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mercoledì 28 giugno 2017

Il culto della contraddizione

Considerazioni teologiche e liturgiche sulla concelebrazione


(di Cristiana de Magistris) Fino al Concilio Vaticano II la concelebrazione non è stata una questione particolarmente disputata. La tradizione e la prassi della Chiesa erano ben consolidate e non v’era motivo di sollevar questioni. La diatriba è iniziata col modernismo ed è culminata nell’ultima assise conciliare, a partire dalla quale la concelebrazione è divenuta una consuetudine “selvaggia”, che ha oscurato pesantemente e spesso ostacolato la celebrazione individuale.
Nel 1981 il padre carmelitano Joseph de Sainte-Marie dedicò al “problema” della concelebrazione – ché tale era divenuto dopo il Vaticano II – un ampio e documentato volume, il quale a tutt’oggi sembra essere lo studio più esauriente sul tema (L’Eucharistie, salut du monde, Dominique Martin Morin, Paris 1982).


Il punto centrale del problema della concelebrazione è stabilire se nella concelebrazione si ha un solo sacrificio, ossia una sola Messa, o tante Messe quante sono i concelebranti. È a tale questione che il padre Joseph dedica gran parte dei suoi sforzi, poiché è dalla risposta a tale domanda che dipende conseguenzialmente l’opportunità della concelebrazione per il bene comune della Chiesa, o il suo contrario. In fin dei conti, la ragione ultima della disputa è sapere qual è il modo di celebrare il santo Sacrificio della Messa che dà a Dio maggior gloria e procura la più grande ricchezza di grazia redentrice per la Chiesa.
Una prima osservazione riguarda la distinzione capitale tra l’antica concelebrazione “cerimoniale” e quella “sacramentale”. Il padre Joseph de Sainte-Marie la spiega bene, ricordandone le origini storiche. La concelebrazione delle origini è esclusivamente “cerimoniale”: il vescovo, o il Papa, celebra e i sacerdoti stanno intorno. Con l’Ordo Romanus III (ultimi anni dell’VIII secolo) appare per la prima volta, a Roma, la concelebrazione “sacramentale”: essa si svolge in quattro occasioni durante l’anno (Pasqua, Pentecoste, festa di S. Pietro, Natività).

I preti-cardinali della città di Roma si riuniscono intorno al Papa per concelebrare. Nel IX secolo, in seguito all’Ordo Romanus IV, vi sono dei documenti che parlano di Messa crismale del Giovedì Santo concelebrata in alcune città della Francia (es. Lione) e di alcune altre feste liturgiche come l’Epifania e l’Ascensione. Con la fine del XII secolo scompare la concelebrazione a Roma. Nel XVI secolo riappare inizialmente in forma sporadica poi più generalizzata per le Messe di ordinazione, specialmente sacerdotali ed episcopali.
Nel XVIII secolo in Oriente inizia ad essere adottata la concelebrazione “sacramentale” per l’influenza che arriva dall’Occidente, ma è prevista solo nei giorni di festa per dar maggior risalto alla liturgia. In Oriente si era sempre avuta la concelebrazione “cerimoniale” dove permane ancora esclusivamente nella maggior parte delle chiese (riti Caldei, Armeni, Etiopici, Greci ortodossi, Siriaci).
Il tema della concelebrazione riapparve dopo la Seconda guerra mondiale, lanciato dal movimento liturgico: il principio teologico soggiacente era la soppressione della distinzione tra sacerdozio del prete e quello dei fedeli che “concelebrano” insieme. Papa Pio XII denunciò tali errori nell’enciclica Mediator Dei (20-11-1947). Nel 1954 Pio XII ribadì che solo il sacerdote ha il potere di offrire il sacrificio della Messa e condannò il principio secondo cui una Messa alla quale partecipano 100 sacerdoti sia uguale a 100 Messe.
Il 22 settembre 1956 nel Congresso Internazionale di Liturgia, Pio XII chiarì il suo pensiero spiegando che «nel caso d’una concelebrazione nel senso vero e proprio della parola, Cristo invece di agire per il tramite di un solo ministro, agisce per mezzo di più». Nel discorso del Papa è chiara la necessaria differenza tra concelebrazione “sacramentale” e concelebrazione “cerimoniale”.
Negli anni del Concilio avvenne il passaggio dalla concelebrazione cerimoniale a quella sacramentale, “lanciata” da teologi e liturgisti progressisti, ma rigorosi, come padre Karl Rahner, mons. A.G. Martimort, Dom Bette, consapevoli del fatto che la concelebrazione sacramentale comportava un unico atto liturgico e dunque un’unica Messa. Questa linea influenzò il Concilio, in cui si discusse molto sull’argomento.
Il 25 gennaio 1964, Paolo VI, con il Motu Proprio Sacram Liturgiam istituì una commissione con il compito di attuare le prescrizioni presenti nella Sacrosanctum Concilium. Paolo VI concelebrò in San Pietro il 14 settembre dello stesso anno all’apertura della III sessione del Concilio. Da allora la concelebrazione sacramentale dilagò nella Chiesa, in modo preoccupante.
L’unicità del Sacrificio nel caso della concelebrazione è ritenuto dal padre de Sainte-Marie un dato certo e non suscettibile di dibattito. Già san Tommaso aveva posto la questione: «Se più sacerdoti possano consacrare una medesima ostia», a cui aveva dato la seguente spiegazione: «Se ciascun sacerdote agisse per virtù propria, gli altri celebranti sarebbero superflui, bastandone uno soloMa poiché il sacerdote non consacra che in persona di Cristo, e i molti non sono che «una cosa sola in Cristo», poco importa che questo sacramento venga consacrato da uno o da molti, purché si rispetti il rito della Chiesa» (Summa Theologica, III, q.82, a.2, ad. 2 m).
In sostanza san Tommaso ritiene superfluo che più sacerdoti facciano ciò che può fare uno solo. Di conseguenza per la concelebrazione di una Messa importa poco o importa nulla il numero dei celebranti. E il solo modo di moltiplicare il numero dei sacrifici eucaristici (per la gloria di Dio e la salvezza delle anime) non è quella di moltiplicare i ministri della concelebrazione, che produce l’effetto contrario, ma di moltiplicare le celebrazioni liturgiche del rito sacramentale della Messa.
Il teologo domenicano Roger Thomas Calmel fornisce un calzante esempio per spiegare l’unicità del sacrificio nel caso della concelebrazione: «Se per fucilare un traditore si riunisce un plotone di 12 soldati, ci saranno certamente dodici atti “uccisivi”, ma l’uccisione è una sola. Immaginate che ci siano tanti traditori. Ebbene, la patria sarà molto più efficacemente soccorsa se ciascuno dei soldati mette a morte un traditore, piuttosto che si raggruppassero 12 soldati per uccidere un solo traditore. Parimenti la Chiesa di Dio sarà ben più aiutata (e soprattutto Dio sarà ben più glorificato) se, per esempio, 40 preti dicono ciascuno una Messa, piuttosto che se 40 preti si riuniscono per fare insieme una consacrazione unica, una sola Messa(…) La gloria resa a Dio, l’intercessione propiziatoria per le anime è certamente minore quando c’è un solo sacrificio sacramentale (concelebrazione) che quando ci sono 40 sacrifici sacramentali. Dico “sacramentali” per distinguerli dal sacrificio cruento che è unico».
Più tardi, nel 1991, in una lettera al card. Pietro Palazzini, padre Enrico Zoffoli, autore del testo La Messa unico tesoro e la sua concelebrazione, si chiede: quante sono realmente le Messe: una, oppure quanti sono i sacerdoti concelebranti? «Non esito a rispondere – scrive – che tutti celebrano una sola Messa, se veramente con-celebrano.
Infatti: se nella Messa individuale uno è il ministro offerente, in quella concelebrata sono molti; tali però solo fisicamente, non MORALMENTE; distinzione che, a mio parere, è sufficiente a risolvere la controversia. In realtà: unico è l’altare…, unica la materia da consacrare…, unica la consacrazione…, unico il tempo della pronunzia delle parole della medesima…; unico il sacerdozio ministeriale messo in evidenza dalla concelebrazione… Tutti, dunque, rappresentano e si comportano come se fossero (formassero) UN SOLO MINISTRO con l’intenzione di compiere una sola azione liturgica: Multi sunt unum in Christo…» (S. Th., III, q.82, a.2, 3um).
L’importante è che «omnium intentio debet ferri ad idem instans consecrationis» (iv., c.). «Il quesito – scrive il teologo passionista –, antecedentemente ad ogni mia affermazione e spiegazione, è stato più volte proposto a numerosi e scelti gruppi di fedeli, che all’unanimità e senza alcuna esitazione si sono pronunciati sostenendo che “la Messa” concelebrata è una, non molte Messe celebrate quanti sono i sacerdoti».
Da parte di taluni si vorrebbe far passare Pio XII come un apripista della concelebrazione.  In realtà, sotto il pontificato di Pio XII, la concelebrazione non ebbe diritto di cittadinanza se non – com’era già tradizione della Chiesa – in occasione delle ordinazioni episcopali e sacerdotali. L’unica novità è contenuta nell’Episcopalis Consecrationis con cui si apre la “concelebrazione episcopale” (ossia l’imposizione delle mani sul nuovo Vescovo) ai Vescovi assistenti, secondo precise indicazioni. Con l’affermazione che nella concelebrazione v’è una “consacrazione simultanea” (Allocuzione in occasione della chiusura del Congresso nazionale di Liturgia pastorale – Assisi 1956) sembra abbastanza chiaro che si tratti di un unico Sacrificio, come sostenuto anche dal cardinal Journet, il quale afferma che nella concelebrazione ci sono molti consacranti, «plures ex aequo consecrantes», ma una sola azione consacratoria, «una consecratio» (Le sacrifice de la Messe, in Nova et Vetera, 46 (1971), p. 248).
Va pure notato che gl’interventi magisteriali più autorevoli in materia liturgica (la Costituzione apostolica Episcopalis Consecrationis e l’Enciclica Mediator Dei) non trattano della concelebrazione eucaristica in senso stretto. Di essa Pio XII trattò solo nell’allocuzione del 22 settembre 1956 in cui affermò che «nel caso di una concelebrazione nel senso proprio della parola, Cristo invece di agire per il tramite di un solo ministro, agisce per mezzo di più».
Il primo esperimento di concelebrazione venne effettuato il 19 giugno 1964 nella chiesa di Sant’Anselmo con la concelebrazione di 20 sacerdoti. Da allora la concelebrazione si è diffusa in modo esponenziale e selvaggio. Ma – a chiarire le intenzioni dei novatores – occorre leggere il cap. XI “Concelebrazione” del volume di mons. Annibale Bugnini, La riforma liturgica (1948-1975) (C.L.V.- Edizioni Liturgiche, Roma 1997, pp. 133-144 e passi), in cui l’autore, segretario della Commissione Liturgica preparatoria, spiega come si arrivò al «primo rito completamente nuovo della riforma» (p. 133), quello della concelebrazione e della comunione sotto le due specie, entrato in vigore il 15 aprile 1965. Bugnini conferma come «in questa forma di celebrazione, più sacerdoti, in virtù dello stesso sacerdozio e nella persona del Sommo Sacerdote, agiscono insieme, con una sola volontà e una sola voce, e celebrano l’unico sacrificio con un unico atto sacramentale e insieme vi partecipano» (p. 138).
Al di là della diatriba teologico-liturgica, bisogna tener presenti i risvolti pastorali della concelebrazione. Certamente la concelebrazione non aiuta né sacerdoti né fedeli nella vita spirituale, e quindi nella salus animarum che è – fino a prova contraria – la suprema lex. Nella concelebrazione i sacerdoti sono immersi in mille distrazioni e certamente sono molto meno partecipi del mistero che se celebrassero da soli.
I fedeli vedono diminuire le Messe in modo vertiginoso, poiché i preti spesso preferiscono la veloce e meno impegnativa concelebrazione. Se poi la concelebrazione viene, gradualmente imposta, allora per i fedeli sarà sempre più difficile trovare Messe a diversi orari, visto che per ogni concelebrazione c’è una diminuzione di Messe (e di grazie) inversamente proporzionale al numero dei concelebranti. Dunque, meno Messe per quel popolo di Dio, quel gregge, che nell’attuale Pontificato sembra essere il grande privilegiato di tutte le scelte pastorali. Ma in tema di concelebrazione è, in realtà, il grande penalizzato. A meno che non si voglia leggere l’attuale disposizione come un capzioso e lento invito ad abbandonare progressivamente la Santa Messa.  (Cristiana de Magistris)
https://www.corrispondenzaromana.it/considerazioni-teologiche-e-liturgiche-sulla-concelebrazione/ 
Francesco impone la concelebrazione nei collegi romani


(di Roberto de Mattei) In Vaticano corre questa voce. A un collaboratore che gli ha chiesto se sia vero che esista una commissione per “reinterpretare” la Humanae vitae, papa Francesco avrebbe risposto: «Non è una commissione, è un gruppo di lavoro» Non si tratta solo di artifici linguistici per nascondere la verità, ma giochi di parole che rivelano come il culto della contraddizione sia l’essenza di questo pontificato. Mons. Gilfredo Marengo, coordinatore del “gruppo di lavoro”, riassume bene questa filosofia, quando afferma che bisogna sfuggire al «gioco polemico pillola sì – pillola no, così come a quello odierno comunione ai divorziati sì  comunione ai divorziati no» (Vaticaninsider, 23 marzo 2017).
Questa premessa è necessaria per presentare un nuovo documento confidenziale, risultato, anch’esso, di un altro “gruppo di lavoro”. E’ il working paper della Congregazione del Clero Sulla concelebrazione nei collegi sacerdotali di Roma, che circola in maniera riservata nei collegi e seminari romani. Ciò che da questo testo emerge con chiarezza è che papa Francesco vuole imporre, di fatto, se non di principio la concelebrazione eucaristica nei collegi e nei seminari romani, affermando che «la celebrazione comunitaria deve essere sempre preferita a quella individuale».
Il motivo di questa decisione emerge dal documento. Roma non è solo la sede della Cattedra di Pietro e il cuore della Cristianità, ma è anche il luogo in cui sacerdoti e seminaristi di tutto il mondo convergono per acquisire quella venerazione verso la fede, i riti e le tradizioni della Chiesa, che una volta si chiamava “spirito romano”.
La permanenza a Roma, che aiutava a sviluppare l’amore alla Tradizione della Chiesa, oggi offre l’opportunità di una “rieducazione” dottrinale e liturgica a chi vuole “riformare” la Chiesa secondo le direttive di papa Bergoglio. La vita nei collegi romani – afferma infatti il working paper – offre l’occasione «per vivere allo stesso tempo un periodo intenso di formazione permanente integrale». 
Il documento si richiama esplicitamente a un recente discorso ai sacerdoti che studiano a Roma, in cui Papa Francesco ha ricordato l’importanza ecclesiale della concelebrazione nel contesto delle comunità dei sacerdoti studenti: «Si tratta di una sfida permanente per superare l’individualismo e vivere la diversità come un dono, cercando l’unità del presbiterio, che è segno della presenza di Dio nella vita della comunità. Il presbiterio che non mantiene l’unità, di fatto, scaccia Dio dalla propria testimonianza. Non testimonia la presenza di Dio. Lo manda fuori. In tal modo, riuniti nel nome del Signore, specialmente quando celebrate l’Eucarestia, manifestate anche sacramentalmente che Lui è l’amore del vostro cuore» (Discorso del 1 aprile 2017).
Alla luce di questa dottrina, il working paper della Congregazione per il Clero, ribadisce che «è da preferire la Messa concelebrata rispetto alla celebrazione individuale» (grassetto nell’originale, anche nelle citazioni che seguono).
«Pertanto i Superiori sono vivamente invitati a incoraggiare la Concelebrazione, anche più volte al giorno, nelle grandi comunità presbiterali. Di conseguenza si possono prevedere nei Collegi varie concelebrazioni, in modo che i presbiteri residenti in essi vi possano partecipare secondo le proprie esigenze, avendo cura dì stabi1ire due o tre momenti lungo la giornata».
«In effetti, i rapporti quotidiani, condivisi ogni giorno e per anni nello stesso Collegio Romano, sono un’esperienza importante nella traiettoria vocazionale di ciascun sacerdote. Tramite questa mediazione, infatti, si stabiliscono vincoli di fraternità e di comunione tra presbiteri di diverse diocesi e nazioni che trovano un’espressione sacramentale nella concelebrazione eucaristica».
«Certamente, l’allontanarsi dalla propria diocesi d’incardinazione e dalla missione pastorale durante un tempo abbastanza lungo garantisce non soltanto la preparazione intellettuale, ma soprattutto offre l’occasione per vivere allo stesso tempo un periodo intenso di formazione permanente integrale. In quest’ottica la vita comune dei Collegi sacerdotali offre questa modalità della fraternità presbiterale, probabilmente nuova rispetto al passato. L’esperienza del Collegio rappresenta un’opportunità per una fruttuosa celebrazione dell’Eucaristia da parte dei sacerdoti.Pertanto, la pratica della Concelebrazione eucaristica quotidiana nei Collegi può diventare un’occasione di approfondimento della vita spirituale dei sacerdoti, con importanti frutti, come: l’espressione della comunione tra i presbiteri delle diverse Chiese particolari, che è manifestata particolarmente quando i Vescovi delle diverse diocesi presiedono la concelebrazione in occasione delle visite a Roma; l’opportunità di ascoltare l’omelia tenuta da un altro confratello; la celebrazione curata, e anche solenne, dell’Eucaristia quotidiana, l’approfondimento della devozione eucaristica che ogni  sacerdote deve coltivare, al di là della stessa celebrazione».
Tra le norme pratiche che vengono indicate, si legge: «È raccomandabile che i sacerdoti possano partecipare ordinariamente alla Concelebrazione eucaristica negli orari previsti nel Collegio, preferendo sempre la celebrazione comunitaria a quella individuale. In tal senso, i Collegi con un nutrito numero di sacerdoti ospiti potrebbero stabilire la Concelebrazione Eucaristica in 2 o 3 orari diversi della giornata, in modo da permettere a ciascuno di partecipare secondo le proprie esigenze personali, accademiche o pastorali».
«Se i sacerdoti residenti nel Collegio per circostanze particolari non possono partecipare alla Concelebrazione negli orari previsti, devono preferire sempre il celebrare insieme in un altro orario più conveniente».
La violazione del canone 902, secondo cui i sacerdoti «possono concelebrare l’Eucaristia, rimanendo tuttavia intatta per i singoli la libertà di celebrarla in modo individuale», è palese e reiterata in due passi del testo, con la conseguenza che i collegi che applicheranno alla lettera il working paper violeranno la legge universale vigente. Ma al di là delle considerazioni giuridiche, ve ne sono altre di natura teologica e spirituale.
Il 5 marzo 2012, in occasione della presentazione del libro di mons. Guillaume Derville, La concelebrazione eucaristica. Dal simbolo alla realtà (Wilson & Lafleur, Montréal 2012), il cardinale Antonio Cañizares, allora prefetto della Congregazione per il Culto Divino, sottolineò la necessità di “moderare” la concelebrazione, facendo proprie le parole di Benedetto XVI: «raccomando ai sacerdoti la celebrazione quotidiana della santa Messa, anche quando non ci fosse partecipazione di fedeli. Tale raccomandazione si accorda innanzitutto con il valore oggettivamente infinito di ogni Celebrazione eucaristica; e trae poi motivo dalla sua singolare efficacia spirituale, perché, se vissuta con attenzione e fede, la santa Messa è formativa nel senso più profondo del termine, in quanto promuove la conformazione a Cristo e rinsalda il sacerdote nella sua vocazione» (Esortazione Apostolica Sacramentum caritatis, n. 80).
La dottrina cattolica vede infatti nella Santa Messa il rinnovamento incruento del Sacrificio della Croce. La moltiplicazione delle Messe rende la maggior gloria a Dio ed è un immenso bene per le anime. «Se ogni Messa ha in se stessa un valore infinito – scrive il Padre Joseph de Sainte-Marie –, le disposizioni degli uomini per riceverne i frutti sono sempre imperfette e, in questo senso, limitate. Da qui l’importanza del numero delle celebrazioni delle Messe per moltiplicare i frutti della salvezza. Sostenuta da questo ragionamento teologico elementare ma sufficiente, la fecondità salvifica della moltiplicazione delle Messe è inoltre provata dalla pratica liturgica della Chiesa e dall’atteggiamento del Magistero. Di questa fecondità la Chiesa – la storia lo insegna – ha preso progressivamente coscienza nel corso dei secoli, promuovendo la pratica e poi incoraggiando ufficialmente sempre più la moltiplicazione delle Messe» (L’Eucharistie, salut du monde, Dominique Martin Morin, Parigi 1982, pp. 457-458).
Per i neo-modernisti la Messa si riduce ad un’assemblea, tanto più significativa quanto maggiore è il numero dei sacerdoti e dei fedeli che ad essa partecipano. La concelebrazione è intesa come uno strumento per far perdere lentamente al Sacerdote la coscienza del suo essere e della sua missione, che è unicamente la celebrazione del sacrificio eucaristico e la salvezza delle anime.
Ma la diminuzione delle Messe e la perdita della retta concezione della Messa è una delle principali cause della crisi religiosa del nostro tempo. Ora anche la Congregazione per il Clero, per volere di papa Bergoglio, porta il suo contributo a questo smantellamento della fede cattolica. (Roberto de Mattei)

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