Sulla costa sudorientale del Mediterraneo vi è un luogo sacro, situato sulla punta nordoccidentale del complesso del Monte Carmelo, nella regione della Galilea, oggi occupata dal moderno Stato ebraico.
Questa punta si protende nel Mediterraneo in direzione NordOvest.
Questo luogo è reputato essere quello abitato dal Profeta Elia e dove egli sconfisse i demoni di Baal, affermando il culto del vero Dio. In questo luogo sorge il monastero del Monte Carmelo, dove i primi eremiti vollero abitare accanto alla grotta di Elia. Qui, nel 1230, San Simone Stock ebbe la visione della Madonna, da cui ebbe origine la devozione dello Scapolare del Carmelo.
La grotta di Elia
Il Profeta Elia è stato il primo Profeta di Israele e venne “rapito in Cielo” su un carro di fuoco, così che si riteneva che egli dovesse tornare. A questo si collega il particolare legame tra Elia e Gesù, specialmente significato al momento della Trasfigurazione, dove San Pietro, San Giovanni e San Giacomo hanno la visione di Gesù trasfigurato che conversa con Mosè ed Elia.
L’iconografia di questo Profeta lo raffigura con la spada fiammeggiante in mano mentre sconfigge i demoni, la stessa iconografia che si ritrova per l’Arcangelo San Michele.
Da questa punta a SudEst dell’Europa si diparte una linea retta in direzione NordOvest, che segue il percorso del Sole nel solstizio d’estate e che culmina nell’estremità NordOvest dell’Europa, in Irlanda, sulla Great Skelling, l’isolotto più grande delle isole omonime.
Su questa isola si trova lo Sceilig Mhichil, in gaelico, o Skelling Michael, in inglese: Roccia di Michele. Qui San Michele è apparso a San Patrizio, evangelizzatore dell’Irlanda, per aiutarlo a liberare il paese dai demoni, e qui, forse nel 588, nacque un monastero dedicato al Santo Arcangelo.
Se torniamo a SudEst, lasciato il Monte Carmelo, lungo questa linea retta, in direzione NordOvest si incontra l’isola di Symi, nel Dodecanneso, in Grecia.
Qui, in località Panormitis, si trova il monastero di San Michele, in cui è conservata un’icona di San Michele alta tre metri, in ricordo della protezione contro i nemici pagani accordata dal Santo Arcangelo, il quale si assicura venga in sogno a coloro che dormono di passaggio in quei luoghi.
Risalendo questa linea retta, si incontra nel SudEst dell’Italia, sul promontorio del Gargano, il noto Santuario di San Michele, a Monte Sant’Angelo, vicino a San Giovanni Rotondo, ove è sito il luogo di sepoltura di San Pio da Pietrelcina.
Questo Santuario di San Michele è uno dei più noti luoghi di culto di San Michele, dove il Santo Arcangelo è apparso più volte e da dove, con un lembo del suo mantello, si è dipartita la costruzione della Sagra di San Michele, a ridosso delle Alpi Cozie, in Piemonte.
La linea retta prosegue ad incontrare, ancora in Italia, sulle propaggini della catena delle Alpi, a NordOvest, un altro Santuario di San Michele, la Sagra di San Michele, posta all’imbocco della valle di Susa, quella stessa che Annibale attraversò per entrare nella Cispadania dalla Gallia.
La Sacra, detta anche Abbazia di San Michele della Chiusa, sorge sul monte Pirchiriano, la sua costruzione si fa risalire intorno all’anno mille, ma si dà per probabile che esistesse già prima un luogo di culto dedicato a San Michele, rafforzato successivamente dai Longobardi, particolarmente legati al culto del Santo Arcangelo.
Per giungere dall’ingresso del complesso, in basso, fino all’ingresso all’aperto della chiesa abbaziale, in alto, si deve salire una scala: “lo scalone dei morti”, così chiamato perché un tempo era cosparso di sarcofaghi posti a fianco alla scala stessa. Questo particolare richiama uno degli attributi di San Michele: psicopompo, colui che porta le anime in Cielo; ed è significativo che questo scalone dei morti conduca dalla parte oscura di questa zona dell’abbazia alla parte aerea più alta, dove è posto l’ingresso della chiesa.
Proseguendo verso NordOvest, la linea passa per la Normandia, nel NordOvest della Francia, dove su un isolotto collegato da un istmo alla terra ferma si trova il Santuario di San Michele, Mont Saint Michel in francese.
Dopo l’apparizione di San Michele nel 709, ebbe inizio l’insediamento del complesso dedicato al Santo Arcangelo. L’inizio della costruzione ritardò a causa di Sant’Auberto, a cui l’Arcangelo era apparso e a cui aveva chiesto l’erezione del luogo di culto. Sant’Auberto venne punito per la sua negligenza: colpito da un dito dell’Arcangelo che gli perforò il cranio, senza però ucciderlo. Il cranio perforato è ancora conservato nella cattedrale di Avranches.
A sinistra la guglia del Santuario di Mont Saint Michel,
sovrastata dalla statua del Santo Argangelo (a destra),
posto a protezione della Normandia
sovrastata dalla statua del Santo Argangelo (a destra),
posto a protezione della Normandia
Come detto prima per la Sagra di San Michele, la costruzione di questo Santuario si reputa sia stata condotta con l’intervento dei monaci di Monte Sant’Angelo, che portarono con loro ancora un lembo del mantello del Santo Arcangelo lì apparso.
Questo elemento della comune reliquia si lega alla particolare collocazione dei tre Santuari, posti alla pari distanza di 1000 kilometri l’uno dall’altro. Si racconta anche che questa direttrice NordOvest SudEst che collega i tre santuari corrisponda al fendente assestato da San Michele al Demonio per cacciarlo nell’Inferno.
Dalla Normandia, la linea prosegue verso l’Irlanda, lungo di essa, in Cornovaglia, si trova il St Michael’s Mount, Monte di San Michele, su un isolotto di fronte al paese di Marazion. Questo insediamento, dove il Santo Arcangelo apparve nel 495, presenta le stesse caratteristiche del Mont Saint Michel in Normandia, e si dice che siano stati gli stessi Benedettini di Mont Saint Michel a dare inizio alla costruzione della nuova abbazia, di cui è rimasta solo la chiesa.
La linea retta partita dal Monte Carmelo si conclude in Irlanda, sulla Great Skelling, come abbiamo visto prima.
Si deve aggiungere questa linea, vista in senso inverso a quello seguito fin qui, forma un percorso che partendo da Occidente, in Irlanda, arriva ad Oriente, in Galilea, ma qui siamo già in Terra Santa; così di fatto è come se questa linea portasse dall’estremo Occidente dell’Europa in Terra Santa, a Gerusalemme, che sono chiaramente l’Oriente principale o, se si vuole, il cuore dell’Oriente europeo, il centro da cui si dipartirebbe idealmente tutta l’Europa, l’omphalos della vera civiltà, che è la civiltà cristiana.
E a questo punto diventa inevitabile il richiamo all’intera civiltà occidentale che è nata e si è sviluppata come la civiltà del nuovo Ordine che nell’intera Europa sostituì, sotto il segno della Croce, il vecchio Ordine a suo tempo stabilito da Roma. E tale sostituzione è altamente significata dall’essere diventata Roma il centro della Cristianità.
Oggi, dopo secoli, si ritorna a parlare dell’Europa come di un’entità univoca, rappresentante una civiltà, che però non si capisce bene su che cosa si fondi.
Fino ad almeno un secolo fa, la civiltà europea, che è diventata civiltà occidentale, si fondava sul cristianesimo, nonostante già cinquecento anni fa si gettarono le basi per il suo disfacimento: col protestantesimo, che generò l’illuminismo, fino al democraticismo, al comunismo e oggi al nichilismo. Ma oggi, quando si parla di Europa, su che cosa si pretende di fondarla, se non sugli stessi “ismi” che l’hanno condotta, insieme all’intero Occidente, all’attuale sfacelo?
Se si vuole davvero ridare vita all’Europa, occorre riprendere nelle menti e nei cuori i valori fondanti del cristianesimo, così da poter far rivivere, se possibile, quella entità primariamente religiosa che rappresentò l’eredità di Roma e costituì, a partire dal Sacro Romano Impero, come il cuore del mondo, con al centro la Croce.
Un’entità che va dall’Atlantico agli Urali, dall’Occidente all’Oriente, dovunque rimangono ancora le eredità del cristianesimo.
Si comprende, quindi, che una tale ripresa sarebbe grandemente facilitata se gli Europei dessero rinnovato vigore al culto dei loro luoghi santi, in primis di quelli dedicati al Santo Arcangelo Michele: il Principe delle milizie celesti, il dominatore di Satana e, come ricorda la preghiera raccomandata – oggi invano - dal Papa Leone XIII, il difensore dei credenti contro le potenze infernali che infestano il mondo.
Questa istanza dovrebbe essere sentita innanzi tutto nell’ambito della Chiesa, che invece di parlare molto modernamente e molto nichilisticamente di ecumenismo, dovrebbe sollecitare gli Europei a tornare ad essere i figli dei costruttori dei Santuari di San Michele, sia in Occidente, sia in Oriente, dove il Santo Arcangelo conosce un culto tanto antico quanto diffuso.
Cattedrale di San Michele, nel Cremlino, a Mosca
Abbiamo visto il Santuario di Symi, ma altri importanti luoghi di culto del Santo Arcangelo si ritrovano in tutto l’Oriente cristiano: dalla cattedrale funeraria di Mosca, sita nel Cremlino e dove sono seppelliti gli antichi príncipi russi, anche qui a richiamare la funzione di San Michele come conduttore delle anime in Cielo; al monastero di San Michele a Kiev, in Ucraina.
Monastero di San Michele a Kiev, Ucraina
Questo riappropriarsi del culto del Santo Arcangelo, che a partire dai Longobardi e dai Celti persiste con vigore fino ai nostri giorni, spazzerebbe d’un sol colpo tutta la sovversione diffusasi nella civiltà occidentale a partire dalla sulfurea rivolta anticristiana di Lutero, che ha sovvertito la stessa Chiesa cattolica fino alla catastrofe del Vaticano II e dei suoi postumi.
Articolo di Giovanni Servodio
http://www.unavox.it/ArtDiversi/DIV2018_Servodio_Fondamento_vera_Europa.html
I padroni del caos e la riscoperta dell’identità
Qui nella vecchia Europa, in particolare, lo smarrimento è palese. Nazioni e Stati non sono più in grado non solo di attuare politiche in base alla propria responsabilità e libertà, ma addirittura di dare ragione del proprio essere. Altri organismi hanno preso il sopravvento, altre logiche si sono sostituite a quelle che un tempo, bene o male, trovavano fondamento nell’identità nazionale e nell’organizzazione statale come supporto di natura normativa. Ora le decisioni sono prese altrove, lontano, spesso non si sa da chi. La stessa idea di cittadinanza è in crisi. Siamo cittadini, ma di che cosa? E in che senso? Quelle che ci mancano non sono certamente le norme. Anzi, viviamo in una realtà regolata fino all’eccesso, in ogni dettaglio, ma ci sfugge l’idea generale che sta dietro questa iperproduzione normativa né siamo in grado di dire chi, precisamente, sia l’artefice di ogni decisione presa, dal momento che gli organi legislativi tradizionali, all’interno delle singole nazioni, appaiono a loro volta depotenziati se non delegittimati.
Insomma, l’impressione è che prevalga il caos. Ma voluto da chi, e perché?
Ricerche sociologiche e politologiche, in materia, non mancano. La filosofia, invece, sembra latitare. E allora è benvenuto un libro come «I padroni del caos» (Liberilibri, 528 pagine, 20 euro), nel quale Renato Cristin, professore di ermeneutica filosofica all’Università di Trieste, individua un percorso di riflessione spiegando chi, a suo giudizio, sta all’origine della situazione europea attuale e quali sono le linee lungo le quali questi «padroni» si muovono.
La tesi di fondo è che le identità nazionali, «come strato profondo di una civiltà e di una cultura», siano state sottoposte a un progressivo logoramento in nome di due miti paralleli, quello dell’integrazione e quello del superamento delle nazionalità. Il tutto non già per favorire un federalismo accettabile e anche auspicabile, ma allo scopo di legittimare un «funzionalismo accentratore», tipo «politburo di sovietica memoria», che non solo rivendica per sé il diritto di decidere, ma alimenta una retorica che, mediante parole d’ordine come multiculturalismo, accoglienza e apertura, di fatto mira ad annullare l’identità nazionale, quasi fosse un peccato originale dal quale emendarsi. Da qui tutto l’armamentario retorico del politicamente corretto, che si trasforma in autoflagellazione, autocensura, autonegazione, come se avere a cuore la propria identità fosse un marchio di infamia.
A questo punto si sarà già intuito chi sono, per Cristin, i padroni del caos e dove stanno di casa: sono in primo luogo gli euroburocrati di Bruxelles, di quell’Unione europea che, tradendo gli ideali originari dei padri fondatori come Adenauer, De Gasperi e Schumann, i quali credevano nell’autonomia nazionale e la mettevano al servizio della cooperazione, stanno attuando un progetto tecnocratico marcatamente antinazionale, con il fine di mortificare ogni tipo di identità disperdendola all’interno di una multiculturalità che è la maschera dietro la quale si nasconde il dispotismo.
All’interno di questo quadro, animato da molti altri soggetti, anche dell’economia e della finanza, Cristin non manca di segnalare la presenza di un attore che, «in assenza di contromisure, potrà diventare protagonista», con tutta la sua carica storicamente estranea all’identità europea. Questo attore è l’islam, che ovviamente gode dei frutti della sempre più allarmante e manifesta debolezza interiore dell’Europa e punta a realizzare il suo progetto di sempre: la conquista.
Burocratica, rigida, occhiuta, dispotica, sprezzante e costosa, l’Unione europea è oggi una macchina pensata per imporre il melting pot culturale ed etnico, «un crogiuolo in cui le diverse entità non vengono fatte coesistere, ma vengono pian piano soppresse in favore di una inquietante (e, a guardare bene, minacciosa) alterità. I modelli vengono imposti dall’alto, con un metodo che ricorda più l’oligarchia orientale che le democrazie liberali occidentali, anziché essere costruiti dal basso in base alle esigenze dei singoli ambiti che li devono di fatto praticare».
Lungo questa via non sono soltanto le identità nazionali a risultare mortificate. La stessa identità europea è mortificata, in nome di un dirigismo tecnocratico tanto freddo quanto implacabile. Abbiamo così una struttura di tipo non federativo ma imperiale, nella quale ben ventisette nazioni, senza contare la moltitudine di immigrati da altri paesi e culture, si ritrovano appiattite, sottoposte a un potere che non è tanto politico quanto regolamentare, il che lo rende ancora più simile a un Grande fratello distaccato e inesorabile. Così non è neanche possibile individuare un vero responsabile, perché la burocrazia è senza volto. Il quadro è dominato dall’apparato procedurale: ciò che conta non è più la responsabilità storica, ma l’opportunità contingente.
È, in parole poverissime, quella che si definisce l’Europa senz’anima. Senz’anima e dunque senza radici né prospettiva. E ovviamente senza fede religiosa, perché l’altro grande mito alla base di questa costruzione è l’idea che tutte le fedi debbano coesistere su base paritaria, come se fossero uguali, senza tener conto di ciò che le distingue. Una tolleranza che, quanto più è sbandierata, tanto più nasconde e alimenta un nichilismo di fatto.
Scrive a un certo punto Cristin: «Si tratta dunque di salvare l’Europa dall’abbraccio mortale dei sedicenti europeisti». Una valutazione troppo severa? Un giudizio impietoso?
Qui l’analisi dell’autore prende il largo, fino a individuare nell’asettico ma irriducibile potere burocratico esercitato dai padroni del caos i frutti di quel desiderio di totalitarismo che un pensatore liberale come Jean-François Revel aveva colto benissimo, e in largo anticipo, nelle pulsioni rivoluzionarie sessantottine. Cristin cita anche il celebre saggio di Bernard-Henry Lévy, «La barbarie a visage humain» («La barbarie dal volto umano»), del 1977, nel quale il filosofo francese vedeva la tecnocrazia totalitaria come erede dello stalinismo. Né manca un esame accurato delle due grandi malattie europee, l’«oikofobia» e la «xenofilia»: da un lato l’odio per se stessi e per la propria casa, dall’altro l’amore per lo straniero, miscela che conduce all’autosoppressione, come si vede bene nelle nostre società segnate da tassi di natalità negativi e inequivocabili segnali di decomposizione morale.
È a questo punto che Cristin introduce una riflessione sulla teoria della sostituzione, che prevede il rimpiazzo di un popolo con un altro e che Renaud Camus illustra nel suo «Le changement du peuple», dove si spiega che i flussi di popolazione, quando sono così ingenti, conducono non soltanto a innesti etnici su una pianta preesistente, ma a un vero e proprio cambiamento di civiltà. E sentite un po’ che cosa immaginava, a questo proposito, nel lontano 1973, Jean Raspail, esploratore e scrittore, nel romanzo apocalittico «Le camp des Saints»: l’arrivo sulle coste francesi di un milione di immigrati, fenomeno che i governanti di quell’epoca futura, con l’aiuto dei professionisti del pronto soccorso, fanno passare per ineluttabile e di fronte al quale ai francesi non resta che fuggire. Ma non è tutto. Raspail immagina anche che il papa di quel tempo sia un pastore buono e accogliente, un sudamericano «scelto dai cardinali come papa innovatore, in nome della Chiesa universale», un uomo che «da vescovo faceva in Europa l’agitatore col racconto delle miserie del Terzo mondo» e che, di fronte alle obiezioni di chi temeva l’estinzione della civiltà europea, rispondeva che «solo la povertà è degna di essere condivisa» e «se non daremo tutto, non avremo dato nulla». Se non che nel romanzo di Raspail i nuovi arrivati non pensano affatto che la terra sulla quale sono sbarcati appartenga ad altri: per loro è semplicemente terra di nessuno. E la conquistano. Impressionante, poi, è quanto scrive Raspail nella prefazione all’edizione del 1985, dove precisa che a favorire l’invasione furono alcuni precisi fattori: «Forte pressione psicologica delle associazioni umanitarie, estremizzazione del vangelo sociale da parte di alcuni esponenti religiosi, falso irenismo delle coscienze, rifiuto di affrontare la verità e così via».
Eccoci qua. Come spesso succede, la letteratura ha anticipato la realtà. Benvenuti nell’Europa dominata dall’idea di integrazione. Dove, tuttavia, come argutamente annota Cristin, gli appelli all’integrazione riguardano molto più gli europei che gli immigrati.
Ora è chiaro che di fronte ad argomentazioni di questo genere la replica più semplice e immediata consiste nel pronunciare una parola che è un’accusa: «Razzismo». Ci sarà, naturalmente, anche chi farà notare che la lettura di «Le camp des Saints» è stata raccomandata di recente da Marine Le Pen, e che Steve Bannon, consigliere strategico di Donald Trump, ha dichiarato di essere un appassionato lettore di Raspail. E ci sarà chi ricorderà che lo stesso Raspail (eccone una frase fulminante: «Sono un difensore di tutte le razze minacciate, compresa quella bianca») è stato accusato di razzismo. Cristin tuttavia non fa una piega: «Non c’è alcun razzismo nelle idee identitarie», ma «c’è semplicemente la difesa strenua dello spazio di libertà e di esistenza connesso con la propria identità».
A proposito di Chiesa cattolica e papi, occorre dire che Cristin non si limita a riferire quanto fu partorito dall’immaginazione profetica di Raspail, ma si occupa anche del papa reale, Francesco. Sotto il titolo «Pauperismo e comunismo: la teologia della sovversione e della rinuncia», l’autore traccia un quadro alquanto urticante dell’insegnamento del papa argentino. Energico contro il sistema occidentale, sbilanciato verso l’apertura a profughi e immigrati, poco incline a porsi il problema dell’identità europea, a giudizio di Cristin il messaggio bergogliano aiuta il processo di autocolpevolizzazione dell’Occidente e alimenta la retorica dell’accoglienza evitando di fare chiarezza circa la posta in gioco. Citando Loris Zanatta, forse il nostro massimo studioso di America Latina, Cristin conclude che quello di Bergoglio è un populismo antiliberale e afferma che il papa, nei fatti, contribuisce allo sbandamento europeo. Naturalmente molti lettori non saranno d’accordo, ma Cristin rivendica orgogliosamente il diritto-dovere del filosofo di interrogarsi.
Ora, passando alla «pars costruens», la domanda è: ci sono soluzioni in grado di salvaguardare l’identità europea dagli assalti che le arrivano dall’interno e dall’esterno? Cristin guarda al pensiero liberal-conservatore, del quale si considera rappresentante e interprete, e afferma che la necessità e l’urgenza di una reazione sono indiscutibili. E quando parla di reazione l’autore attribuisce alla parola un preciso significato filosofico e politico: anche se alle nostre orecchie suona male, occorre proclamarsi reazionari. Vuol dire riattivare tutte le «energie identitarie sepolte da decenni di denigrazione della soggettività europea e di censura delle sue facoltà». La parola reazione, quindi, ha in questo caso il senso di rigenerazione: occorre rivalutare e rivitalizzare tutto ciò che è genuinamente nazionale, tradizionale, identitario, politico, respingendo ciò che è forzatamente sovranazionale, superficialmente progressista e terzomondista, dirigista, burocratico. Ovviamente la ricetta di Cristin è molto più articolata di quanto si possa riassumere in poche righe. E presenta numerosi aspetti che andrebbero discussi, perché non sempre la linea di demarcazione tra recupero dell’identità e nazionalismo è ben chiara, e bisognerebbe anche interrogarsi su come rivitalizzare la tradizione senza cadere in atteggiamenti nostalgici che condannano all’emarginazione.
Da parte nostra, riflettendo sulle celebri parole di Arnold Toynbee, secondo il quale «le civiltà muoiono per suicidio, non per omicidio», osserviamo che in tempi di pensiero unico, di mimetismo culturale, di conformismo dilagante e di ben scarsa propensione a interrogarsi sui dogmi imposti dai padroni del caos, il libro di Cristin, comprese le sue parti più discutibili, rappresenta una bella scossa. Per il cervello, per il cuore, per l’anima.
Aldo Maria Valli
ECCO DOVE AFFONDANO LE RADICI DEL MAGISTERO SOCIALE DELLA CHIESA DI PAPA FRANCESCO
Quanto il pensiero sociale di Jorge Mario Bergoglio può essere preso a modello e reso quindi valido per tutta la chiesa cattolica?
di Matteo Matzuzzi 3 Giugno 2017
Roma. A dieci anni dalla quinta Conferenza dell’episcopato latinoamericano che si tenne ad Aparecida, in Brasile, e che pose le basi del pontificato bergogliano, Paul Seaton su First Things recupera un libro abbastanza recente di Thomas R. Rourke, docente alla Clarion University ed esperto di filosofia politica, religioni e America latina, per mettere a fuoco quella che definisce “l’eccentrica visione del magistero sociale” di Francesco. In The Roots of Pope Francis’s Social and Political Thought, Rourke analizza la serie di dicotomie che a suo dire caratterizza il pensiero sociale del pontificato corrente. E cioè nord-sud, imperialismo-populismo, ideologia-storia, astratto-concreto e così avanti”. La domanda che si pone l’autore è quanto il pensiero sociale di Jorge Mario Bergoglio possa essere preso a modello e reso quindi valido per tutta la chiesa cattolica. Un pensiero peculiare, non comune, che affonda le radici nel “contesto della chiesa latinoamericana del post Concilio”. S’è scritto, in questi ultimi quattro anni, ad abundantiam sulla teologia del popolo, non troppo distante dalla teologia della liberazione ma lontana nel punto incriminato che fu condannato negli anni Ottanta dal Sant’Uffizio sotto Giovanni Paolo II, è cioè l’uso dell’analisi marxista. Ma ciò che Rourke mette in evidenza è che il richiamo “alla chiesa povera per i poveri” altro non è che l’intento – più implicito che esplicito – a “gesuitizzare la chiesa”. Nessun intento critico, sia chiaro. Anzi: “L’andare nelle periferie” altro non è che la resa universale di quel che fecero i missionari della Compagnia nei secoli scorsi, soprattutto nell’America meridionale che Bergoglio ben conosce. Evangelizzazione, solidarietà con i popoli che di volta in volta s’incontrano, inculturazione del Vangelo in tutte le dimensioni della vita. Aspetto, quest’ultimo, che – scrive Seaton – “è l’indispensabile base per la politica e l’economia”.
Ma ecco il punto cruciale dell’analisi: è possibile applicare tale modello “eccentrico” all’universalità della chiesa? Ci provarono già i seguaci di san Francesco, desiderosi di “francescanizzare” la chiesa, notava G. K. Chesterton, plaudendo alla decisione del Papa di allora, che rifiutò tale impostazione. Una parte non poteva determinare il tutto. Neanche se la parte era quella in voga e che richiamava la necessità di purificare la chiesa, benché senza le derive new age, tra fiori e chitarre, che hanno annacquato l’originale francescano.
L’approccio seguito dal Papa regnante, scrive Rourke, è prettamente culturale, e pazienza se Pierre Manent abbia scritto che “il concetto di cultura è penetrato nel pensiero sociale cattolico dopo che la chiesa fu politicamente destrutturata, quasi fosse una sorta di compensazione”. Per capirlo, si deve risalire alle fonti della teologia del popolo, ai suoi fondatori. Primo fra tutti il filosofo uruguagio Alberto Methol Ferré, grande amico di Jorge Mario Bergoglio, scomparso nel 2009, che mise nero su bianco la distinzione tra “le chiese-fonte” e “chiese-riflesso”. La chiesa cattolica, intendeva il filosofo, è diventata mondiale perché sente la presenza di altre chiese locali, che prima invece erano un suo puro riflesso. Spesso, asfittiche. Fondamentali sono le prime, le chiese-fonte, perché “riflettono i segni dei tempi nel senso migliore, realizzando il Vangelo rispetto alle circostanze dell’epoca presente”. Partendo da tale assunto, scriveva Methol Ferré, si arriva alla constatazione che dopo cinquecento anni la chiesa latinoamericana ha la capacità per assumere un ruolo di leadership nella chiesa e per tutta la chiesa. “E Bergoglio – conclude Rourke – ha assorbito questa visione e vede il suo pontificato in questa luce. Questo è il tempo per la chiesa latinoamericana di diventare una chiesa-fonte”.
Putin, il Santo Bevitore
Dalla
costola di San Nicola alle chiese in Francia, il presidente sfida
l’occidente facendo della Russia il polo mondiale della cristianità
Gogol cercò consiglio al monastero di Optina per “Anime morte”. Persino
Tolstoi, scomunicato, era solito recarsi a Optina: vi si aggirava
intorno da lontano, incapace di bussare alla sua porta. Vladimir Putin
costruisce sulla religione non soltanto buona parte del suo consenso, ma
anche della sua politica post e anti occidentale. I russi pensano di
salvaguardare la civiltà, hanno un canone, da Tolstoj alle icone, e
sentono che stanno vincendo Per gli americani che temono l’influenza
russa negli Stati Uniti,...
A voi questo mondo piace davvero? Le ottime ragioni dei sovranisti
Ora la rivista Logos, che organizzava l’incontro con Breitbart Italia, ha pubblicato sul sito gli interventi, che trovate qui. Sono le voci di chi si dice sovranista in un’era di globalismo dilagante. Ho contribuito anch’io. Con un intervento che propongo anche ai lettori del mio blog.
Viviamo in uno strano mondo, in cui un genitore insegna ai propri figli quelli che considera valori sani e inviolabili: il rispetto della Costituzione, della democrazia come espressione della sovranità. Gli spiega che quando avrà 18 anni potrà votare, scegliere il partito che più lo rappresenta. Gli racconta che in Parlamento si approvano le leggi e gli spiega cos’è un Paese. A scuola, questo bambino, studia i confini e la storia, coltiva un’identità e scopre le proprie radici familiari e nazionali. Cose normalissime. Un tempo.
Già perché quando compirà 18 anni si accorgerà improvvisamente che quella realtà e quei valori, costati milioni di vite ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, non valgono più e se proverà a rivendicarli verrà trattato come un eretico, anzi come un pericoloso populista. Non capirà più nulla o forse capirà fin troppo bene cosa significano il conformismo, le pressioni sociali, l’omologazione. Quel mondo, purtroppo, non è ipotetico ma sempre più reale, un mondo in cui principi elementari, anzi fondamentali, come democrazia e sovranità popolare sono considerati scomodi o vengono ridotti a feticci sull’altare della mondializzazione.
E questo dovrebbe farci riflettere. Perché le differenze culturali, identitarie e politiche non devono più valere? Perché tutti i popoli devono assomigliarsi? Perché la famiglia tradizionale non va più bene e deve essere svuotata di significato? Ci rendiamo conto che la società che si delinea assomiglia sempre di più nella sua forma più ludica a quella descritto da Huxley nel romanzo «Mondo nuovo» e in quella più opprimente al citatissimo «1984» di Orwell?
Io credo profondamente nella democrazia, mi scorre nelle vene e non riesco a reprimere l’impulso di parlare, di non tacere. E’ il dovere morale non di fare una rivoluzione ma di difendere quei valori e di contestare l’ineluttabilità della globalizzazione, soprattutto della sua omologazione, che si manifesta anche attraverso il continuo trasferimento di poteri a organismi sovranazionali, talvolta totalmente privi di qualunque legittimità popolare (Ocse, Nato, Oms, eccetera), talaltra diluiti in Parlamenti o altre forme di governance, poco efficaci, di rappresentanza, ridotti alibi morali, com’è stato fino ad oggi il Parlamento europeo.
Chiarisco subito che non si tratta di tornare a società autarchiche e dunque ottusamente protezionistiche, come lascia intendere certo pensiero mainstream; bensì di impostare una nuova forma di convivenza internazionale, in cui l’interesse e i poteri nazionali tornino ad avere il loro peso naturale e in cui i trattati internazionali non siano più calati dall’alto ma siano frutto di negoziazioni tra Paesi sovrani e con pari diritti. Non si tratta di fermare il mondo, né di bloccare i commerci ma di tenere conto anche di interessi che non siano solo quelli sovranazionali, nella convinzione che le democrazie siano ancora oggi il miglior sistema politico e che debba essere preservato, come peraltro lo stato di diritto (altro valore che i globalisti tendono a disconoscere e a sostituire con forme molto strane di giustizia privata, quali gli arbitrati internazionali senza possibilità di ricorso, contemplati nel TTIP).
Ecco perché le forme di protesta politica emerse recentemente in diversi Paesi occidentali vanno salutate con favore. Testimoniano la capacità di resistenza di una parte importante della popolazione, l’attaccamento, talvolta istintivo, a quei valori e comunque a un sistema socioeconomico che negli ultimi 70 anni ha permesso un benessere senza precedenti e basato sull’ascensore sociale.
La sfida, per chi ha il coraggio di definirsi sovranista, non è ovviamente di assecondare qualunque forma di protesta ma di contribuire alla nascita e allo sviluppo di movimenti culturali, civici e politici in grado di far maturare una risposta solida, concreta, credibile ai globalisti. E di denunciare ogni forma di insidia come quelle di chi prende a pretesto le fake news e le post-verità per imporre una censura alle opinioni scomode e spegnere sul nascere il contagio più pericoloso, quello delle idee.
Non farlo significa rassegnarsi a società in cui sarà facilissimo privare ogni cittadino dei suoi diritti elementari e anche delle sue ricchezze personali. Un mondo che continuerà a dirsi democratico, perché la forma verrà rispettata, per trasformarsi nel suo esatto contrario.
A voi quel mondo piace davvero?
Sesso ibrido, globalismo e un “pene concettuale”. E’ giunta l’ora che Laio uccida l’Edipo-millennials?
Sono usciti dal Nürburgring ordinati. Senza panico. Cantando. E non una canzone normale, bensì “You’ll never walk alone”, il più grande successo di Gerry & the peacemakers e inno del Liverpool, i cui tifosi cantano a sguarciagola per sostenere la squadra e per marcare un senso di appartenenza e comunità. Bene, i ragazzi del festival rock tedesco Rock-am-Ring che venerdì scorso sono stati fatti evacuare per una minaccia terroristica sono una comunità, un gruppo coeso di “ragazzi fantastici”, come li ha definiti il capo della polizia, lodandone la compostezza. Sono i millennials, i giovani dai 18 ai 35 anni, la generazione globale meglio conosciuta come “Me Me Me generation” per il suo egocentrismo, mentre da noi è la “generazione Erasmus”. Ma è anche la gioventù dell’età del terrore. Quel terrore che fa interrompere i concerti rock o che attende la loro fine per fare strage, come a Manchester. Un terrore che quei ragazzi dovrebbero contrastare, combattere e vincere. Ma non è così.
Cos’era, allora, quel canto di massa, uscendo da uno stadio che poteva diventare cimitero? La sfida suprema al terrorismo di una società superiore e avanzata, un rito collettivo di esorcismo della paura o un modo per dire che la musica non si spegne, nemmeno se lo ordina la polizia? Difficile dirlo, una cosa è certa: c’è il forte rischio che quei ragazzi, inconsciamente, abbiano cantato l’inno del declino finale della nostra società, quello che la loro stessa generazione sta facilitando attraverso l’adesione più o meno consapevole al globalismo. Perché del globalismo, l’ideologia dell’elite, i millennials sono la falange oplitica. E, piaccia o meno, sono il soggetto attorno cui gravita lo scontro che stiamo vivendo: mondialismo contro sovranismo, società aperta contro tradizione, integrazione contro identità.
Sono multietnici, internazionalisti, globali, digitalizzati, istruiti, sensibili alle tematiche civili e ambientali: sono quelli che, negli USA, hanno votato al 90% per Bernie Sanders, un ottantenne che ha accostato la parola socialismo e quella di America nel corso di una campagna per le primarie presidenziali. Sono il “nuovo vecchio”, sono la reinterpretazione non-ideologica dell’ideologia. E sono, sempre più, gender, nel senso di sessualmente liquidi, fluidi, indistinti, ibridi. Nel suo numero in edicola, il settimanale britannico “The Spectator” pubblica un articolo che mi ha fatto accapponare la pelle, pur nella sua ironica paradossalità. Due universitari americani, Peter Boghossian e James Lindsay, sono infatti riusciti a farsi pubblicare su una rivista di scienza sociale, un articolo in cui sostengono che il pene non è un organo riproduttivo maschile ma solo un costrutto sociale, peraltro responsabile del cambiamento climatico. Ovviamente, una bufala satirica.
Ma non l’hanno pensata così i redattori della “Cogent Social Sciences”, i quali l’hanno pubblicata con tutti gli onori scientifici del caso. L’articolo si intitolava “Il pene concettuale come costruzione sociale” e concludeva che “la letale iper-mascolinità sostiene il materialismo neocapitalista, motore del cambiamento climatico”. Ora, una stronzata così nemmeno l’incontro tra Saverio Tommasi e Roberto Saviano l’avrebbe potuta partorire e anche un 12enne capirebbe che si tratta di una follia ma nel mondo del gender, quello di cui le elites negano addirittura l’esistenza, salvo inserirlo surrettiziamente nei programmi scolastici delle elementari, tutto può essere. Anzi, tutto è. I due scienziati-burloni hanno tratto ispirazione dall’affaire Sokal, l’esperimento sociologico di Alan Sokal, professore di fisica alla New York University, il quale si prese gioco dei meccanismi di selezione dei contenuti di riviste culturali attraverso la pubblicazione di un falso articolo di filosofia. In sintesi, voleva dimostrare come certe riviste umanistiche siano pronte a pubblicare qualsiasi cosa che riguardi ciò che lui definiva “l’appropriato pensiero di sinistra”.
Ma non l’hanno pensata così i redattori della “Cogent Social Sciences”, i quali l’hanno pubblicata con tutti gli onori scientifici del caso. L’articolo si intitolava “Il pene concettuale come costruzione sociale” e concludeva che “la letale iper-mascolinità sostiene il materialismo neocapitalista, motore del cambiamento climatico”. Ora, una stronzata così nemmeno l’incontro tra Saverio Tommasi e Roberto Saviano l’avrebbe potuta partorire e anche un 12enne capirebbe che si tratta di una follia ma nel mondo del gender, quello di cui le elites negano addirittura l’esistenza, salvo inserirlo surrettiziamente nei programmi scolastici delle elementari, tutto può essere. Anzi, tutto è. I due scienziati-burloni hanno tratto ispirazione dall’affaire Sokal, l’esperimento sociologico di Alan Sokal, professore di fisica alla New York University, il quale si prese gioco dei meccanismi di selezione dei contenuti di riviste culturali attraverso la pubblicazione di un falso articolo di filosofia. In sintesi, voleva dimostrare come certe riviste umanistiche siano pronte a pubblicare qualsiasi cosa che riguardi ciò che lui definiva “l’appropriato pensiero di sinistra”.
Ecco il finale dell’articolo dello Spectator al riguardo: “Generazione dopo generazione, i ragazzini impressionabili pagano soldi per studiare totali idiozie, sperando poi di costruirci su una carriera. Quando un argomento viene dirottato dal post-modernismo – e un campo nebuloso come il gender è particolarmente prono -, la cultura diventa addirittura pericolosa. La bufala in questione ne è un esempio: invece di sentirsi imbarazzati dalla tesi espressa, gli esperti l’hanno trovata empowering. I nostri figli passano quattro anni all’università, incoraggiati a rigettare la verità, la logica, il canone del pensiero stabilito. Dove porta la combinazione di arroganza e stupidità deleteria quando opera con movimenti politici e identitari aggressivi, basati su razza e genere? Ultimamente, al Pomona College gli studenti neri hanno dichiarato che la verità è uno strumento della supremazia bianca per silenziare gli oppressi. Gli studenti sudafricani hanno definito la scienza “un prodotto del razzismo” che rigetta tradizionali alternative come la stregoneria. Ma nessuno dei due casi, purtroppo, è un sofisticato scherzo intellettuale”.
E quanto ci vuole a trasformare il cosiddetto populismo o sovranismo nel nuovo surriscaldamento globale da combattere, il tutto in una guerra sostanziata – tra l’altro – da tesi folli come quella sostenuta nell’articolo e accettata come vera da una rivista sedicente scientifica? Avete capito perché l’arma letale in mano all’establishmente sono le cosiddette “fake news”, la presunta “post-verità” che viene imputata come peccato originale di chiunque osi dissentire dal vangelo laico del politicamente corretto? D’altronde, c’è un preconcetto di base: l’intero castello del globalismo, in quanto ideologia dell’elite, è aprioristicamente propagandato come frutto della scienza, dello studio e del sapere: quindi, chiunque dissenta, è automaticamente un ignorante, uno che crede alle scie chimiche e ammanta di verità ciò che è soltanto complottismo. Quale contrapposizione è nata dopo la vittoria del Brexit? Giovani istruiti della città, che hanno votato per il “Remain” contro vecchi e culturalmente limitati della provincia. il mondo fluido del gender, quando serve, non disdegna vecchie contrapposizioni generazionali che prescindano dagli organi sessuali. A la guerre come a la guerre.
E quanto ci vuole a trasformare il cosiddetto populismo o sovranismo nel nuovo surriscaldamento globale da combattere, il tutto in una guerra sostanziata – tra l’altro – da tesi folli come quella sostenuta nell’articolo e accettata come vera da una rivista sedicente scientifica? Avete capito perché l’arma letale in mano all’establishmente sono le cosiddette “fake news”, la presunta “post-verità” che viene imputata come peccato originale di chiunque osi dissentire dal vangelo laico del politicamente corretto? D’altronde, c’è un preconcetto di base: l’intero castello del globalismo, in quanto ideologia dell’elite, è aprioristicamente propagandato come frutto della scienza, dello studio e del sapere: quindi, chiunque dissenta, è automaticamente un ignorante, uno che crede alle scie chimiche e ammanta di verità ciò che è soltanto complottismo. Quale contrapposizione è nata dopo la vittoria del Brexit? Giovani istruiti della città, che hanno votato per il “Remain” contro vecchi e culturalmente limitati della provincia. il mondo fluido del gender, quando serve, non disdegna vecchie contrapposizioni generazionali che prescindano dagli organi sessuali. A la guerre come a la guerre.
Siamo alla riproposizione globalista e 2.0 del concetto edipico di “morte del padre”? Sì, in pieno. E la conferma me l’ha data venerdì “La Repubblica” nella sezione cultura, dove compariva la recensione del libro “La società orizzontale” di Marco Marzano e Nadia Urbinati, i quali si scagliano apertamente contro quello che chiamano “il modello di Telemaco”, ovvero il figlio che, nell’attesa del padre Ulisse, non scatena il conflitto generazionale di Edipo, né mira all’auto-affermazione di Narciso. Invece, stando al sociologo e alla teorica della politica, l’attesa del padre tradisce piuttosto l’invocazione del leader, dunque una qualche nostalgia per le vecchie gerarchie. E qual è la soluzione? Quale la via d’uscita che lastrica la strada al futuro? “Alla logica neo-patriarcale andrebbe contrapposta, a parer loro, la rivendicazione di una società orizzontale, ovvero autenticamente democratica. E il saggio àncora tale rivendicazione a una duplice argomentazione, volta a mostrare che una società senza padri è desiderabile e, d’altro canto, che il processo di orizzontalizzazione è comunque un destino, malgrado la nostra economia sia stata segnata da quella scandalosa mutazione anti-egualitaria denunciata proprio da Nadia Urbinati nel 2013”.
E ancora: “La società orizzontale, in sintesi, sarebbe non solo augurabile, ma anche possibile, a patto tuttavia di vincere una precisa battaglia culturale: quella che ha per avversario la cosiddetta controrivoluzione dei padri. Secondo i due autori, infatti, l’Italia ha bisogno di riaffermare il valore etico della democrazia a partire da tre ambiti cruciali: religioso, famigliare e politico” . Poi, il finale: “Se non è l’assenza di padri, il pericolo che incombe sulla società orizzontale è quindi un altro: la trasformazione dell’individualismo in atomismo, ossia l’aggravarsi di una patologia tipica di quegli individui liberi e uguali che rappresentano il cuore della democrazia moderna. Il rischio dei nostri giorni è che le persone si isolino, risultando sempre più sconosciute, indifferenti o ostili le une alle altre, e che il presente si separi da un passato percepito come oscuro ed estraneo. Ma la salvezza sta nella collaborazione tra pari, non già nel ritorno, magari in nome del padre, del capo”.
E ancora: “La società orizzontale, in sintesi, sarebbe non solo augurabile, ma anche possibile, a patto tuttavia di vincere una precisa battaglia culturale: quella che ha per avversario la cosiddetta controrivoluzione dei padri. Secondo i due autori, infatti, l’Italia ha bisogno di riaffermare il valore etico della democrazia a partire da tre ambiti cruciali: religioso, famigliare e politico” . Poi, il finale: “Se non è l’assenza di padri, il pericolo che incombe sulla società orizzontale è quindi un altro: la trasformazione dell’individualismo in atomismo, ossia l’aggravarsi di una patologia tipica di quegli individui liberi e uguali che rappresentano il cuore della democrazia moderna. Il rischio dei nostri giorni è che le persone si isolino, risultando sempre più sconosciute, indifferenti o ostili le une alle altre, e che il presente si separi da un passato percepito come oscuro ed estraneo. Ma la salvezza sta nella collaborazione tra pari, non già nel ritorno, magari in nome del padre, del capo”.
Insomma, il padre – incarnazione della gerarchia, dell’ordine, del rispetto, del dovere – torna per la seconda volta dopo il ’68 a essere il totem da abbattere, la famiglia riassume un connotato castrante, la liberazione sta nella società orizzontale e nel sesso liquido, ibrido. Ma se la crisi, paradossalmente, impone a moltissimi millennials di vivere giocoforza con i genitori, ancorché Netflix garantisca la possibilità di essere autosufficienti, vivendo come esiliati e coltivando contemporaneamente paranoie ed ego (stando a una ricerca del National Insitutes of Health, nel 2009 gli studenti di college USA erano più narcisisti di quelli del 1982 del 60%, mentre in base a uno studio del Families and Work Institute, nel 1992 l’80% degli interpellati sotto i 23 anni voleva avere, un giorno, un lavoro di responsabilità, mentre dieci anni dopo quella percentuale era scesa al 60%), chi vive da solo, magari al college, ricorre anche in questo caso a un ibrido della figura paterna, declinata in modo e tempo di cuoco-cameriere-amico da prendere a noleggio.
Non sto scherzando. Un gruppo di millennials di Spokane, Washington, ha messo un’inserzione sul sito di annunci Craigslist alla ricerca di un “generica figura paterna” per il barbecue della festa del papà, ricorrenza che in America si festeggerà sabato prossimo. La motivazione? Sono troppo distanti da casa, dove si trova il padre naturale e quindi va bene un surrogato. Il quale, tra l’altro, ha anche dei doveri ben precisi, segnalati in punti: deve grigliare hamburger e hotdog, portare la propria griglia da casa (la carne, bontà loro, la comprano), chiamare tutti i partecipanti alla festa con i tipi soprannomi idioti americani tipo “Big Guy’, “Chief”, “Sport” e “Champ” e parlare di argomenti da padre, magari accompagnati da ben graditi aneddoti divertenti. Il tutto – e questo penso dovesse essere il punto di forza – bevendo birra a volontà.
Non sto scherzando. Un gruppo di millennials di Spokane, Washington, ha messo un’inserzione sul sito di annunci Craigslist alla ricerca di un “generica figura paterna” per il barbecue della festa del papà, ricorrenza che in America si festeggerà sabato prossimo. La motivazione? Sono troppo distanti da casa, dove si trova il padre naturale e quindi va bene un surrogato. Il quale, tra l’altro, ha anche dei doveri ben precisi, segnalati in punti: deve grigliare hamburger e hotdog, portare la propria griglia da casa (la carne, bontà loro, la comprano), chiamare tutti i partecipanti alla festa con i tipi soprannomi idioti americani tipo “Big Guy’, “Chief”, “Sport” e “Champ” e parlare di argomenti da padre, magari accompagnati da ben graditi aneddoti divertenti. Il tutto – e questo penso dovesse essere il punto di forza – bevendo birra a volontà.
Ovviamente, per il padre generico non ci sarà compenso monetario: varrà pagato in cibo e bevute. Grazie al cielo, ad oggi nessuno ha risposto all’appello ma questo è il mondo in cui viviamo, questi sono i giovani che dovrebbero affrontare e sconfiggere la mitologica “minaccia terroristica” e l’islamismo radicale. Non stupisce che la generazione immediatamente successiva a quella dei millennials, oggi si trovi a fare i conti con un fenomeno come quello di “Blue whale”, l’assurdo rituale di prove di coraggio, autolesionismo e umiliazione che finisce con la 50ma promessa da mantenere, suicidarsi. Insomma, siamo una società che ha prima allevato dei cinici e egocentrici giannizzeri delle elites e ora si trova a fare i conti con una generazione di potenziali suicidi, per puro gioco autodistruttivo e alienante.
Il tutto mentre dobbiamo fare i conti con un’altra società che alleva in seno giovani suicidi jihadisti come reazione alle ingiustizie, alla mancata inclusione e allo spirito estremista che vede nella morte il compimento sommo dell’essere. Se vogliamo sopravvivere, non è il caso che Laio decida di uccidere l’Edipo-millennials, prima di essere ucciso? Qui la psicanalisi c’entra poco, stiamo parlando della sopravvivenza stessa di quel minimo sindacale di valori, tradizione e cultura che l’Occidente sta dilapidando o bruciando nel fuoco dell’indefinito. Ci aveva davvero visto lungo, come sempre, Gilbert Keith Chesterton, quando scrisse che “verrà il momento in cui dovremo combattere per dichiarare che l’erba è verde”. Infatti, è arrivato.
Il tutto mentre dobbiamo fare i conti con un’altra società che alleva in seno giovani suicidi jihadisti come reazione alle ingiustizie, alla mancata inclusione e allo spirito estremista che vede nella morte il compimento sommo dell’essere. Se vogliamo sopravvivere, non è il caso che Laio decida di uccidere l’Edipo-millennials, prima di essere ucciso? Qui la psicanalisi c’entra poco, stiamo parlando della sopravvivenza stessa di quel minimo sindacale di valori, tradizione e cultura che l’Occidente sta dilapidando o bruciando nel fuoco dell’indefinito. Ci aveva davvero visto lungo, come sempre, Gilbert Keith Chesterton, quando scrisse che “verrà il momento in cui dovremo combattere per dichiarare che l’erba è verde”. Infatti, è arrivato.
Sono Mauro Bottarelli, Seguimi su Twitter! Follow @maurobottarelli
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.