad altre opinioni autorevoli. 
Tutta la riflessione, la predicazione, la prassi morale cattolica ruota intorno alla domanda sul lecito e l'illecito. Non sono misteriosi i motivi che condussero la morale cattolica a questa sua fase riduttiva, e potremmo ricondurli sinteticamente a tre.
1. La degenerazione del concetto di legge naturale e la nascita del giusnaturalismo e del razionalismo [...]. 2. L'influsso del diritto sulla morale, e con esso il primato della categoria del lecito e dell'illecito. [...] 3. La rigida sistemazione dei compiti del penitente e del confessore stabilita dal Concilio di Trento per il sacramento della Penitenza, e la contemporanea riforma degli studi ecclesiastici miranti, nei seminari, a formare dei pratici più che dei teoreti. La formazione seminaristica negli anni seguenti, e praticamente fino al Vaticano II, mirò a fare dei confessori ben preparati al loro compito di giudici, e i manuali di teologia si ridussero a istituzioni per i confessori, tanto più utili quanto più esauriente era l'elenco dei precetti gravi, lievi, e dei non-peccati (sfera del lecito) che tali somme offrivano.
Il Concilio Vaticano II - preceduto da pochi autori e scuole teologiche - ribalta l'idea stessa di ciò che debba essere lo scopo, la questione fondamentale della riflessione morale cristiana. [...] Si vede subito che la domanda fondamentale è cambiata radicalmente: non più che cosa in astratto posso fare, ma a che cosa in concreto sono chiamato. Non più una sfera - la più ridotta e rigida possibile - dell'illecito, al di là della quale c'è il vuoto morale, la libertà come arbitrio; ma un impegno che sussiste in ogni singola scelta della vita di ciascuno, e che vede in ogni singola scelta una risposta "esistenziale" - collocata nel tempo, nello spazio, nella biografia irripetibile di ciascuno - all'unica suprema vocazione al regno, alla carità, alla sequela di Cristo. 
È appunto in questa luce che va collocato il problema della coscienza certa: il problema non è più quello della liceità di ogni singolo comportamento, ma è quello della certezza (quasi sempre relativa) di ciò che qui e ora comporta la chiamata divina; e il "qui e ora" si riferisce non più a certi comportamenti, ma a tutti i comportamenti in qualche misura liberi, a tutta la storia umana di ogni singolo, che - nella sua identità nel tempo e nella sua inevitabile storicità - deve essere progressiva risposta a una vocazione, progressivo cammino verso Cristo.

Eh, già: alla fine, si torna sempre alla sessa filastrocca: il cristiano è colui che si mette in cammino verso Cristo. Piace talmente tanto, questa espressione melensa e retorica, ai teologi post-conciliari, che ne fanno un vero e proprio abuso. Sono evidenti i richiami e le derivazioni dalla filosofia profana e specialmente esistenzialista, cattolica e anche protestante: a Kierkegaard, soprattutto, da cui essi traggono l'idea - abusandone senza ritegno, o, forse, semplicemente non capendola - dell'incontro con Dio come fatto "esistenziale", ma anche ad Heidegger, e al suo "mettersi in cammino verso il linguaggio". C’è anche parecchia farina di Teilhard de Chardin, il convitato di pietra di tutta la teologia conciliare e post-conciliare, perché la sua idea (non osiamo chiamarla “filosofia”,  e neppure “teologia”, perché non è sostenuta da alcun ragionamento, ma è solo l’espressione di uno stato d’animo: quello di un paleontologo che vorrebbe rendere la teologia simile alle scienze naturali, a cominciare dal dogma dell’evoluzionismo) di una sorta di evoluzione naturale di tutte le cose verso il Punto Omega, cioè verso un non meglio precisato “Cristo cosmico” (che sa più di New Age che di Vangelo) suggerisce, appunto, quella che gli uomini siano naturalmente avviati verso la Verità, e che i loro passi in quella direzione abbiano qualcosa di fatale, d’irresistibile. Ma la verità è diversa: l'uomo non è chiamato a mettersi in cammino verso Dio, perché la distanza fra la creatura finita e il Creatore infinito non è neppur lontanamente percorribile: è la distanza insondabile fra due statuti ontologici radicalmente diversi; bensì è chiamato a convertirsi, che è tutta un'altra cosa. Se l'uomo, mettendosi in cammino, potesse "incontrare" Gesù, ciò vorrebbe dire che lui e Dio giacciono sullo stesso piano o livello di esistenza; invece non è affatto così. La distanza fra loro è incolmabile, ed è Dio che prende l'iniziativa di scendere verso la sua creatura, per attirarla a sé: e la creatura che si lascia afferrare e portare in alto, incontra Gesù, mentre la creatura che resta chiusa nella propria pretesa intellettuale di poter capire e far da sé, quasi che non vi fosse alcun Mistero (come già notava Dante: quello della Trinità, quello dell'Incarnazione del Verbo) non lo incontrerà mai, per quanta strada possa fare - o credere di aver fatto, magari girando attorno al proprio ego - e per quante paia di sandali abbia consumato.
Ma partiamo dall’inizio. Chiavacci sostiene che la teologia morale cattolica, nel periodi di tempo corso fra il Concilio di Trento e il Vaticano II (il Vaticano I non viene considerato mai dai teologi progressisti, che lo passano totalmente sotto silenzio: riuscirebbe loro penoso anche solo doverlo nominare) era degenerata in arida precettistica, con una sorta di tabella delle cose lecite e illecite, perdendo di vista il punto essenziale: che a Dio non importano tanto i singoli comportamenti, ma tutto l’orientamento di una vita umana; e che fu il Vaticano II a rimettere la Chiesa in carreggiata, ripristinando il giusto ordine delle priorità e ribaltando addirittura l’idea dello scopo della morale cristiana (usa proprio il verbo “ribaltare”, non è una nostra esagerazione: e ciò significa, se lo logica non è un’opinione, che, prima del Vaticano II, la morale cattolica era completamente sbagliata e fuori strada). D’altra parte, Chiavacci sostiene che il sistema educativo dei seminari, prima del Concilio, era concepito in funzione di una conoscenza morale di tipo pratico, non teorico; poi, però, rivendica ai nuovi teologi della fase post-conciliare il merito di aver “scoperto” che lo scopo della teologia morale è di domandarsi non più che cosa in astratto posso fare, ma a che cosa in concreto sono chiamato; e questa, a nostro avviso, è una ulteriore contraddizione. L’educazione dei sacerdoti al loro ministero, e specialmente al sacramento della Penitenza, era troppo pratica o troppo teorica? Non si capisce: ora si direbbe una cosa, ora l’altra. Di certo, si vede solo la volontà di magnificare la “svolta” post-conciliare, come se per secoli e secoli i sacerdoti, e specialmente i confessori, si fossero rinchiusi nella gretta amministrazione di una casistica slegata dagli aspetti concreti della vita. Infine Chiavacci sostiene che ai nuovi teologi spetta il vanto di aver riscoperto che Dio, dagli uomini, desidera essenzialmente una cosa, una sola: la suprema vocazione al regno, alla carità, alla sequela di Cristo. Belle parole; ma ciò significa che Ignazio di Loyola, Teresa d’Avila, Giovanni della Croce, oppure, se vogliamo avvicinarci ai nostri tempi, Giovanni Bosco, Massililiano Kolbe, Pio da Pietrelcina, erano il prodotto di una Chiesa che aveva scordato la suprema vocazione al regno, alla carità, alla sequela di Cristo? Via, cerchiamo di essere seri. Viceversa, che tipo di uomini e donne ha prodotto la Chiesa post-conciliare? Lasciando stare i santi, e limitandoci al livello medio dei sacerdoti, e, naturalmente, anche dei fedeli laici, si può davvero sostenere che esso sia migliorato, che sia progredito, rispetto a prima del 1962? E non si dica che questo è un argomento basato solo sui fatti e non sui ragionamenti, perché è proprio don Chiavacci a rivendicare con fierezza la “riscoperta” della dimensione storica, esistenziale, concerta e individuale dell’atto morale nella biografia interiore del singolo cristiano. Il vero problema, a nostro avviso, non è che la Chiesa prima del Concilio desse troppa importanza al lato precettistico della morale, ma che una parte del clero diventasse schiava della precettistica: il che non è la causa, ma l’effetto di un allentamento della tensione morale nella vita cristiana. Se i cattolici del ventesimo secolo avessero conservato la fede dei loro padri, la precettista del confessore si sarebbe rivelata utile, anzi, utilissima, per dirimere le difficoltà di tipo pratico, ma essi non avrebbero commesso l’errore di assolutizzarla. Quanto al “rimedio” escogitato dai nuovi teologi post-conciliari, esso fu assai peggiore del male: in buona sostanza, l’ufficializzazione del soggettivismo e del relativismo morale. Che altro significa dire che il problema è quello della certezza (quasi sempre relativa) di ciò che qui e ora comporta la chiamata divina? Se non si è certi neanche di questo, a che serve parlare di Gesù?

A che serve la teologia morale?

di Francesco Lamendola

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