LE TRE PRIORITA'
Se vogliamo invertite la tendenza attuale verso l’autodistruzione della nostra società e verso lo scoraggiamento e la depressione dei singoli individui, frustrati e amareggiati servono 3 cose: cultura, coraggio e timor di Dio
di Francesco Lamendola
Senza cultura non si va da nessuna parte: si gira in tondo, si fanno discorsi, si contano le pulci sul pelo di un cane; s’improvvisa, ci si barcamena, si fan le cose press’a poco; si tira a indovinare, si bluffa al tavolo da poker: ma niente di più. Per costruire qualsiasi cosa che abbia delle solide basi, ci vuole cultura. Per fare una buona scuola, ci vuole cultura; per fare una buona informazione, ci vuole cultura; per avere una buona finanza e una buona economia, cultura; per avere sport e spettacolo degni di questo nome, ci vuole cultura. Le persone ignoranti non sono capaci di fare il loro lavoro con quella creatività che, unita alla competenza, conferisce una marcia in più; è solo la cultura che dà la piena conoscenza dei problemi, che suggerisce nuove prospettive, che consente d’immaginare soluzioni inedite. Chi ha cultura sa pensare in grande, sa vedere immediatamente i punti deboli di una teoria, di una strategia; sa come predisporre delle azioni compensatrici, delle linee di correzione rispetto a quanto si sta facendo in maniera insoddisfacente. Niente cultura, niente creatività; niente creatività, niente efficienza, nessuna serietà, nessuna fierezza: solo un servile strisciare alla porta del padrone di turno. Quando l’Italia aveva una classe dirigente relativamente colta, è innegabile che le cose andavano un po’ meglio; e lo stesso si può dire per l’Europa e per il mondo. Ora che imperversano gli zoticoni ignoranti e presuntuosi, siamo abbandonati agli alti e bassi della sorte, ai capricci del caso.
Servono tre cose: cultura, coraggio e timor di Dio
Di tre cose c’è bisogno, anzi, estremo bisogno, se vogliamo invertite la tendenza attuale verso l’autodistruzione della nostra società e verso lo scoraggiamento e la depressione dei singoli individui, frustrati e amareggiati nel vedere che tutto sta andando a catafascio, che i peggiori trionfano, che il merito non viene premiato, semmai disprezzato, e che una logica perversa, diabolica, sta impadronendosi di tutto, manipolando tutto, strumentalizzando tutto: l’economia e la scuola, lo sport e la finanza, lo spettacolo e l’informazione; e queste tre cose sono la cultura, il coraggio e il timor di Dio.
Ci vuole anche coraggio. Bisogna saper rischiare, quando ne vale la pena; farsi avanti, quando si preferirebbe stare in ultima fila; esporsi, mettersi in gioco, quando sarebbe più semplice e conveniente farsi gli affari propri. Il coraggio è necessario per svolgere degnamente qualsiasi compito, ma è particolarmente necessario nelle fasi storiche di transizione, nelle poche di decadenza, come la nostra. Nelle epoche di transizione tendono a fare carriera i vermiciattoli, gli yes-men, i leccapiedi: ma non è certo di loro che la società ha realmente bisogno. La società, se vuol salvarsi, ha bisogno di persone oneste, fiere, tutte d’un pezzo: di persone affidabili e intrepide, che si assumono le loro responsabilità che non giocano a scaricabarile. Ha bisogno di persone non timide, che non hanno paura di venire allo scoperto, di battersi, di esser prese di mira. I coraggiosi sono il sale del mondo; se non ci fossero, vivremmo in una fogna popolata di ratti e pantegane, senza mai un soffio d’aria pulita che venisse a vivificarlo e a renderlo sopportabile. Senza un po’ di coraggio, perfino i grandi progetti appassiscono e muoiono, i nobili ideali si spengono, le idee e i sentimenti avvizziscono e si consumano lentamente, ma inesorabilmente, imputridiscono e infine si dissolvono. Il coraggio è la forza che manda avanti il mondo: senza di esso, non nascerebbe più un bambino, né si crederebbe più nel futuro; si vivrebbe squallidamente, giorno dopo giorno, una vita fatta di miseri espedienti, in attesa della morte.
Ma più importante di tutti è il timor di Dio. Certo, anche l’amor di Dio; ma di quello, ai nostri giorni, si parla pesino troppo, lo si abbassa al livello di una soap opera, di una melassa in stile New Age. Del resto, l’amore e il timor di Dio sono le due facce di una stessa cosa: l’uno è impensabile senza l’altro. Ai nostri giorni l’uomo sta attuando, a tappe forzate, una strategia ben precisa, attentamente studiata e pianificata nei centri del potere occulto, per auto-divinizzarsi, il che significa, in pratica, abolire ogni senso del limite e ogni senso del mistero. La scienza e la tecnica sono le punte di lancia di una tale auto-divinizzazione dell’uomo, il quale, ad ogni nuovo “successo” di questo Logos calcolante e strumentale, senza amore, senza compassione, senza umiltà e senza saggezza, sempre più s’inorgoglisce e sempre più si allontana da Dio, inseguendo un folle progetto di dominio totale sulla natura, quasi per farsi lui il nuovo creatore dell’universo, il nuovo padrone assoluto della vita e della morte (aborto, eutanasia, fecondazione artificiale, cambiamento di sesso, trapianto del cervello, creazione di “chimere”, cioè di ibridi animali-umani, e via di questo passo, sempre più delirando). Si sta così sviluppando una scienza senza timor di Dio, ovvero una scienza diabolica, dagli esiti assolutamente imprevedibili, ma che, da quanto si è potuto vedere e capire fino ad ora, non porteranno certo alla sospirata “liberazione” dell’uomo dalle forze che ne limitano l’esistenza, bensì a delle forme di schiavitù nuove ed inimmaginabili, e, per certi aspetti, raccapriccianti e mostruose, quali mai egli ha conosciuto e sperimentato, in tutto il corso della sua storia, fin dai primi albori.
Di tre cose, viceversa, non c’è bisogno, oggi: della falsa cultura, del falso coraggio e del falso timor di Dio.
Nella palude della falsa cultura siamo immersi fino al collo, ci sguazziamo tanto beatamente che quasi non ci accorgiamo più che di una palude si tratta, mefitica e malsana, e non di quella limpida fonte che a parole descrivono, e magnificano, tutti gli spiriti cortigiani. La falsa cultura è quella che si gonfia la bocca di parole, ma non possiede idee; che si sbizzarrisce nella specializzazione, ma perde di vista l’insieme; che gonfia l’ego di quanti la praticano, e non insegna loro nemmeno un briciolo d’umiltà: mentre il primo segno di riconoscimento della vera cultura è, appunto, il fatto che quanti la possiedono, o almeno vi si avvicinano, sono persone umili, o che hanno imparato l’immenso valore dell’umiltà. La vera cultura è modesta, non gonfia il petto, non si mette in mostra, non cerca i riflettori, non pontifica dai pulpiti, non va a caccia di microfoni dai quali parlare, parlare, parlare. La vera cultura è pronta a spezzare con tutti il pane della conoscenza, senza chiedere nulla in cambio; ma, nello stesso tempo, sa e vede e capisce quando gli altri ne sono sinceramente alla ricerca, e, se non è così, se vede che i porci sono ghiotti solo e unicamente di ghiande, si astiene dal dar loro le perle del sapere. La vera cultura è umile, ma anche fiera, e conscia di sé: non si abbassa, non si prostituisce, non cerca l’applauso, non vuol convertire nessuno, non si lascia strumentalizzare, piegare, addomesticare, travisare. Il vero uomo di cultura è saggio, indipendente, equilibrato, sereno, paziente, dignitoso; non dipende dall’approvazione di alcuno e non teme l’ira di alcuno: dice la verità quando è richiesto e quando le circostanze lo esigono, perché altrimenti parlerebbero i sassi; ma, se nessuno la desidera e se le circostanze non lo richiedono, egli guarda e tace, e passa oltre. Il falso uomo di cultura fa sempre la ruota come un pavone, vuol essere ammirato, vuol essere applaudito; va lui stesso a cercare gli applausi, sorride ai potenti, s’inchina, si umilia, briga e traffica per pubblicare i suoi libri, per essere invitato alla televisione; si gonfia di piacere quando il suo nome corre sulle bocche, quando le signore lo desiderano – le signore sono sempre affascinate dall’uomo di cultura brillante e di successo; un po’ meno dall’uomo colto che se ne sta in disparte e vive modestamente – e quando può salire sul palco, guardare gli altri dall’alto, ricordare al mondo che lui è qualcuno, che non è mica uno qualunque.
Il falso coraggio è un’altra moneta che ha largo corso ai nostri giorni; anzi, si potrebbe quasi dire che è la divisa preferita della modernità. La modernità fa perno sul culto cieco del Progresso illimitato; dunque, chi è moderno, è anche progressista, le due cose sono inseparabili, sono quasi sinonimi. E chi è il progressista di professione, se non un signore che si atteggia a coraggioso, perché lotta, coraggiosamente, appunto, contro le oscure forze della conservazione, contro gli ottusi fautori della tradizione, contro i biechi manutengoli del potere stabilito, compreso il potere culturale? Se non che, a ben guardare le cose come stanno, ci si accorge subito di un fatto costante: che il progressista, nove volte su dieci, è, nonostante le apparenze contrarie, uno che va a colpo sicuro, tanto è vero che non rischia mai nulla, o quasi nulla. Pare che stia sfidando chi sa quali tremendi nemici, e invece ha già la vittoria in tasca. Ma è logico: il Progresso, in una società che lo adotta come suo Nume protettore, è sempre vittorioso, perché è sempre un passo avanti: il progressista è la mosca cocchiera che siede a casetta e grida agli altri, distribuendo colpi di frusta a destra e a manca: Ohé, ohé! Fate largo al Progresso, miserabili, pezzenti; scansatevi o vi schiaccio sotto le ruote, plebaglia, miserabile marmaglia! Proprio come nella fiaba di Andersen: Il piccolo Claus e il grande Claus, dove il protagonista, pazzo di orgoglio, grida ad ogni passo: Arrì, arrì, miei cinque cavalli! Da qui, il caratteristico sorrisetto ironico del perfetto progressista: egli è tutt’uno col Progresso, gli altri – gli infedeli – sono soltanto dei burattini asserviti alla tirannide del passato. Lui sa, gli altri non sanno; lui è intelligente, gli altri sono stupidi; lui capisce tutto, gli altri non capiscono nulla. E dall’alto del suo superiore capire, sapere e giudicare, il progressista combatte la sua nobile battaglia per la civiltà: come negare che sia un coraggioso? Peccato che i suoi nemici siano già agonizzanti, o che siano morti da qualche generazione: il suo bersaglio preferito, infatti, è un avversario che sia famoso, ma non forte; anzi, che sia debole; meglio ancora se morto e sepolto. Lui, però, farà comunque la sua figura: come Davide contro il gigante Golia, farà la figura di aver osato, di aver sfidato, di aver rischiato. Anche se non ha rischiato nulla, e ha colto i fin troppo facili allori di una battaglia già vinta.
Il tipico progressista, infatti, è solo un conformista: crede nel Progresso, perché in tal modo non si troverà mai superato dai fatti, non arriverà mai qualcuno – così egli pensa – a fargli notare di essere rimasto indietro, di non aver capito qualcosa; ma, a parte questo, la fede nel Progresso è, per lui, un vestito talmente abitudinario, che egli lo indossa con la stessa noncuranza con cui il conservatore si aggrappa alle sue certezze. Infatti, il progressista non apre mai una strada nuova; per quello, ci vuole un altro temperamento, un’altra forma mentis: il progressista è colui che arriva a cose fatte, a guerra ormai terminata, e suona la cornamusa come se l’avesse vinta lui, o come se il suo contributo fosse stato decisivo. Poi si mette a dar la caccia all’ultimo giapponese nella giungla, ammesso che ve ne sia ancora qualcuno, e si aspetta di ricevere l’ammirazione e la gratitudine universali – anzi, diciamo pure che le pretende – quasi che, senza il suo contributo, la vita di ciascuno sarebbe minacciata da tremendi pericoli, e meno male che c’è lui, a neutralizzare tali pericoli e a vigilare sulla nostra sicurezza e sulla nostra serenità.
Infine, il falso timor di Dio. La nostra società, abbiamo detto, ha smarrito il timor di Dio; e perfino fra i cosiddetti credenti, ormai, se ne vede assai poco. Il concetto stesso di timor di Dio sembrerebbe del tutto superato, addirittura archiviato (a dispetto del fatto che, per un vero cattolico, non si tratti per niente di una nozione astratta e, per così dire, facoltativa, ma di una realtà ben precisa dell’ordine soprannaturale: è uno dei Sette Doni dello Spirito Santo alle anime che si trovano in grazia di Dio). E poiché i neocredenti della neochiesa modernista e progressista hanno, di fatto, sostituito l’amore di Dio con l’amore – malinteso e buonista, cioè niente affatto buono – del prossimo, succede che al timor di Dio è subentrato il timore dell’uomo, e precisamente del diverso. Non vi sono altre spiegazioni per il fatto che i cristiani, e specialmente i cattolici, oggi, non osano neanche pronunziare l’espressione “terrorismo islamico”, perché, come ha autorevolmente affermato il papa Francesco, il terrorismo islamico non esiste, così come non esiste – bontà sua - quello cristiano. Che quello cristiano non esistesse, in verità, lo sapevano da noi, grazie tante: nessun giornale parla mai di terroristi cristiani che uccidono in nome di Gesù Cristo. Invece, ogni giorno i giornali parlano di terroristi che uccidono, o progettano di uccidere, in nome di Allah. Tuttavia, non bisogna dirlo: sarebbe scortese, sarebbe indelicato. Ecco, questo è lo stravolgimento del timor di Dio in timore - ma stavolta fisico e psicologico - degli uomini. Il timor di Dio nasce dalla consapevolezza dell’abisso che vi è tra la piccolezza dell’uomo e l’infinità di Dio: chi sei tu per giudicare Dio? Il falso timor di Dio, divenuto timore tutto umano dell’uomo, consiste nell’astenersi da qualsiasi cosa possa dispiacere all’altro, anche a scapito della verità e della giustizia: chi sono io per giudicare? Il cattolico progressista ritiene che non sia di buon gusto evidenziare il peccato, mostrare d’essersi accorto del male: davanti ai divorzi, agli aborti, alla fecondazione artificiale, ai cosiddetti matrimoni omosessuali, non dice nulla, assolutamente nulla, perché bisogna gettare ponti e non alzare muri. Questo falso rispetto degli uomini equivale a dispiacere a Dio; ma che importa? Tanto, Dio è “misericordioso”: lui sa capire e perdonare.
Così, dal timor di Dio si è passati a prenderlo in giro. Lo si vuol fare fesso: usare la parola magica della misericordia, per legittimare quel che a Lui dispiace. E tutto ciò, dicendo che è Lui a volerlo…
Servono tre cose: cultura, coraggio e timor di Dio
di Francesco Lamendola
AGNELLO? L'INGANNO ANIMALISTA
L’agnello pasquale e l’inganno animalista. La buga abbocca! Sarebbe opportuno che molti si accorgessero di essere manipolati, di essere diventati gli utili idioti di una globalizzazione che riduce in schiavitù milioni di uomini
di Roberto Pecchioli
http://www.ilcorrieredelleregioni.it/index.php?option=com_content&view=article&id=11767:lagnello&catid=128:ass-animaliste&Itemid=159
Silvio Berlusconi si fa fotografare mentre dà il biberon ad un agnellino, sotto lo sguardo estasiato della signorina Francesca Pascale, la sua convivente-nipotina di mezzo secolo più giovane. A lato, sorride felice Michela Vittoria Brambilla, deputata, ex ministro della Repubblica (o tempora, o mores!), imprenditrice ed animalista. Per non essere da meno dell’odiato Cavaliere, Laura Boldrini la presidenta ha adottato alcuni agnelli, portandoli a Montecitorio, una stalla modello assai rinomata. Nelle città italiane campeggiano manifesti di sei metri per tre che intimano di non cibarsi, nelle festività pasquali, del povero ovino. Toni ed immagini scelte sono il consueto repertorio di luoghi comuni del moralismo buonista/progressista, con in più un sottinteso razzismo etico nei confronti degli odiati “carnivori”.
Persino il povero ragazzo di Alatri ucciso in discoteca ha fatto le spese della violenza verbale vicina all’odio di qualche vegetariano. Una sua foto su Facebook lo ritraeva fiero con un pesce appena pescato. Il commento di qualche gentiluomo o gentildonna social, pacato ed equilibrato come si confà a paladini della vita è stato: morte chiama morte. In una trasmissione televisiva, un’altra squinternata in confusione mentale ha affermato che, in fondo, non c’è gran differenza tra chi uccide una mosca e gli assassini di “umani”. Umano, per chi non lo sapesse, è il termine dispregiativo alternativo ad uomo oppure essere umano con cui questi nuovi Buoni e Giusti chiamano i conspecifici. Il loro pensiero, mutuato da autori come Desmond Morris (La scimmia nuda) o James Lovelock, il teorizzatore di Gaia, il pianeta Terra visto come un unico superorganismo di cui l’uomo sarebbe una fastidiosa escrescenza, è ormai apertamente antiumano: una sorte di egalitarismo tanto estremo da porre sullo stesso piano le zanzare, gli stessi vegetali e la specie umana.
Naturalmente, la maggior parte di loro ignora assolutamente le correnti di pensiero che ne ispirano azioni e pensiero. Pervasi da un vago quanto irascibile irenismo, solo i più problematici conoscono almeno le principali correnti dell’ecologia profonda alla Arne Naess. Sono soltanto gli inconsapevoli destinatari di un messaggio che proviene dall’alto e che chiameremmo volentieri “la buga abbocca”, se non temessimo di ferire i loro delicati sentimenti di nemici, tra le altre attività umane, della pesca. La buga, più correttamente boga, è un pesce piuttosto spinoso che vive nei mari scogliosi e si pesca molto facilmente. Ai tempi del programma televisivo Drive In il comico genovese Enzo Braschi (in realtà un fine e colto intellettuale) lanciava la battuta “la buga abbocca” con il pollice sotto i denti per deridere le infinite forme dell’ingenuità umana.
Possibile, diciamo noi, che non desti qualche sospetto il dispiegamento di mezzi, cioè denaro sonante, a difesa degli agnellini? Riempire le città di grandi cartelloni costa molto, ben difficilmente frutto di benemerite collette tra pie donne. Viene da pensare a quante persone (umane!) in difficoltà avrebbero potuto aiutare gli animalisti vegetariani o vegani unicamente diffondendo i manifesti in bianco e nero! No, non interessa, tutto il contrario, e comunque non sono i mezzi economici a mancare agli organizzatori per svolgere la loro attività di pesca delle bughe.
La verità è infatti che si è posta in azione una delle tante macchine del consenso per far passare alcuni messaggi. Il principale obiettivo dei finti difensori degli agnelli è la distruzione attraverso il senso di colpa unito all’assurda equiparazione dell’uomo agli altri viventi, delle tradizioni, usi, costumi ed abitudini alimentari dei popoli. L’umanità a taglia unica deve avere gusti gastronomici in linea con i disegni e le volontà delle cupole di potere, i cui obiettivi antiumani e malthusiani sono chiari almeno a chi osservi la realtà senza le lenti deformanti della propaganda e delle ideologie mondialiste. Dopo decenni di sistematica decostruzione, l’umano occidentale si vergogna così tanto del proprio passato da odiare i cacciatori, dipinti come un branco di assassini, e disprezza il mondo contadino di cui è figlio.
Detto, ad uso di chi non si fosse mai occupato del problema, che vegetariani sono coloro che non consumano carni, mentre i vegani rifiutano qualunque alimento di origine animale (latte, uova, formaggio), va affermato che sono tutti militanti inconsapevoli quanto inconsulti di un fronte dei ricchi del pianeta interessati ad azzerare le opzioni di consumo per uniformare il mercato, in barba alle belle storie sulla biodiversità, la filiera corta ed il mitizzato consumo alimentare a chilometri zero.
Hanno buone ragioni, al di là dell’ovvia legittimità delle scelte individuali, a ricordare l’impronta ecologica eccessiva delle carni rosse, poiché l’allevamento bovino consuma risorse idriche immense e rilascia quantità impressionanti di anidride carbonica; allo stesso modo, le abitudini alimentari di imitazione americana che hanno generato l’aumento enorme del consumo sono oggi criticate per molti e serissimi motivi medici, così come la pessima abitudine di rimpinzare gli animali di estrogeni o addirittura di nutrire razze erbivore con mangimi di origine animale.
Le condizioni degli allevamenti intensivi di animali destinati all’alimentazione umana sono molto spesso un’efficace propaganda del vegetarianesimo, ma la specie umana è onnivora. Strano dover ribadire ovvietà, ma dinanzi ai fatti non c’è argomento che tenga. Non si può, non si deve andare contro natura. Il futuro alle porte è quello di un universo in cui i ricchi mangeranno e gran parte degli altri saranno costretti a brucare, oppure dovranno cibarsi di insetti, che, dicono i soliti, quelli che mandano avanti i talebani della nutrizione equa e solidale, saranno la proteina del futuro.
Ahi, ahi, ahi, primo problema: anche blatte e coleotteri sono dei viventi, urge una mobilitazione a sostegno dei loro diritti. Sì, perché il simpatico agnellino allattato premurosamente dal Cavaliere, a ben altre carni interessato, è morbido, carino, docile e simpatico, desta tenerezza, compassione, protezione. Ma come la mettiamo con i ratti? Aboliamo le derattizzazioni e le imprese che le eseguono, in nome della non violenza e del rispetto del creato, anzi di Gaia. I serpenti, poi, cui la Bibbia assegna il ruolo di nemico della donna (più correttamente, della femmina umana), non godono certo della simpatia popolare, neanche quella dei cuccioli di pecora.
Iene e sciacalli hanno pochi difensori; il lupo è più controverso. Nemico storico dell’uomo agricoltore e cacciatore, protagonista di storie mitiche e di fiabe sempre nel ruolo del cattivo, gode di una riabilitazione moderna. In fondo, è carnivoro per natura, non ha colpa, lui, se sgozza gli agnelli e li lascia sul posto. Infine, ci sono i poveri pesci. A parte qualche estremista come chi ha offeso la memoria del povero Emanuele Morganti, raramente si ascoltano intemerate contro i pescatori. Eppure, i pesci muoiono soffocati tra lenze e reti a strascico. Si vede che, muti come sono, non si lamentano abbastanza.
Tutte queste considerazioni per smascherare contraddizioni ed assurdità di un movimento, quello contrario all’alimentazione carnivora umana, che nega la natura biologica della nostra specie ed insieme tende a privarci di una libertà, sottraendoci un pezzo della nostra identità, legata alle abitudini, ai costumi e persino ai rituali del cibo e dell’alimentazione. Ma, ripetiamolo ancora, è solo la buga che abbocca all’amo di pescatori potentissimi ed assai malintenzionati.
Con tutti i suoi difetti, l’allevamento animale intensivo ha comunque sfamato miliardi di esseri umani. Va ripensato, alla luce dei costi ambientali e di un rapporto con la natura che non sia esclusivamente di dominazione, ma innanzitutto di custodia. Nel Genesi, Dio assegna agli uomini il dominio sugli animali, ma subito dopo affida loro la cura, la tutela, la protezione del creato. Sono state le rivoluzioni industriali, e le ideologie che le hanno sorrette ed alimentate a ribaltare il rapporto, costruendo un’economia basata sullo sfruttamento generalizzato: risorse, cose, uomini, animali.
Forse sarebbe opportuno che molti si accorgessero di essere manipolati, di essere diventati gli utili idioti di una globalizzazione che riduce in schiavitù centinaia di milioni di uomini, esclusi dal banchetto globale, inchiodati alla miseria. Non è abbassando l’uomo al livello del pollame che si risolvono problemi, o facendolo vergognare del ruolo privilegiato assegnato dalla creazione. L’uomo è stato cacciatore ed è ancora pastore ed allevatore. Dagli animali ha tratto nutrimento e tanto altro, ha il dovere del rispetto verso di loro, quel rispetto che millenni di civiltà contadina hanno mantenuto non sfruttando oltre misura il bestiame, non forzandone la natura. Dietro le campagne animaliste, insieme alla sincerità mal riposta di molti, si nasconde l’immenso affare del controllo del nutrimento di miliardi di uomini, un progetto di dominio che parte dai bisogni primari.
Nei grattacieli donde si comanda il mondo orientando il futuro qualcuno possiede le tecnologie relative ai semi ed alle ricerche nel mondo vegetale. C’è chi (la Bayer) spende 75 miliardi di dollari per comprare la Monsanto, dominatrice del sistema, quello sì criminale, degli organismi geneticamente modificati, che brevetta i semi usati da millenni dalle popolazioni del mondo per rivenderli a caro prezzo ed imporre le sementi da rinnovare ogni anno, insieme con i diserbanti chimici che inquinano le falde acquifere. Nella guerra commerciale in atto, la crescente superpotenza cinese non sta con le mani in mano ed acquista la concorrente di Monsanto, Syngenta, ed intanto compra a prezzi di saldo ampi pezzi dell’Africa fertile, con buona pace dei nemici dello schiavismo e colonialismo occidentale, poiché deve pur nutrire la sterminata massa dei suoi cittadini deportati dalle campagne per industrializzare ed inquinare oltre ogni limite enormi porzioni del suo territorio.
Intanto, ci impongono di scordare le nostre abitudini alimentari millenarie, frutto di un rapporto con il territorio di amicizia e comprensione. Nel caso degli ovini, nessun pastore si è mai sognato di buttare via la lana delle pecore, come fa oggi l’uomo civilizzato, o di macellare animali troppo giovani. L’uso cristiano di uccidere gli agnelli in certe occasioni come la Pasqua rimanda alla dimensione del sacro, al sacrificio di privarsi di una ricchezza per rendere omaggio a quella dimensione ulteriore, “altra” che l’uomo ha avvertito entro e sopra di sé come un privilegio del quale ringraziare un Dio. L’agnello di Dio non toglie, come recita la pessima traduzione maccheronica del verbo tollere, ma prende, assume su di sé, i mali del mondo. Il Corano fu inizialmente rivolto a popolazioni nomadi di terre desertiche. Ovvio che condannasse l’uso dell’alcool e l’allevamento di suini: condotte insalubri sgradite ad Allah.
L’uomo contemporaneo ha smarrito ogni riferimento al sacro, precipitando in un imbuto con due opposti: da un lato la condizione umana vissuta come dominio, sfruttamento, ambizione smodata sganciata da qualunque senso morale. Dall’altra, la riduzione ad essere tra gli esseri, diverso soltanto per le più complesse prestazioni cerebrali. Una bestia tra tante, con più sinapsi ed un’ideologia di uguaglianza tanto estrema da non distinguere tra l’omicidio e la sussistenza che ci ha fatto cacciare prima, allevare poi molte razze animali senza farle estinguere. Sapevamo già tutto della biodiversità, senza piangere sugli agnellini e senza strillare assassini ai cacciatori, tacendo magari su chi nega la cure a milioni di malati che non possono permettersele o su chi banalizza la soppressione degli “umani” non ancora nati.
E’ un terribile mondo carico di contraddizioni insanabili, quello che festeggia, o semplicemente prende atto, di una ricorrenza che è così umana da essere divina, la resurrezione di un predicatore palestinese, un ribelle messo a morte dal potere costituito. La tradizione, dalle nostre parti, prescrive di sacrificare degli agnelli, simboli di quel Cristo.
Berlusconi, la Boldrini ed una strana alleanza di iperpadroni, pacifisti, animalisti e “umani civilizzati” non vogliono. Pretendono che sotto tutti i cieli ciascuno sia identico ad ogni altro, mangi la medesima sbobba, soia, tofu, organismi geneticamente modificati, forse insetti. E’ il mondo nuovo, indigesto e tutt’altro che biodegradabile, ma i suoi cantori passano per oppositori, trasgressivi, progressisti, emancipati! Forse era meno peggio il tempo in cui si pretendeva di liberare l’umanità con Falce e Martello. Oggi con Felce e Mirtillo, dell’uomo, anzi dell’umano, ci vogliamo liberare. Con il pretesto di salvare l’agnello dalla Pasqua, corriamo verso il gregge globale: i pastori ringraziano, e si fregano le mani.
Roberto Pecchioli
In redazione il 14 Aprile 2017
L’agnello pasquale e l’inganno animalista. La buga abbocca!
di
Roberto Pecchioli
Apologia dell’agnello pasquale
di Alessandro Rico
È notizia recente la proposta di legge di Michela Brambilla, che condannerebbe a due anni di reclusione chi mangia il coniglio, tenero animale da compagnia che merita quindi le stesse tutele giuridiche di cani e gatti. Spaventosa è la prospettiva illiberale di uno Stato che si ricorda di essere etico quando vuole decidere cosa possiamo mangiare‚ e non quando nelle scuole pubbliche si insegna la dottrina gender. In realtà si tratta solo di una delle tante tiritere animaliste che subiremo durante le festività pasquali, quando le bacheche dei social network si riempiranno di commoventi immaginette di agnelli da salvare dal mattatoio. Da qualche anno a questa parte sembra proprio che l’umanitarismo liberal, tanto di moda negli ambienti più all’avanguardia di Europa e Stati Uniti, si sia spinto così in là da far rientrare nella categoria dell’umano anche gli animali. Ne è un esempio piuttosto celebre il filosofo australiano Peter Singer, tra i massimi esponenti della corrente intellettuale devota alla causa degli animal rights – anche se fonti ufficiose ci assicurano di averlo visto gustare una bella bistecca. In fondo, è il prevedibile approdo del materialismo sensistico del mondo moderno, in cui non c’è più posto per l’idea di una creazione ordinata e disposta finalisticamente, né per la fede in un’anima razionale che distingue uomo e bestia. Contano solo i sensi, ossia in che misura si può assecondare la ricerca del piacere; e in ciò non ci sono soglie che dividono l’animale dall’essere umano – qualcuno direbbe che un pastore tedesco adulto ha la stessa intelligenza di un bambino di tre anni.
Eppure, c’è tutto un sistema di significazione attraverso il quale diamo un nostro senso al mondo, tutto un universo cognitivo che ci separa dagli animali, al punto che Wittgenstein, nelle sue Ricerche filosofiche, poteva affermare che “anche se un leone potesse parlare, noi non potremmo capirlo”. Questo mondo è il nostro mondo e ha un certo senso per noi, e solo dentro questo nostro senso ci sono “loro”. Che posto occupano allora gli animali? Possono essere sfruttati, maltrattati come oggetti? Il filosofo conservatore Roger Scruton offre forse la risposta più convincente alla pletora di buonisti, dalla Brambilla ai vegani di Facebook. Gli animali sono nostri amici, ma trattarli da amici significa rispettare la verità della loro condizione. Essi non sono passibili di scelte morali, neppure potenzialmente. Pertanto può essere discutibile una certa modalità industriale di impiegarli, come l’allevamento in batteria; al contrario, i metodi tradizionali di allevamento, in cui l’animale vive nel suo ambiente prediletto, indisturbato fino al momento della macellazione, rispondono perfettamente all’ordine (e alla gerarchia) della natura. In questo quadro si inserisce anche la cultura venatoria, oggetto di attacchi feroci da parte degli animalisti, che evidentemente non hanno coscienza di quanto il vero cacciatore ami e rispetti l’ambiente, inserendosi al posto giusto in quella che una volta si chiamava catena alimentare – a differenza di certi ambientalisti che per salvare una specie di pesci porterebbero alla rovina un intero ecosistema.
A ciò si aggiunga che l’agnello di Pasqua veicola un profondo significato spirituale‚ quello dell’Agnello di Dio che col suo sacrificio dona salvezza agli uomini. Da questo punto di vista quell’arrosto segnala un profondo cambiamento nella sensibilità religiosa dei cristiani‚ che agli animalisti dovrebbe piacere: la fine di ogni olocausto‚ sostituito una volta per tutte dalla morte del Figlio di Dio. In effetti‚ verrebbe da chiedersi quanti dei sostenitori dell’etica animale si sarebbero dissociati dalla condanna sommaria di quell’Agnello‚ il Cristo appeso alla croce a soffrire per la nostra redenzione. Perché l’esito di queste morali senza Dio‚ che pure partono da premesse tanto umanistiche da radunare in unico abbraccio anche cani e capretti‚ è di sottrarre all’uomo la sua posizione speciale‚ specie quando la persona si trova in condizioni di particolare invisibilità‚ debolezza o malattia. Si può uccidere un feto e sopprimere un malato‚ ma guai a cuocere gli arrosticini. E allora‚ da buoni cristiani‚ sediamoci con la famiglia‚ ringraziamo Dio e godiamoci l’agnello pasquale. Prima che ci vietino pure questo.
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