Il pensiero moderno ruota intorno al dubbio, quello cristiano sulla Verità in cui il dubbio è una condizione transitoria dell’anima, che cerca Dio, e che cercandolo alla fine lo trova secondo l’assicurazione del divino Maestro
di Francesco Lamendola
La cultura e il pensiero moderni sono letteralmente incentrati sul dubbio; la cultura e il pensiero cristiani fanno perno sulla Verità, che è certezza di conoscenza e di vita. Nella psicologia moderna, fin dai suoi albori, in Petrarca, ad esempio, vediamo che il dubbio, il dubbio sistematico, il dubbio angoscioso, il dubbio insuperabile, domina incontrastato sulle anime e le rinchiude in una sorta di prigione invisibile, senza sbarre e senza catene, ma ugualmente asfittica e oscura; nella spiritualità cristiana il dubbio è una fase, un momento di passaggio, una condizione transitoria dell’anima che cerca Dio e che, cercandolo sinceramente, onestamente, tenacemente, alla fine lo trova, secondo l’assicurazione del divino Maestro: Cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; chiedete e vi sarà dato.
I moderni possono anche arrivare a gloriarsi dei loro dubbi e farsene una corona, come fa Montaigne, o una nuova bussola nel mare della vita, come fanno gli odierni fautori del “pensiero debole” (Eco, Vattimo): a loro non si addicono le certezze, perché le giudicano una manifestazione di superbia, e, da Freud in poi, le vedono anche come la prova indiretta di una intenzione obliqua, di una ipocrisia latente o di una dissimulazione; ai cristiani la certezza è necessaria come l’ossigeno per respirare, non potrebbero aggirarsi perennemente nel dubbio senza tradire la loro fede, che è fede nella Verità e non in qualcos’altro. Proprio qui si vede fino a che punto la cultura moderna sia nata su di un grande equivoco: la possibilità di poter conciliare dubbio e fede, come se le due cose fossero compatibili. E lo vediamo subito, fin dalle origini, appunto in Petrarca: in Petrarca che si ispira a sant’Agostino, che cita sempre sant’Agostino, che tira fuori il suo libro, Le confessioni, perfino in cima a una montagna (il Ventoso, in Provenza): ma il sant’Agostino che lui tanto ammira, che prende a modello e dal quale crede di non discostarsi, è il sant’Agostino che indugia sul limitare della conversione, non quello che alla fine si getta nella fede e che, da quel momento, si lascia dietro le spalle tutti i dubbi precedenti. Così, prendere a modello il sant’Agostino che precede la conversione è come prendere a modello un vecchio lupo di mare quando ancora costui non sapeva nemmeno nuotare, né aveva mai messo il piede sul ponte di comando di una nave: una cosa nello stesso tempo assurda e ridicola. E la stessa cosa si può dire anche per la filosofia, per l’uso della ragione: ancora oggi certi professori propagano ai loro studenti l’insulsa favola di un Medioevo irrazionale, esclusivamente mistico e, si capisce, quanto mai superstizioso: mentre se c’è stata una stagione del pensiero occidentale in cui la ragione è stata tenuta in somma considerazione, quello è stato proprio il Medioevo. Il problema non è che i filosofi e i teologi medievali facessero scarso uso della ragione; al contrario: il punto ècome essi la intendevano e l’adoperavano. Certo non nel senso della ragione strumentale e calcolante; certo non nel senso della ragione illuminista, libera e spregiudicata, vale a dire una ragione assoluta, intollerante, che disconosce ogni altra via per la conoscenza della verità. Ed è appunto per l’assolutizzazione indebita della ragione, di quel tipo di ragione: strumentale, calcolante e presuntuosa, come unica e legittima forma del conoscere, che i moderni hanno definitivamente voltato le spalle alla possibilità di giungere al vero, e hanno dichiarato che la verità è un’utopia, per giunta reazionaria. Date le premesse, la conclusione non poteva essere che quella. Ma sono le premesse ad essere sbagliate; e una tale eventualità, i moderni, non se la pongono neppure. La loro sicumera è tale che non si prendono mai il disturbo di considerare il loro paradigma come uno de possibili paradigmi, il loro approccio alla conoscenza come una delle possibili forme del conoscere. Non hanno alcuna umiltà, appunto perché disprezzano la tradizione: la tradizione, per essi, è il male. Tanto più lo è la Tradizione.
Nel caso della religione cattolica, la Tradizione costituisce quella parte della Rivelazione che presenta i maggiori problemi per colui che si pone da un punto di vista materialista, immanentista e storicista: qualcosa di non assimilabile e, perciò, di non accettabile. Ed è lì che emerge il modernismo. Il modernismo è il tentativo di quei cattolici, che ormai sono cattolici solo di nome, ma in realtà sono atei o deisti, di conciliare il Vangelo con il modo di pensare dell’uomo moderno, che è basato sul dubbio sistematico ed è, per questo, essenzialmente e necessariamente irreligioso. Abbiamo detto: essenzialmente e necessariamente irreligioso, per sottolineare che l’irreligiosità non una derivazione secondaria del pensiero moderno; non una opzione fra le tante, storicamente aperte e possibili: è la sola conclusione logica cui si possa giungere, una volta stabilite ed accettate quelle premesse, sia concettuali che metodologiche. Perciò il modernista finisce per approdare all’ateismo, se pure non è già ateo prima ancora di essere modernista; però è un ateo che non vuole ammettere di esserlo, e quindi il modernismo è il cattolicesimo della menzogna. Si fa finta di essere credenti, ma non si crede a nulla, si dubita di tutto. Oggi il modernismo è arrivato al timone della Chiesa: quante volte abbiamo sentito il papa Bergoglio dire: questo non lo so, questo nessuno lo sa, su quest’altro non abbiamo certezze: fino al punto di dire: Dio non è cattolico. Non ha detto chi è Dio; ha detto cosa non è. E le sue incertezze, i suoi dubbi, sbandierati davanti a milioni di fedeli, i quali, nel papa, vedono il custode e il banditore della Verità, non vertono su cose secondarie, ma sui pilastri stessi della fede; per esempio, sul significato della sofferenza, e specialmente della sofferenza che colpisce i bambini, gli innocenti. A un bambino adottato, orfano della mamma e che poi ha perso pure la nonna la quale si prendeva cura di lui, e che gli chiedeva una parola di chiarificazione e, senza dubbio, anche di speranza (incontro coi giovani Cavalieri del 2 giugno 2017), il papa ha risposto: Non so risponderti, nessuno sa rispondere alla domanda perché ci sia il dolore; e se qualcuno dice di saperlo, voi dovete diffidare. Qualsiasi maestra d’asilo avrebbe saputo dire una parola di consolazione e di fede nella vita eterna; lui no. Ma se il papa non sa rispondete su tali questioni, a che cosa serve avere un papa? Bergoglio è rimasto fermo al punto in cui si trovava Ivan Karamazov al tempo in cui scriveva La leggenda del grande inquisitore: non ha fatto il minimo passo avanti. Uno scrittore, oltretutto non cattolico, ma ortodosso, Dostoevskij, potrebbe fargli una lezione di catechismo – se lui avesse la sia pur minima umiltà di ascoltarla; come potrebbe fargliela Alësa Karamazov, un semplice seminarista.
E c’è dell’altro. Ai moderni, il fatto d’essersi chiusi in una gabbia non dà fastidio; anzi, a loro piace. Amano il dubbio, detestano la certezza: questa è la verità. Dubito, ego sum, potremmo dire dell’uomo moderno. Il dubbio lo fa sentire vivo: ne ha bisogno, come il nevrotico ha bisogno delle sue nevrosi; cosa farebbe, senza di esse? Come riuscirebbe a vivere? Vivere in un mondo di certezze: che noia! Non sia mai; l’uomo moderno vuol vivere pericolosamente, non sedere in poltrona accanto alla stufa. Vivere immerso nei dubbi lo fa anche sentire moralmente migliore: i dubbi sono la prova del suo essere etico, mentre le altrui certezze sono la prova della bassa qualità morale di chi è diverso da lui. In fondo, anche se si riempie la bocca con l’elogio della diversità, per lui il mondo migliore sarebbe un mondo dove la diversità è scomparsa. All’insegna del dubbio e dell’incertezza, naturalmente: così, domani può sempre dire e fare il contrario di quel diceva e che faceva oggi. Comodo, comodissimo. L’uomo moderno si atteggia ad intrepido, ma la sua audacia consiste sempre nel prendersela con un avversario vistoso, perfino ingombrante, ma, in realtà, più debole di lui; la verità è che è dominato dall’accidia, come – almeno – francamente ammetteva Petrarca; e l’accidia è un misto di pigrizia, languore e sensualità. Che bello crogiolarsi nei dubbi, che bello non dover prendere una decisione seria e definitiva; e, nello stesso tempo, sentirsi moralmente migliori di tutti, e vedere nella propria irresolutezza la conferma della propria moralità. Ci sarebbe da mettere la firma; e infatti, da lì, gli intellettuali moderni non si schiodano, non sono disposti a muovere un solo passo oltre. Perderebbero troppi privilegi, toppe comodità. Sono tre o quattro secoli che si godono quella posizione di rendita, e ci stanno benissimo, anche se amano fare il cipiglio e atteggiarsi a preoccupati, tutti compresi della serietà del mondo e della mediocrità degli altri. Loro invece sono pensosi; loro sanno quanto il reale sia “complesso”, e quanto le situazioni meritino l’opportuno “discernimento”; e sanno soprattutto che non si deve giudicare, mai.
Nella Lettera che il cardinale Alfonso Capecelatro (1824-1912), eminente figura di pastore della Chiesa durante i pontificati di Leone XIII e Pio X, indirizzò allo scrittore Antonio Fogazzaro, che personalmente conosceva e stimava, ricambiato di altrettanta stima, dopo la pubblicazione del romanzo Il santo, nel 1905, viene messo particolarmente a fuoco proprio questo aspetto. E si tenga presente che Fogazzaro, scrittore certamente notevole, ma invischiato nelle idee moderniste delle quali non comprendeva affatto, crediamo, la reale portata, nonché le logiche conseguenze, aveva scritto Il Santo, bizzarro miscuglio di sensualità e misticismo, in perfetto clima decadentista, dopo aver fatto indigestione, oltre che di evoluzionismo darwinista, della lettura di Tyrrell, Houtin e Loisy, e di conversazioni con Genocchi, padre Semeria e don Brizio, in seguito alle quali credeva di aver trovato la quadratura del cerchio nella sua idea di un cattolicesimi radicalmente “riformato”, tanto che scriveva al vescovo di Cremona, Geremia Bonomelli (suo amico e vicino, lui stesso, alle idee moderniste), con grande ingenuità, che tutti quegli stimoli lo avevano turbato, sì, ma nel senso di averlo fatto maturare, di avergli aperto gli occhi, secondo la lezione di Tyrrell: e rincarava la dose, qualche tempo dopo, scrivendo una lettera di solidarietà al Loisy, le cui opere erano state nel frattempo messe all’Indice dal Sant’Uffizio.
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