ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 25 novembre 2017

E loro che cosa farebbero, al posto nostro?


COSA PENSEREBBERO LORO?


Che cosa ne penserebbero loro? No, non è possibile dire ciò che penserebbero e che farebbero l’arciprete, il vescovo e quel formidabile sacerdote organista, né tutti gli altri che hanno concorso alla nostra formazione cristiana 
di Francesco Lamendola  


È un bel mattino d’aprile, fresco e soleggiato, a metà degli anni ’60; nell'aria si respira il profumo della primavera, sugli alberi spuntano le foglie e la città è immersa nella pace domenicale, con tutti i negozi chiusi. All'uscita della santa Messa, un sacerdote dalla figura imponente, dritto come un ufficiale di cavalleria, si rivolge con un sorriso cordiale ad uno dei suoi parrocchiani,  salutandolo, come al solito, con un amabile Oh, my dear professor!, e i due si trattengono qualche minuto sul sagrato, a conversare come buoni amici, in un clima di stima reciproca. L’altro, infatti, è un professore di lingua inglese ed è, lui sì, un ex militare di carriera: ora è insieme alla famiglia, che si sofferma un poco lì vicino, i bambini sbirciando l'edicola dove fra poco la mamma, forse, comprerà loro un giornalino a fumetti; poi, prima di tornare a casa, passeranno dalla pasticceria sotto i portici, prenderanno l’aperitivo e compreranno le pastine, le più buone della città.
Quel sacerdote è l'arciprete del duomo di Udine, monsignor Riccardo Travani, un uomo assai conosciuto e stimato, autorevole sin dall'aspetto fisico, che parla con gravità e nello stesso tempo con dolcezza, e guarda le persone dritto negli occhi, da dietro gli occhiali con la montatura d'acciaio: ha accompagnato il suo piccolo gregge negli anni difficili della guerra e ora sta assistendo alle trasformazioni recate dal miracolo economico, che, per la verità, in questa parte d'Italia ancora non si è visto, se non per qualche assai timido accenno. 

Il Friuli è una terra contadina, rude, di gente seria e lavoratrice; una terra povera, di emigranti, ma dignitosa nella sua povertà: ora si apre ai primi venticelli del benessere e non pare che se ne lasci ubriacare, li gusta a piccole dosi, senza rigettare d'un tratto, come avviene in altre parti del Paese, specialmente nel Triangolo industriale, tutta la tradizione del buon tempo antico, di cui la religione cattolica è parte essenziale. Qui, la religione fa ancora presa sulle persone, è presente nelle famiglie; qui, la domenica, vanno ancora tutti a Messa, dopo aver indossato il vestito della festa, anche nelle campagne, dove i contadini dismettono l'abito da lavoro settimanale e indossano la camicia bianca, la giacca, la cravatta e i pantaloni dalla piega impeccabile; quegli stessi contadini che, dal lunedì al sabato, hanno sacramentato a più non posso - perché bestemmiare, da queste parti, è praticamente un'abitudine - ma ora, nel varcare il portone della chiesa, magari una chiesetta piccina di villaggio, come quella di Ronchiettis, minuscola frazione di Santa Maria la Longa, paiono trasfigurati, sono solenni e compresi nella loro parte di buoni cristiani; e così le loro donne, con il velo o il fazzoletto sulla testa, e persino i monelli, i quali a stento tengono ferme le mani e i piedi, e si sforzano di stare composti e in silenzio, mentre il sacerdote celebra il divino Sacrificio, volgendo loro le spalle: perché l'altare col Santissimo è dietro di lui e non davanti: perché le novità liturgiche del Concilio Vaticano II non sono ancora arrivate e la santa Messa è ancora una faccenda con al centro il Signore Iddio, e non l'assemblea dei fedeli.
Se sia bravo a parlare l'inglese, quel pezzo d'uomo di monsignor Travani, il figlio di otto anni del professore non avrebbe saputo dirlo: per lui, quando i due uomini conversavano in quella lingua, sul sagrato del duomo, avrebbero anche potuto essere due marziani, tanto non ne capiva nulla; ma quando teneva le sue prediche, durante la Messa, e si rivolgeva all'assemblea con gesti ampi, con eloquio fluente, senza mai perdere quell'aria fra il severo e il signorile, lo capiva, sì, e gli sembrava che tutti lo ascoltassero con estrema attenzione, ammirati, e che perfino i Santi e gli Angeli delle sculture, e i personaggi della storia biblica raffigurati nei meravigliosi bassorilievi lignei sul dossale del coro, dove lui e la sua famiglia sedevano abitualmente, trattenessero il fiato per non perdere nemmeno una delle sue parole. E poi succedeva che due persone entrassero in ritardo, a funzione già cominciata da parecchio, marito e moglie ancor vestiti da cavallerizzi, con tanto di stivali lucidi ai piedi, senza essere passati da casa a cambiarsi, fosse per la fretta o fosse per ostentare il fatto che si dilettavano di equitazione; e l'arciprete, che stava già tenendo la sua predica, impallidiva, si fermava deliberatamente, li segnava con il dito lungo tutto il tragitto della navata: finché l'uomo, imbarazzato, si fermava e quasi si nascondeva, ma la donna niente, andava avanti in mezzo alla folla come fosse stata la regina, insensibile all'attenzione e alla disapprovazione generale, finché finalmente trovava un posto e si sedeva, impettita e soddisfatta di quel suo personale siparietto narcisista. Solo allora l'arciprete riprendeva a parlare, con voce vibrante d'indignazione, con quella sua voce che diventava possente nel silenzio di tomba della grande chiesa affollata, divenuta teatro involontario di una provincialissima fiera delle vanità. Nessuno fiatava, nessuno osava dire nulla e l'arciprete, proteso in avanti sul pulpito, pareva Giove sul punto di scagliare le sue folgori contro gli empi. Ma comportamenti irriguardosi, e quasi di sfida, come quello tenuto dalla coppia dei cavallerizzi, erano piuttosto unici che rari. Era rispetto per l'uomo, che aveva saputo conquistarselo, ma era anche qualcos'altro, qualcosa di assai più alto: era la comprensione dell'altissimo ufficio che lui, in quel momento, stava svolgendo: non era più lui che parlava e che poi, in un silenzio carico di trepidazione, alzava il calice con il Corpo e il Sangue di Cristo, e, scandendo le parole del sacro rito, invocava il mistero della transustanziazione: lui era diventato un altro, più grande della sua pur imponente statura, si trasformava in un alter Christus, e l'assemblea lo sentiva. E poi, quando il chierichetto scuoteva vigorosamente il campanello,  nel momento della elevazione (quando non era proprio quel bambino a svolgere un tale compito, ma se ne stava inginocchiato sul suo banco, tra gli altri fedeli) si sentiva il Mistero scendere dal Cielo nel mondo di quaggiù, e gli pareva che nessuno osasse neanche alzare la testa, o gettare un solo sguardo verso l'altare. 
Ecco: quelle immagini, quei gesti, quegli sguardi, tutti quei ricordi ci tornano in mente, ogni volta che vediamo i preti d'oggi andare in giro vestiti in borghese, sovente senza neppure un piccolo crocifisso sulla giacca, e celebrare delle Messe che paiono, talvolta, delle rumorose assemblee profane, pronunciando l'omelia con parole e concetti molto, molto umani, privi del soffio della trascendenza, privi del senso del mistero, ma infarciti, in compenso, di parole che allora nessuno si sognava, comeaccompagnare, discernereincludere, quasi che il Vangelo di sempre sia diventato il vangelo di oggi, una cosa nuova, moderna, al passo coi tempi; una cosa dove non si parla più del peccato e della grazia, dell'inferno e del paradiso, ma solo o quasi solo della giustizia sociale, dell'accoglienza dei diversi, dalla cittadinanza agli stranieri; e dove il peccato, a dirla tutta, non pare poi quella gran brutta cosa che veniva insegnata allora, e dove vivere la  vita buona, cercando di piacere a Dio e non agli uomini, sembra che sia diventata una opzione facoltativa, una cosa in fondo secondaria, che è stata a lungo sopravvalutata e che sa pure un poco di razzismo, perché pare voglia insinuare che i non cristiani non sappiano vivere la vita buona, non siano delle persone perbene; ma chi siamo noi per giudicare, infine?
A tutti sarà capitato, nei momenti gravi della vita, di ripensare alle persone care che non sono più accanto a noi in senso fisico; alle persone che abbiamo amato e rispettato, e alla cui saggezza e alla cui serietà ci siamo ispirati; e di domandarsi ansiosamente, con trepidazione: E loro, che cosa farebbero, al posto nostro? Che cosa penserebbero di tutto ciò, che giudizio darebbero a proposito di queste cose?
Ebbene, da molto tempo un pensiero ci accompagna, un interrogativo ci segue, costantemente, giorno e notte; questo: che cosa penserebbero di quel che sta accadendo oggi, nella Chiesa cattolica, coloro i quali ci hanno formati in senso cristiano, sia laici, sia sacerdoti? Che cosa penserebbe, che cosa direbbe, che cosa farebbe l’arciprete del duomo di Udine in cui siamo stati battezzati ed educati nella religione cattolica, e che ci ha condotti alla prima Comunione? E l’arcivescovo di quella città – si chiamava Giuseppe Zaffonato – che ci ha somministrato la Cresima?  E il sacerdote che suonava con maestria il grande organo, lassù, ed era anche un celebrato compositore di musica sacra - si chiamava don Albino Perosa - lui, che penserebbe, che direbbe?  E tutti gli altri, il sacerdote che ci impartiva la dottrina, nel pomeriggio; quello che ci conduceva a servir Messa, e poi ci premiava con qualche caramella; e la maestra che ci accompagnava in chiesa, il primo giorno dell’anno scolastico, per assistere alla Messa e ricevere la benedizione; e i nonni, religiosi ma non bigotti, timorati di Dio senza esser bacchettoni, loro, che cosa penserebbero? E tutti gli altri preti di tutte le chiese, grandi e piccole dove ci è accaduto di assistere alla santa Messa negli anni decisivi dell’infanzia, quelli nei quali si gettano i semi che resteranno per la vita: a Tricesimo e a Gemona, a Grado e a Sauris, a Villa Santina e a San Daniele, a Tolmezzo e a Cividale: che penserebbero di quel che sta accadendo oggi, delle affermazioni dei Paglia, dei Galantino, dei Sosa, dei Perego, e di quel che scrivono i Rahner, i Kasper, i Bianchi, i Mancuso? Che penserebbero, che direbbero di quel capo scout di un paese vicino a Gorizia il quale si è sposato con un uomo, in municipio, e vuol continuare a servire la comunità parrocchiale, nella persona dei ragazzini, incurante dell’invito del parroco a dimettersi? Che penserebbero delle parole smozzicate, ambigue, ellittiche, pilatesche di quell’arcivescovo? Cosa direbbero del caso di Eluana Englaro, il cui dramma si è consumato proprio in una clinica di Udine, con l‘approvazione delle autorità cittadine? E della sfilata del Gay Pride nel centro cittadino, nel giugno scorso, con tanto di patrocinio della locale università (che allora non esisteva; ma se esiste per fare queste belle cose, ci si chiede se ne valesse la pena)? Approverebbero il viaggio di papa Francesco a Lund, in Svezia, la sua celebrazione dei cinquecento anni dello scisma luterano, la sua affermazione che Lutero è stato un salutare riformatore e che, sulla predestinazione, aveva ragione lui, e su ciò siamo ora tutti d’accordo? Che direbbero di quel francobollo, emesso dalle Poste Vaticane, per celebrare i 500 anni delle 95 tesi di Wittenberg, con quel Cristo in croce, ai cui piedi non vi sono la Madonna e san Giovanni, bensì Lutero e Melantone? Ah, che cosa non daremmo per sapere quel che penserebbero e quel che direbbero di tali cose, loro che ci hanno insegnato, con la massima serietà e convinzione, esattamente l’opposto di quel che fa e dice la neochiesa ai nostri giorni. Che cosa penserebbero e direbbero del cosiddetto ecumenismo, se esso consiste nel dire che i protestanti avevano ragione e, implicitamente o esplicitamente, che il Concilio di Trento ebbe torto, e torto la Chiesa cattolica per cinquecento anni; e del dialogo interreligioso, se esso consiste nel dire che tutte le religioni portano ugualmente a Dio? E quando ci insegnavano che il peccato impuro contro natura è uno dei quattro peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio, scherzavano o facevano sul serio? E quando ci parlavano della grazia e del peccato, dei diavoli e degli Angeli, del Giudizio universale e della vita eterna, dell’inferno e del paradiso: a che gioco giocavano, se ora vien fuori che non è vero niente?

L'Arcivescovo Giuseppe Zaffonato in visita pastorale

Sia chiaro: lungi da noi voler far parlare i morti, voler attribuire ad essi un pensiero che, evidentemente, non possono più esprimere, almeno al livello della dimensione terrena, nella quale noi ci troviamo ancora. Nondimeno, un cattolico crede, perché è una verità di fede, che esiste la comunione dei Santi; e la comunione dei Santi comprende i credenti che vivono ancora in questo mondo e quelli che sono passati nella vita eterna, o nella beatitudine del paradiso, o nella prova temporanea del Purgatorio. Abbiamo quindi tutto il diritto di rivolgerci alle anime dei nostri cari e delle altre persone defunte, le quali vissero una vita buona, per chiedere ad esse guida e consiglio, attingendo all’immensa e luminosa riserva di fede della comunione dei Santi, la quale viene così definita nel Catechismo di san Pio XComunione dei santi significa che tutti i fedeli, formando un solo coro in Gesù Cristo, profittano di tutto il bene che è e si fa nel corpo stesso, ossia nella Chiesa universale, purché non ne siano impediti dall’affetto al peccato. Quelle persone ci hanno insegnato tutta una serie di verità: verità, non opinioni; e ci hanno anche insegnato che la purezza è un valore, e che essa piace a Dio; che nulla è da anteporsi alla salvezza dell’anima (la morte, ma non peccati, diceva san Domenico Savio); che nulla, per alcuna ragione, giustifica l’acquiescenza al peccato volontario; che la vita terrena va vissuta non come se fosse un valore in sé, ma come preparazione alla vita eterna; e che, per vivere una vita cristiana degna di questo nome, bisogna puntare in alto, bisogna puntare alla santificazione, non già essere indulgenti con le proprie debolezze: ma sempre bisogna domandare a Dio l‘aiuto necessario per superare ogni prova, nell’assoluta certezza che Egli non resterà indifferente alle nostre preghiere.
Ma che cosa ci hanno dunque insegnato: delle favole, delle leggende, dei miti, oppure delle verità certe e infallibili? Ci hanno insegnato che il matrimonio è indissolubile; eppure, leggendo l’ottavo capitolo di Amoris laetitia, un documento scritto di pugno dal sommo pontefice, si direbbe che non sia più così. Ci hanno insegnato che il diavolo, come dice san Pietro, se ne va in giro come un leone ruggente, cercando delle anime da divorare, per cui bisogna sempre stare in guardia e vigilare contro la tentazione: ma ora viene padre Sosa Abascal – non uno qualunque, ma addirittura il generale dei gesuiti - e dice, con la massima tranquillità e naturalezza, che il diavolo non esiste affatto, che si tratta semplicemente di un’immagine simbolica. Ci hanno pure insegnato che Gesù Cristo era il Figlio di Dio, e Dio Egli stesso, e che si è fatto uomo per amor nostro, è morto per riscattare le nostre colpe ed è risorto per aprire a noi tutti la via del cielo; ora vengono fuori dei cattolici, come il superiore del professor Arnaud Dumouch, un ex sacerdote sessantottino, in una scuola cattolica del Belgio, a dire che tutto questo è solo un simbolo, che Cristo non è risorto, che prendere sul serio tale concetto equivale a un atto di superstizione (si veda l’articolo relativo su Stilum Curiae, di Marco Tosatti); e il papa stesso viene a dire che credere alla morte di Cristo è storia, quindi una verità certa, mentre credere alla sua Resurrezione è un atto di fede: e dunque – vorremmo capire il senso delle sue parole – che è anche una cosa incerta? 

Che cosa ne penserebbero loro?

di Francesco Lamendola
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