ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 15 settembre 2017

Meglio comunisti che cattocom

Sull’immigrazione Bergoglio riscopre il gesuitismo


Papa Francesco nella sua ennesima aeroconferenza (ma non sarebbe meglio parlare degli aerei, come faceva Pio X, invece che dagli aerei?), di ritorno dalla “missione” in Colombia dove era andato a benedire la normalizzazione delle Farc (nonostante la maggioranza del popolo avesse respinto l’accordo di pace attraverso il referendum), dopo aver sostenuto la correlazione tra uragani ecambiamenti climatici (probabilmente suggeritagli da Jeffrey Sachs o qualcun altro della cricca maltusiana che lo circonda), ha voluto dir la sua anche sull’immigrazione.
Avrà ripreso il governo, per aver violato il nuovo dogma dell’“accogliamoli tutti”? Macché, tutt’altro: ha clamorosamente approvato la “svolta minnitiana”!
«Io sento il dovere di gratitudine verso l’Italia e la Grecia, perché hanno aperto il cuore ai migranti. Ma non basta aprire il cuore. […] Un governo deve gestire questo problema con la virtù propria del governante, cioè la prudenza. Cosa significa? Primo: quanti posti ho? Secondo: non solo riceverli, ma anche integrarli. Integrarli. […] Lei parlava del governo italiano: mi dà l’impressione che stia facendo di tutto per lavori umanitari, per risolvere anche il problema che non può assumere».
Sogno o son dest(r)o?
E i giornali si commuovono pure: “Il Papa ci dà una lezione di realismo”...
Non è che adesso Bergoglio si è messo anche a far campagna elettorale per il Partito Democratico?
Volendo esser seri (ma è quasi impossibile), quel che dice il Papa è ovviamente condivisibile (prima però erano argomenti “populisti”, qualcuno lo ricorda?), soprattutto quando osserva che non è certo responsabilità di Gentiloni il mancato rispetto dei diritti umani in Libia: da chiamare in causa infatti ci sarebbero in primo luogo le Nazioni Unite e l’Unione Europea, poi eventualmente inglesi e francesi (questi ultimi ancora piuttosto attivi, se pensiamo alle recenti iniziative dell’incantevole Macron). 


Una cosa ovvia, insomma, che però evidentemente sfugge a Médecins sans frontières, visto che di recente si è appellata (in maniera piuttosto sguaiata, bisogna dirlo) alla coscienza dell’attuale premier italiano. In verità, almeno da questo punto di vista, all’organizzazione privata francese andrebbe riconosciuta più coerenza di quella dimostrata da Francesco: ora che i nodi vengono al pettine, invece di allinearsi a questo governo in attesa delle prossime elezioniMedici senza frontiere gli ha addossato le stesse responsabilità che attribuì a Berlusconi a suo tempo.
Sfortunatamente all’epoca il PD era all’opposizione, perciò, senza farselo ripetere due volte, fece proprie le accuse provenienti dall’agenzia internazionale (anche quando si rivelarono contrarie l’interesse nazionale). Ci può stare, è normale dialettica: sarebbe ingiusto andare a ripescare le dichiarazioni indignate di quegli anni (ci sono anche quelle di Minniti nelle vesti di ministro ombra…), perché i problemi in fondo rimangono gli stessi, indipendentemente dai soggetti chiamati ad affrontarli.

È però imbarazzante (almeno questo va evidenziato) che, nel giro di un’udienza, il primato della moral suasion sia passato direttamente dal Pontefice al Ministro, in un gioco delle parti che sembra avere poco di umanitario e molto di politico. Perché se la situazione fosse davvero questa, allora ci troveremmo di fronte al colossale paradosso del primo “Papa Nero” della storia che si fa battere in gesuitismo dagli ultimi democristiani.
 SACRO E PROFANO
Papa Francesco e Paolo Gentiloni, l'incontro segreto per blindare governo e Marco Minniti


Tra le segrete stanze romane, da tempo, si parla di una certa intesa tra il governo Gentiloni e il Vaticano. Una concordanza di vedute che sorprende, soprattutto dopo la svolta securitaria sulla gestione dei flussi migratori che ha fatto storcere il naso a molti cattolici. L'ultima dichiarazione di Papa Bergoglio ha fatto pensare addirittura ad un appoggio politico da parte del Pontefice alla linea del governo, o a una sorta di "conversione".

Di ritorno dalla visita pastorale in Colombia, Papa Francesco ha parlato di una "linea della prudenza", in base alla quale un governante deve prima di tutto domandarsi "quanti posti ho?", per poi conciliare le esigenze dell'accoglienza con la possibilità concreta di integrazione. Parole ricalcate due giorni dopo dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel suo discorso da Malta.
Ed è proprio nella relazione privilegiata tra il Colle e il Pontefice che ha trovato solide fondamenta la liaison, relativamente recente, tra Palazzo Chigi e il Vaticano. Già il 10 giugno scorso - come ricorda Repubblica - , durante la visita al Quirinale, il Papa aveva lodato l'Italia per la gestione dei flussi migratori, richiamando gli altri Paesi europei alle proprie responsabilità. Seguì a luglio l'incontro, rimasto segreto, tra Gentiloni e il Pontefice, a casa dell'arcivescovo Angelo Becciu, numero due della segreteria di Stato.

Inoltre, a pochi giorni di distanza, quando la crisi dei migranti raggiunse l'apice, Marco Minniti si recò dallo stesso arcivescovo Becciu. Nonostante la riservatezza su quegli incontri, sembra evidente come la linea dura del ministro Minniti, adottata nei giorni successivi, sia stata in un qualche modo concordata con il Vaticano. L'apprezzamento espresso sulla politica del governo, precisano dalla Conferenza Episcopale italiana, non si tradurrà in un endorsment per il Pd alle elezioni, in ossequio all'indirizzo non interventista di Bergoglio. 

http://www.liberoquotidiano.it/news/italia/13237087/papa-francesco-paolo-gentiloni-incontro-vaticano-governo-marco-minniti.html

Nuove sanzioni UE alla Russia. Mentre gli USA trafficano nei Balcani per armare i ribelli in Siria


Non ho più voglia, né parole per commentare, quindi eccovi la notizia nuda e cruda: l’UE ha prolungato di altri sei mesi le sanzioni contro la Russia, estendendole ora fino al 15 marzo 2018. Punto, se uno è Tafazzi nell’anima, difficilmente si può aiutarlo. Eppure, nelle ultime 36 ore sono accadute cose che avrebbero spinto a un minimo di ravvedimento anche l’imbecille più totale: l’UE, no. Da dove cominciare? Diciamo che non si è assistito esattamente a un assalto all’arma bianca per chi offrisse con maggior evidenza la notizia. Però, la notizia c’è. Eccome, anticipata addirittura da quel pozzo di verità che è il “New York Times” (tranne quando parla del caso Regeni, ovviamente, in quel caso è un propagatore di illazioni).

La Wada (l’Agenzia mondiale antidoping) si appresterebbe ad assolvere 95 atleti russi sui 96 che erano accusati di doping sistematico, di fatto facendo sprofondare nel ridicolo quel famoso Rapporto McLaren, presentato nel 2016 dal sedicente giurista canadese, servito per diffamare a livello globale lo sport russo. Il prossimo 24 settembre il consiglio della Wada si riunirà a porte chiuse e, quindi, al termine avremo la conferma e le motivazioni della decisione ma già oggi emerge una realtà inquietante: i campioni raccolti per incriminare gli atleti sarebbero risultati non affidabili o contrastanti, il che vorrebbe dire che gli sportivi russi sono stati condannati (con le squalifiche, il ritiro delle medaglie e con il bando dalle Olimpiadi di Rio de Janeiro) senza prove.

Insomma, anche con queste provette è stata messa in campo la strategia Colin Powell. Ma ricordiamo un attimino cosa scatenò quell’offensiva contro gli atleti russi a da cosa nacque. All’origine dello scandalo, infatti, c’erano le rivelazioni di Grigorij Rodcenkov, che dal 2006 era stato capo del laboratorio anti-doping di Mosca. Nel 2015, Rodchenkov era scappato negli Stati Uniti e lì, confidandosi appunto con il “New York Times”, aveva fatto lunghi discorsi sulle droghe preparate per migliorare le prestazioni degli atleti russi e sui metodi usati durante le Olimpiadi invernali di Sochi 2014, in grado di far sparire le prove dei campioni di urina necessari per gli esami post-gara con l’aiuto dei servizi segreti.

Di fatto, era stato il Cremlino a decidere per quella condotta scorretta. Di più, Rodchenkov aveva ripetuto i suoi argomenti anche in due incontri con gli investigatori della Wada, il 26 marzo e il 30 giugno del 2015, durante i quali aveva sostenuto di aver personalmente distrutto migliaia di campioni di urine relative agli atleti russi. Insomma, campagna diffamatoria verso la Russia, Putin nel mirino e decine di atleti alla gogna e a rischio di carriera finita. E oggi? Lo stesso giornale che lanciò l’accusa dice che trattasi di puttanata e, guarda caso, le delazioni di un prezzolato scappato negli USA fanno crollare l’ennesimo teorema anti-Mosca, quel rapporto MacLaren che se la gioca con i Panama Papers per il titolo di bufala dell’anno.
Ma le bufale non erano quelle che Mosca sparge nell’etere e in Rete attraverso RT e Sputnik? Non erano loro quelli che raccontano balle? Boh. Chiederemo delucidazioni a Enrico Mentana, uno che dell’argomento se ne intende. Nel frattempo, c’è qualcuno Oltreoceano che vuole aumentare ai massimi livelli il grado di deliro che la russofobia sta raggiungendo. Ricorderete come la settimana scorsa Facebook, con sforzo di memoria notevole, ricordò di colpo come entità russe comprarono 50mila dollari di pubblicità a ridosso dell’estate 2016 e che questo, di fatto, potesse essere una prova del tentativo di destabilizzazione posto in essere dal Cremlino verso le presidenziali di novembre. Questo grafico

ci mostra come quella somma sia talmente ridicola da non essere nemmeno tracciabile negli ordini di grandezze predefiniti, mentre Hillary Clinton appare ben rappresentata ma, nonostante le evidenze, ecco che la fobia da “russian collusion” tocca nuovi vertici. Non solo i principali rappresentanti dell’Intelligence Committee del Senato USA hanno segnalato il loro interesse per audizioni con i vertici di Facebook e Twitter rispetto alla interferenze nel voto ma martedì scorso Mark Warner, membro democratico della Virginia, ha caricato l’asso: agenti segreti russi avrebbero usato Facebook per organizzare una manifestazione anti-immigrati negli USA nell’agosto del 2016, quindi occorre sentire al più presto i responsabili dei social network in audizione ufficiale: “Potrebbe essere solo la punta dell’iceberg, sono molto deluso dal fatto che Facebook abbia reso noti questi particolari solo ora”. Come dicono a Roma, levateje er vino.
In compenso, altre notizie si basano su evidenze che paiono ben salde ma che non vengono minimamente prese in considerazione. In un mondo dove se Amnesty International denuncia la confisca della Playstation a un migrante in Umbria viene convocato il Consiglio di sicurezza ONU, mi ha fatto riflettere il silenzio tombale con cui i grandi media hanno accolto il report presentato ieri da Organized Crime and Corruption Reporting Project (OCCRP) e Balkan Investigative Reporting Network (BIRN), il quale in effetti non ci dice granché. Solo che il Pentagono sta continuando a inviare quantitativi record di armi ai cosiddetti ribelli siriani e che lo sta facendo in maniera decisamente irrituale: da un lato usando un canale dell’Est, trattandosi di armi di fabbricazione ex-sovietica e dell’altro manipolando i documenti come le certificazioni di utilizzo ultimo per nascondere il coinvolgimento diretto USA. Parliamo di qualcosa come 2,2 miliardi di controvalore di armi, il tutto movimentato attraverso un network nebuloso di venditori e intermediari privati. E a differenza delle provette del Rapporto MacLaren, inesistenti, il report pubblicato ieri aveva allegati questi due documenti,


i quali comprovano l’attività di falsificazione ad opera delle autorità statunitensi al più alto livello nella loro operazione di armamento di terroristi che combattono al fianco dell’Isis, proprio mentre il ministero della Difesa russo rendeva noto che solo il 15% della Siria era ancora in mano a Daesh. Di fatto, una delle più clamorose sconfitte USA dopo il Vietnam. E se il fatto che esista una pipeline delle armi operativa tra Balcani e Caucaso, quotidianamente utilizzata dal Pentagono, dovrebbe non farci stare tranquilli di suo, ecco che il report ci offre delle cifre: il Dipartimento della Difesa USA per 2017 e 2018 ha messo a budget 584 milioni di dollari per l’operazione in Siria, oltre ad altri 900 milioni da spendere in acquisto di munizionamento ex-sovietico fino al 2022. Sono 2,2 miliardi, tutti in onore della causa anti-Assad. Insomma, due organizzazioni vagamente più serie di Amnesty confermano il continuo armamento di terroristi in Siria e, di fatto, il finanziamento di un network legato alla criminalità organizzata del traffico d’armi in Kazakistan, Georgia e Ucraina e nessuno dice nulla? Nessuno scrive una riga? Nessun dedicata un tweet?
Ecco cosa ha detto uno degli autori del report di OCCRP/BIRN, Ivan Angelovski, intervistato da “Foreign Policy”: “Il Pentagono sta sistematicamente rimuovendo ogni prova dai suoi documenti relativa ad armi che stanno fornendo all’opposizione siriana. Sette documenti ufficiali USA sono stati sbianchettati per rimuovere prove che legassero le operazioni alla Siria, dopo che alcuni reporter avevano contattato il Pentagono per chiarimenti riguardo a come le nazioni esportatrici – Bulgaria, Romania, Serbia, Ucraina e Georgia – fossero state informate riguardo le destinazioni di spedizione”. Lo stesso “Foreign Policy”, una vera istituzione per quanto riguarda la politica estera USA, concludeva così l’articolo:
“Il Pentagono starebbe mettendo il turbo a un mondo oscuro di trafficanti d’armi dell’Europa dell’Est. Inoltre, starebbe rimuovendo prove relative a chi starebbe utilizzando come terminale ultimo quelle armi, indebolendo così uno dei protocolli internazionali contro il commercio illegale di armamenti”. Una notiziola da nulla, non vi pare? Certo, a parlare di certe cose si rischia, come ha fatto il mese scorso la giornalista bulgara Dilyana Gaytandzhieva, interrogata dai servizi segreti del suo Paese e poi licenziata per aver scritto e investigato sullo stesso network facente capo al Pentagono denunciato dal report di OCCRP/BIRN. E con le manovre Zapad 17 cominciate stamattina all’alba, prepariamoci a una decina di giorni di bufale, provocazioni e, magari, false flag. Ma il silenzio opposto da Mosca all’emergere di questa messe di falsità fa rumore. E riflettere.
Di Mauro Bottarelli , il 25 Comment
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E’ partita l’offensiva per blindare PD e governo. Regola numero uno, non accettare provocazioni

Et voilà, oggi 15 settembre la XVII legislatura compie il giro di boa: 417 deputati e 191 senatori di prima nomina hanno maturato l’assegno di pensione aggiuntiva da circa 1.000 euro, che potranno incassare, se non rieletti, a 65 anni. E mentre il ddl Richetti giace al Senato, magicamente accadono cose. Dopo l’addio allo ius soli, proprio a Palazzo Madama, causa mancanza di numeri per far passare il provvedimento, in casa PD esplode il caso. Il ministro Delrio sgancia la bomba: atto di paura rinviarlo. Matteo Orfini, preisdente dei dem, risponde via Twitter: “L’unico modo per approvare lo ius soli al Senato è mettere la fiducia, senza di questo lo si uccide”. E da Corfù, un imbarazzato Paolo Gentiloni abbozza: “Il provvedimento è priorità del governo”. E poi ecco qui il convitato di pietra:


l’uomo che doveva spostare la sua tenda lontano dalla casa del PD, decide di entrare a gamba tesa proprio nel dibattito e nel momento più caldo del partito. Ovviamente, godendo del palcoscenico da prima della Scala politica che solo “Repubblica” può offrire. Ah, già che ci siamo, guardate anche il titolo del corpo centrale del giornale di De Benedetti: sul caso Consip emergono novità destinate a suffragare la tesi vittimistica di Matteo Renzi, ovvero parti dello Stato avrebbero tramato contro di lui, utilizzando i rapporti del padre con Russo e Romeo come mezzo per arrivare a colpire al cuore Palazzo Chigi. Che strana tempesta in casa PD, scoppiata oltretutto di colpo. E, caso strano, a ridosso del giorno del “liberi tutti”, visto che la legislatura è ormai alla fine, il DEF lo scriveranno a Berlino e Bruxelles e l’unica priorità, adesso, è quella di garantirsi un posto in lista per la primavera.

Ma ci sono molte altre coincidenze interessanti. Che dire, ad esempio, della sospensiva decisa dalla magistratura rispetto alle “regionarie” del Movimento 5 Stelle in Sicilia a meno di due mesi dal voto per Palazzo dei Normanni? Per carità, niente di drammatico ma comunque un segnale di instabilità, dopo che Matteo Renzi – conscio del rischio sconfitta altissimo – aveva bollato l’appuntamento siculo come “voto locale”, beccandosi dell’idiota da Massimo D’Alema. C’è poi questo,

ovvero il fatto che Facebook, forse eccitatosi per l’ok della Camera alla legge Fiano contro la propaganda fascista, ha deciso che il termine “patriota” non va bene e ha cassato il video di Giorgia Meloni in vista dell’annuale appuntamento con la kermesse di Fratelli d’Italia, “Atreju”, prevista per la settimana prossima. Casualmente, come aveva ribattezzato Forza Nuova la sua “Marcia su Roma” del 28 ottobre, proprio per evitare rogne con questura e affini? “Marcia dei patrioti”: vuoi dire che, con velocità siderale, l’algoritmo di Facebook sia stato settato per andare a scovare quella parolaccia ovunque, bloccando post e video che la contengano in maniera palese? E avete notato come sia sparita in fretta la polemica su Forza Nuova dai giornali e dall’agone politico? In compenso, il fall-out di legalismo anti-fascista è bello presente e attivo.

C’è poi la provocazione per antonomasia, ovvero quella che ieri ha visto la magistratura genovese congelare i conti della Lega Nord per un totale di 48 milioni di euro, a fronte dei 400mila euro utilizzati indebitamente a Umberto Bossi, i suoi figli e l’ex tesoriere Belsito, reato per il quale sono stati condannati in primo grado. Insomma, un blocco cautelativo vagamente esagerato nelle proporzioni delle somme. Soprattutto se si pensa che, casualmente, la decisione è arrivata a tre giorni dal raduno di Pontida che si terrà domenica, forse l’appuntamento sul prato bergamasco più importante di sempre, non solo perché il Carroccio vola in area 15% di consensi ma anche perché era atteso l’annuncio di Matteo Salvini relativo al cambio di pelle politica, con l’addio alla parola “Nord” e la nascita de facto della Lega nazionale stile Front National. Casualità.
E chi ha attaccato con maggior durezza la Lega, tanto da portare Matteo Salvini a rispondere unicamente con l’invito a vergognarsi? Matteo Renzi, a detta del quale “i leghisti si sono trovati bene a Roma… Tutti i giorni la Lega fa la morale a Roma ladrona ma nessuno che dica che c’è un partito che ha rubato i soldi del contribuente… La Lega deve dare 48 milioni di euro del contribuente. E nessuno ne parla. Salvini è tutti i giorni sui talk show, è dappertutto tranne a Bruxelles, e nessuno che gli chieda conto dei soldi”. Insomma, un frontale. Non a caso, contro l’esponente politico che il barometro del consenso vede sempre più come principale competiror per il ruolo di candidato premier del centrodestra. Berlusconi è sceso in campo in difesa dell’alleato leghista, visti anche i suoi trascorsi burrascosi con le cosiddette “toghe rosse”?

Silenzio tombale da Arcore. E ci mancherebbe, una volta che i giudici lavorano a suo favore. Per quanto riguarda Renzi, invece, il rapporto di do ut des è antico. E destinato a rinnovarsi in grande stile, quando lo scontro etnico all’interno del PD si sarà consumato e concluso, colmo dei colmi proprio sul tema di pelle dello ius soli. Matteo Renzi ha atteso in silenzio, ha ingoiato bocconi amari, è stato in esilio in America, ha scritto un libro e, lentamente, ha cominciato la sua operazione di destabilizzazione carsica del partito.

Ha iniziato con la bomba del “aiutiamoli a casa loro” in piena crisi dei migranti, ha lanciato granate nello stagno dei malcontento latente a ogni intervento alle Feste dell’Unità estive, ha rivendicato a colpi di tweet ogni certificazione positiva dell’ISTAT sullo stato dell’economia italiana. Ora, ha deciso di mettere via il fioretto e sfoderare il bazooka. Il tutto, forte di una variabile ingestibile: Angelino Alfano, il quale piaccia o non piaccia gode di un pacchetto di voti risicati numericamente ma dal peso specifico enorme.
E i Cinque Stelle? Matteo Renzi pare avere una sicurezza al riguardo: sono ontologicamente inconsistenti, una volta traslati dall’opposizione al ruolo di governo, Virginia Raggi docet. Quindi, se si fanno male da soli, è inutile sprecare energie. Le quali, come si vede, sono tutte concentrate contro la Lega Nord e il suo cammino più o meno in solitaria all’interno del centrodestra, in cerca di un’egemonia che è nei fatti e vuole solo il casus belli per essere ufficializzata. E con Berlusconi che non fa nulla per spalleggiare il formale alleato di coalizione, anzi ne rivendica a ogni piè sospinto la titolarità, possiamo dire che il buon Matteo da Rignano se riesce a piazzare il colpo gobbo di portare lo ius soli al Senato e farselo bocciare – cosa che Alfano e i suoi farebbero senza problemi – avrebbe ucciso sul nascere le aspirazioni di potere di Gentiloni. E, forse, anche della superstar Minniti. E questa prima pagina

di oggi del quotidiano di proprietà del re dei palazzinari romani, la dice lunga su quale consenso graviti ancora attorno al “golden boy” della politica italiana che in troppi hanno dato per morto troppo presto, me compreso. All’editoriale di Mario Ajello e a quel titolo da nobile decaduto che copre con la mano guantata le pezze al culo, rispondo con questo tabella,

la quale ci dice che il Nord – che lui fa corrispondere e coincidere infantilmente e in malafede con la Lega e ai suoi guai giudiziari – a occhio e croce avrebbe diritto di “rubare” per altri 500 anni, al netto di quanto ruba ontologicamente Roma, intesa come Stato centrale e centralistico. A Matteo Salvini e Giorgia Meloni, invece, dico solo una cosa: restare calmi e non accettare provocazioni. Renzi è ancora forte e potente ma il PD è un covo di vipere: chissà mai che troppa foga nell’agitare il bastone della vendetta, ne svegli qualcuna. E si ritrovi morso dal suo stesso veleno casalingo.

Di Mauro Bottarelli , il 18 Comment

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