Facendo leva sul vizio la neochiesa vuole cancellare la nozione del peccato ed instaurare "l’impero dei sensi" incassando il sostegno dei media, dei progressisti e riscuotendo l’entusiastica adesione dei "peccatori impenitenti"
di Francesco Lamendola
La caratteristica essenziale da cui si può riconoscere la falsa chiesa apostatica dalla vera Chiesa di Gesù Cristo è che la prima si muove secondo la direttrice di rendere agli uomini le cose più facili, più comode e più umane, nel senso di più materiali e senza confidare nella grazia soprannaturale, vale a dire senza aver veramente fiducia nella partecipazione dell’uomo alla vita divina, il che è puramente e semplicemente un tradimento nei confronti del cristianesimo. O si crede in Gesù Cristo, nostro Signore e nostro Redentore, o non ci si crede. Se ci si crede, si domanda a Lui tutto ciò che serve per combattere le tentazioni e per innalzarsi al di sopra del fango in cui siano quotidianamente immersi, come conseguenza del Peccato originale e della concupiscenza, la tendenza al male che abbiamo ereditato dai nostri antichissimi progenitori, dopo che ebbero disobbedito e si furono ribellati al Creatore amorevole. Se non ci si crede, allora si dispera di poter vincere le tentazioni e di potersi tirar fuori dal fango della palude; ed è allora che si concepisce l’idea, apparentemente furba, in realtà miserevole e squallida, di poter mutare lo statuto morale del peccato e dichiararlo non più peccato, ma lecita tendenza, spontaneo bisogno della natura umana; e, in nome del diritto della persona alla propria affermazione e alla propria realizzazione, si pretende che chiunque possa arrivare a un accomodamento con le pratiche peccaminose, magari con la benedizione della (falsa) chiesa, in modo da mettere a tacere, o meglio ancora prevenire, eventuali scrupoli di coscienza.
Tutto questo è, appunto, molto, troppo umano: sa di scorciatoia vergognosa, d’inconfessabile mistificazione; sa d’ipocrisia alla rovescia, perché, mentre nell’ipocrisia “abituale” si assiste al tentativo di nascondere il peccato dietro l’apparenza della virtù, qui si assiste al tentativo di cancellare la virtù e di rovesciarla nel peccato, dichiarando che il peccato è cosa lecita e buona, se non proprio virtù in se stesso: la virtù – si dice, senza arrossire - della coerenza, dell’onestà, della franchezza. In nome di tale franchezza, lealtà, onestà, un sacerdote americano si è dichiarato omosessuale, e fiero di essere tale, davanti ai suoi fedeli, nel bel mezzo della santa Messa: e ha proclamato che intende restare in parrocchia e seguitare a svolgere le sue funzioni di parroco, perché non c’è niente di più normale che essere sacerdoti e omosessuali. La Chiesa, un tempo, insegnava che l’omosessualità è un disordine, e che la sua pratica è un peccato; per questo padre Gregory Greiten ha fatto la vittima, affermando di aver vissuto con pesanti sensi di colpa; fino a quando ha capito che quei sensi di colpa non avevano ragione di essere, che lui andava bene così, e che l’unico male era tener nascosto, per vergogna, il suo orientamento sessuale ai parrocchiani. Non è chiaro se con tale pubblica dichiarazione egli abbia voluto dichiarare la propria tendenza deviata, o l’indulgenza verso la pratica dell’inversione; nel primo caso, non ce n’era alcuna necessità, perché la Chiesa, appunto, non ha mai considerato la tendenza omosessuale come un peccato, anche se come un disordine oggettivo, in quanto contro natura, e raccomandato una vita di castità ed, eventualmente, dei percorsi terapeutici, assicurando da parte sua il pieno rispetto della persona; nel secondo caso, ha voluto far sapere a tutti di non voler rispettare il voto di castità e, forse, rendere nota la sua disponibilità ad esperienze omosessuali della sua stessa parrocchia. Se così fosse, e speriamo di no, sarebbe semplicemente ripugnante; in ogni caso, quel che padre Greiten ha ottenuto è stato di dare pubblico scandalo, inutilmente e per puro narcisismo, attirando su di sé l’attenzione, laddove sarebbe stato giusto e doveroso che si confidasse con un consigliere spirituale, e non già che sbattesse in faccia alle anime del suo gregge la verità che lo turba, perché, se non lo turbasse, non sarebbe stato nemmeno necessario che facesse quella esibizione. Anche se le persone come lui dicono e ripetono sempre di aver vinto ogni vergogna e ogni “irrazionale” senso di colpa, la loro maniera di ostentare la propria “diversità” (non parliamo, poi, del gay pride) dice tutto il contrario: che non stanno bene con se stesse, che non sono veramente in pace con la propria coscienza; che i conti della loro vita non tornano affatto.
Il cristianesimo non è una religione che abbassa il divino al livello dell’umano, ma che vuole innalzare l’umano verso il divino. Il senso dell’eresia modernista è tutto qui: avendo perso la fede, la vera fede, che è fede nel Dio Creatore e Redentore e nella vita eterna, ma avendola persa con cattiva coscienza, cioè senza volerlo ammettere, per orgoglio e per superbia intellettuale, i modernisti si sforzano di abbassare il divino al livello dell’umano, di togliere dal cristianesimo la dimensione del soprannaturale (oh, ma con molta astuzia e con somma abilità: ad esempio, sulla base di una lettura rigorosamente filologica della Bibbia, sfrondando i miracoli, uno dopo l’altro, fino ad arrivare… alla Risurrezione di Cristo, il vero obiettivo finale) e così trasformarlo in una specie di prontuario pacifista, buonista, umanitario e ambientalista, in una ennesima versione del culto new age dell’uomo stesso, nel quale l’uomo si fabbrica da sé i suoi comandamenti, sulla base della sua coscienza soggettiva, e, quindi, con molta, ma molta larghezza di manica. È comodo: invece di combattere le proprie cattive tendenze, l’uomo le proclama un suo bisogno “naturale” (anche se, in realtà, contrario alla natura: perché anche la natura reca implicita la propria legge morale) e vi si abbandona, pur continuando a dichiararsi cristiano e cattolico. Oh, ma per carità, cattolico “adulto”, “moderno”, “aperto”, “dialogante”, “non clericale”, insomma cattolico per modo di dire, cattolico all’acqua di rose, cattolico che viene a patti col mondo e con gli istinti, per poter fare il proprio comodo, sguazzare nel proprio fango e mangiare le sue brave ghiande, senza che qualcuno venga a dirgli, villanamente: Non ti è lecito, se sei cattolico, fare così!, come quel bigotto di san Giovanni il Battista che arrivò al punto d’indiscrezione e di villania di rimproverare al tetrarca Erode Antipa il fatto di vivere maritalmente con la moglie di suo fratello. Per un incesto simile, se non anche peggiore, quello di un giovane che viveva pubblicamente con la moglie di suo padre, san Paolo (nella Prima lettera ai Corinzi) ebbe parole di fuoco: disse che la Chiesa aveva il dovere di abbandonarlo nelle mani di satana, sperando che, almeno così, la sua coscienza avrebbe avuto un soprassalto di pudore e di onestà e avrebbe abbandonato il peccato, se non altro per salvarsi l’anima al cospetto dell’eternità. Non disse che bisognava “accompagnare” quell’uomo, e quella donna, né che bisognava compatire quelle anime ferite, che bisognava discernere, includere, gettare ponti, evitare ciò che divide, tener conto della complessità della vita e delle relazioni affettive che possono crearsi; non disse che bisognava aiutarli a liberarsi dai sensi di colpa, che bisognava rispettare il loro percorso (verso che cosa? verso il peccato mortale?), che bisognava astenersi dal giudicarli: non disse, come fa il falso papa Bergoglio: Chi sono io per giudicare? No; ma disse (1 Cor. 5, 4-5): nel nome del Signore nostro Gesù, essendo radunati insieme voi e il mio spirito, con il potere del Signore nostro Gesù, questo individuo sia dato in balìa di satana per la rovina della sua carne, affinché il suo spirito possa ottenere la salvezza nel giorno del Signore. Ecco come parla e come ragiona il vero cristiano, il vero cattolico; tutto il resto è chiacchiera mondana e sporcizia, grottesco e sfrontato tentativo di nobilitare la sporcizia, di sdoganare il peccato e, per fare ciò, di rovesciare addirittura la dottrina morale del Vangelo.
Questo è il punto: pur di raggiungere il loro fine soggettivo ed egoistico, liberalizzare il proprio peccato, i modernisti che si spacciano per cattolici non esitano a trarne la conseguenza estrema, e blasfema, che è necessario stravolgere tutto il Vangelo: perché niente di meno è necessario, se si vuole arrivare al punto di scusare il peccato e di non chiamarlo più peccato. Il Vangelo è un tutto coerente, nel quale ogni cosa, ogni precetto si tengono l’uno con l’altro; se si toglie anche un solo mattone, si provoca il crollo dell’intero edificio – e non perché sia fragile, ma, al contrario, perché è straordinariamente compatto, e non soffre né accomodamenti, né compromessi con lo spirito del mondo, cioè con lo spirito del peccato. Ecco allora che i modernisti s’industriano di fare come Seramide, che a vizio di lussuria fu sì rotta, che libito fe’ licito in sua legge, per torre il biasmo in che era condotta (Dante, Inferno, V, 55-57). Una suora scopre di avere tendenze lesbiche, o indulge alla pratica omosessuale?Oppure, meglio ancora (si fa per dire), lo aveva sempre saputo, ed è entrata in convento niente affatto decisa a combattere tale sua tendenza, ma, anzi, spiando l’occasione di potervi indulgere nella maniera più esplicita? Nessun problema: la suora si fa teologa, si fa paladina della causa delle persone LGBT, e si adopera infaticabilmente per sdrammatizzare il peccato, per negare che esso sia tale e per “dimostrarle” che è solo la giusta affermazione dei bisogni umani. E tutto questo rivolgendosi, appunti, alle persone, laiche e soprattutto consacrate, di fede cattolica; perché, come dice padre Greiten, non c’è niente di più bello di una sacerdote o di una persona consacrata che sia anche, contemporaneamente, omosessuale . E così incomincia a fondare organizzazioni per rivendicare la dignità e la libertà di tali persone, se ne va in giro a tener conferenze, attira l’attenzione dei media, i quali prontamente la sostengono e ne amplificano la “popolarità”, trasformandola in una specie di star mediatica e in una bandiera ideologica; e, se i suoi superiori bigotti e oscurantisti la ammoniscono, la mandano via da una diocesi o da un ordine religioso, se ne va in un altro, perché , di questi tempi, c’è sempre qualche vescovo o qualche ordine religioso al quale non pare vero di far vedere quanto è aperto, tollerante, moderno e progredito, e quanto è lieto di mettere in pratica la nuova prassi non giudicante e “misericordiosa” del signor Bergoglio.
Ecco: abbiamo tratteggiato il ritratto di una suora in carne e ossa, Jeannine Gramick, nata a Filadelfia nel 1942, attualmente in forza alle suore di Loreto ai piedi della Croce (dopo essere stata cacciata dalle Suore scolastiche di Nostra Signora), la quale è diventata un simbolo, un punto di riferimento, anzi perfino un mito presso tutte le lesbiche e i gay cattolici americani e anche degli altri continenti, grazie alla sua instancabile attività di “promozione” a favore delle persone che si trovano in tale situazione: omosessuali e cattoliche. Anche se, specie ai tempo in cui il cardinale Ratzinger era prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, suor Gramick è stata ripetutamente diffidata dal continuare ad insegnare la dottrina cattolica circa l’omosessualità in maniera difforme dal vero, lei ha continuato imperterrita, infischiandosene di ogni richiamo e aspettando pazientemente il momento buono, che, alla fine, è ben arrivato: quello dell’elezione del (falso) papa Bergoglio, in seguito alla quale ha potuto proseguire la sua battaglia con una libertà sempre maggiore e, semmai, circonfusa dall’aureola di un quasi martirio subito, ma anche con l’aria trionfante di chi è stato premiato dal girare della ruota della storia, e ha visto infine riconosciuti i suoi grandi meriti. Poteva mancare, a questo punto, il bravo produttore cinematografico, progressista e gay-friendly, che incarica il solito regista liberal di trasformare la storia di suor Jeannine in una bella e intrepida favola moderna, la favola della suora lesbica che si sveglia un mattino e scopre, proprio in virtù della sua inversione sessuale, di non essere più un brutto ed emarginato anatroccolo, ma un meraviglioso cigno, dall’aria radiosa e dal sorriso smagliante, come si addice alle favole di Hollywood?
Troppo facile, troppo comodo, troppo umano
diFrancesco Lamendola
IL PASTICCIO "MODERNISTA"
Impadronitisi del marchio di fabbrica, ora stanno cambiando il prodotto
di
Francesco Lamendola
Articolo d'Archivio
Stiamo attraversando tempi difficili, come forse poche altre volte nella storia è capitato.
Il mondo profano ha conosciuto altre crisi, anche nei tempi moderni, e forse peggiori di questa; pure, dopo ogni caduta, è stata possibile la ripresa, la ricostruzione: dalle macerie è emersa una umanità indomita, ansiosa di volare pagina, di ricominciare, e di costruire qualcosa da lasciare ai propri figli, alle generazioni future.
Ora no. Ora il mondo è prostrato, accasciato su se stesso; non ha subito una prova come le due guerre mondiali, ma si direbbe che l’esperienza della modernità, della tecnologia avanzata pervasiva, del benessere consumista e fine a se stesso, ne abbiano prosciugato le energie, ne abbiano spenta la voglia di vivere: e le culle vuote sono l’inequivocabile segnale di una crisi spirituale senza precedenti, di una sfiducia nel futuro, quale non si era mai vista, neppure nei momenti più bui della storia.
Nello stesso tempo, la crisi ha investito in pieno anche la sfera del sacro: mai come oggi gli uomini si sono allontanati dalla religione, mai come oggi hanno perso la loro spiritualità; si sono inariditi, si sono rimpiccioliti, e, quel che è peggio, hanno portato la loro incredulità fin dentro la cittadella della Chiesa, ma senza esserne del tutto consapevoli, o, forse, essendone consapevoli anche troppo: con il risultato che hanno inquinato le sorgenti stesse della fede, hanno alterato la sacra liturgia, la pastorale, il catechismo, perfino i dogmi e la morale cattolica. E tutto questo l’hanno chiamato, con vuota enfasi celebrativa, “aggiornamento”, “dialogo col mondo”, “andare incontro al mondo”; l’hanno chiamato “svolta antropologica”, “teologia negativa”, “teologia del silenzio di Dio” e in cento altre maniere, tutte più o meno barocche, più o meno balorde, compiacendosi di se stessi e applaudendosi e complimentandosi l’un altro, come l’asino del proverbio latino, che si strofina all’altro asino (asinus asinum fricat), per nascondere la semplice verità: e cioè che non l’uomo si è fatto adulto, ma che si è rimbambito a furia di praticare il culto della propria intelligenza. Non è ritornato bambino, come auspicato dal Vangelo, per accogliere la fede con la semplicità e il candore d’un fanciullo; si è rimbamboccito, conservando, cioè, i vizi dell’adulto, a cominciare dalla superbia, dall’irriverenza, dal cinismo, dallo scetticismo radicale, ma innestandoli in un orizzonte mentale sempre più asfittico, sempre più bamboccesco, come un pargoletto cresciuto male e ormai incapace di recuperare il ritardo, di responsabilizzarsi, di maturare come dovrebbe farlo una persona normale.
Il Vangelo è il sale del mondo; ma se coloro che lo annunciano hanno perso il senso del gusto, chi lo annuncerà? Tristissimo spettacolo quello di una Chiesa cattolica, la quale, dopo duemila anni di storia, durante i quali ha tenuto alto il vessillo della fede, è stata maestra di civiltà e di spiritualità ai popoli, ai regni, agli imperatori, e perfino ai nemici che da ogni parte l’assalivano, trasformandoli, a loro volta, in figli amorevoli e in valorosi combattenti, pronti a difenderla, ora invece sembra ansiosa di svendere il suo patrimonio ideale, disprezza il proprio passato, si autoaccusa di colpe reali e, più spesso, immaginarie, e intanto cerca di compiacere il mondo, di essergli gradita, di farsi quasi perdonare la colpa d’esistere, e si dà un gran daffare per strappare l’applauso del mondo, l’approvazione del mondo, le lodi del mondo. Tristissimo momento storico, quando i Pannella, gli Scalfari, le Bonino, levano alte lodi alla Chiesa cattolica, che essi hanno sempre odiato e detestato, e che vorrebbero vedere distrutta, mentre i santi, come san Pio da Pietrelcina, vengono da essa perseguitati, con astio, con accanimento, con tenacia veramente diabolica (strana coincidenza: la seconda, e più grave, persecuzione di San Pio ha inizio con l’ascesa al soglio pontificio di Giovanni XXIII e coincide con gli anni del Concilio Vaticano II, delle cui novità egli non era affatto persuaso).
In questo momento storico tanto difficile, la Chiesa soltanto, cadute le altre ideologie, possedeva l’esperienza, la saggezza, la cultura e la prudenza per offrire un conforto e un progetto di rinnovamento all’umanità stanca e avvilita; e invece di fare ciò, invece di restare fedele alla propria missione e al mandato di Gesù Cristo, Andate e annunciate il Vangelo, si è persa per strada, si è ingolfata in astruse e velleitarie dottrine moderniste, ha scambiato il dialogo con le altre confessioni cristiane e con le altre religioni per una rinuncia alla propria verità assoluta e trascendente; ha voluto storicizzarsi, proclamarsi soggetta al mutare dei tempi, bisognosa di continui aggiornamenti. E siccome il Progresso corre sempre più in fretta, anche la Chiesa si è messa a correre, sempre più in fretta, sempre più affannosamente. A forza di correre e correre, tutti questi teologi modernisti e questi preti progressisti, tutti questi vescovi storicisti e relativisti, si son lasciati sfuggire per strada la cosa essenziale: l’anima del Vangelo, che è fatta di amore e di timor di Dio. Amore e timore di Dio, ripetiamo: perché l’uno non sta senza l’altro, sono le due facce di una stessa medaglia, e sempre lo sono state; ci volevano le teste d’uovo sbucate fuori dal Concilio Vaticano II per rovesciare la prospettiva, e pretendere che il timore sparisse, che la giustizia sparisse, che il castigo sparisse, e rimanessero solo, trionfalisticamente, la misericordia, il perdono, la beatitudine. Ma una misericordia senza giustizia è una spaventosa deformazione del volto di Dio; un perdono senza giustizia, è un controsenso logico e morale; e la beatitudine senza il castigo per i malvagi, sarebbe una cosa priva di senso.
Quello che si sta formando è un neo-cattolicesimo modernista e storicista: modernista, perché è intimamente compenetrato dei valori della modernità – che sono, giova ricordarlo a chi non lo vuol sapere o non lo vuol vedere, per loro stessa natura, radicalmente anticristiani, come la storia degli ultimi tre secoli dimostra ad abundantiam, e, per chi non sia del tutto cieco, continua a dimostrare, più che mai, anche ai nostri giorni; e storicista perché lo ha storicizzato, lo ha reso dipendente dalla storia, ha preteso di spiegarlo mediante la storia, e, così facendo, ha invertito i termini del rapporto dialettico: non è più il Vangelo che ridisegna la mappa della storia universale, e le dà un senso, una direzione, una meta; no, ma è la storia che ingloba il Vangelo e agisce su di esso, plasmandolo, modellandolo, forzandolo ad adattarsi alle necessità del nostro tempo, le quali vorrebbero essere tutt’altro che spirituali e tutt’altro che religiose. Codesti signori si sono scordati che Gesù Cristo è il Signore della storia, e non viceversa: e così si son fatti fichtiani, hegeliani, crociani, gentiliani, idealisti, marxisti, feuerbachiani, gramsciani, castristi: tutto, tranne che cattolici. E che altro è questo continuo ritornello, ogni volta che accade una disgrazia, una tragedia storica, una calamità naturale: Ma Dio dov’è? Dov’era, dov’è andato? Com’è possibile che sia rimasto a guardare?; e abbiamo udito anche dei vescovi parlare in tal modo - se non storicismo di pessima lega, se non irreligiosità e materialismo camuffati e travestiti da teologia “adulta”, alla Bonhoeffer, da teologia che deve insegnare all’uomo a fare come se Dio non ci fosse, etsi Deus non daretur? Non avevamo già sentito dire, a suo tempo, che, dopo Auschwitz, è diventato quasi impossibile, per non dire irriverente – verso i morti, non verso Dio – continuare a credere in Lui? E che cos’è tutto questo, se non storicismo esasperato? Dio, per quei cristiani, è diventato un personaggio storico: Se ci sei, batti un colpo!, vien da dirgli; ma se tace, se tace proprio quando abbiamo bisogno di Lui, allora vuol dire che sta barando al gioco, che non c’è, o che è impotente, e allora che ce ne facciamo di un Dio impotente, noi che – è inutile negarlo – siamo più che mai adoratori della forza, magari nella versione tecnologica e “pacifica” dei viaggi spaziali, delle centrali di energia nucleare, della manipolazione genetica? In fondo, non è altro che il vecchio ritornello di Voltaire, intonato dopo il terremoto di Lisbona del 1755: se ci sono i terremoti, se muoiono gli innocenti con tanta facilità, allora la giustizia di Dio, la sua misericordia, la sua stessa provvidenza, non sono che altrettante chimere, e noi non viviamo affatto nel migliore dei mondi possibili, ma nel peggiore, o in uno dei peggiori – con buona pace di Leibniz e di tutti coloro i quali si ostinano ad aver fede in Lui.
Del resto, lo stesso papa Francesco ha ammonito, credendo di dire una grande verità, che “Dio non è cattolico”: massima espressione dello storicismo e del relativismo, della babelica confusione ormai imperanti e impazzanti nella Chiesa cattolica. Certo che Dio non è cattolico: Dio è Dio; ma si dà il caso che, per i cattolici, Dio si sia incarnato nel Figlio, un certo Gesù di Nazareth, che sia morto e risorto per amore degli uomini, e che abbia insegnato: Io sono la Via, la Verità e la Vita; e ancora: Chi ha visto me, ha visto il Padre; e ancora: Io sono la vite, voi i tralci, il Padre mio è l’agricoltore: rimanete uniti alla vite, rimanete nel mio amore. Dunque, se Dio non è “cattolico”, i cattolici adorano il vero Dio, che non è il Dio della altre religioni, ma è il Dio della croce, del Calvario, della morte e della resurrezione di Gesù Cristo. Questo è il Dio che adorano e il Dio dal quale aspettano e attendono la vita eterna. Lo dica chiaro, dunque, papa Francesco, se lo pensa: è questo il problema? Il problema, per lui, è che i cattolici non dovrebbero affermare di credere nel Dio vero, nel Dio rivelato e infallibile, che ha parlato per mezzo dei profeti, di Gesù Cristo, degli apostoli, degli Angeli e dei Santi? È questo il problema che non vuol dire, anche se ci sta girando attorno fin da quando è stato eletto al soglio di san Pietro, e ha gelato milioni di cattolici con quel “buonasera” iniziale, senza una benedizione apostolica, senza un “sia lodato Gesù Cristo”? Non pensa forse che tutte le religioni sono uguali, che sono tutte vere, e che per mezzo di una qualunque di esse si arriva a Dio, visto che “Dio non è cattolico”? Ebbene, allora lo dica apertamente; e, se no, che dica apertamente quel che la Chiesa ha sempre detto: che la religione di Cristo è la sola via per arrivare a Dio, perché è la sola vera. Dire una cosa del genere sarebbe superbia, per i suoi sensibili orecchi? Strano, perché è semplicemente un ovvio concetto logico-filosofico: la verità è una, non due, non tre, non quattro. Una sola è la verità matematica, quella storica, quella teologica: una, e non bisogna essere timidi ad affermarlo. Non ci possono essere due verità: se ci fossero, allora si tratterebbe di piccole verità parziali, non certo della Verità suprema, che è Dio.
Ma oggi sembra che tutti, anche nella Chiesa cattolica, stiano precipitando nella confusione più completa. Ogni giorno sentiamo alti prelati e sedicenti teologi lanciarsi nelle affermazioni più temerarie, più bislacche, più blasfeme, e spacciarle per la verità cristiana (storicizzata) del terzo millennio. San Pio da Pietrelcina se la rideva dei cattolici modernisti e della loro pretesa di aggiornare il Vangelo: diceva che i santi si sono sempre beffati del mondo e dei mondani e si sono messi sotto i piedi il mondo e le sue massime (cit in: Yves Chiron, Padre Pio, Ed. Paoline, 1997, p. 334). La Chiesa dei nostri giorni, invece, sotto il pontificato di papa Francesco, non sembra pensarla così: al contrario, pare tutta protesa a farsi carico della mentalità del mondo, a spingere il dialogo col mondo fino al punto accettare per buoni i suoi punti di vista, anche nelle materie di fede. Quando il cardinale Kasper, per esempio, sostiene, rifacendosi – ma in maniera capziosa – alla esortazione apostolica di Giovanni Paolo II Familiaris Consortio, per sostenere, come ha fatto nella sua relazione introduttiva al concistoro sulla famiglia del 2014, che l’importante non è quel che dice la Chiesa circa la validità o la nullità di un matrimonio, ma quel che ne pensano i coniugi, soggettivamente e in “buona fede”, è chiaro che siamo di fronte non solo a una storicizzazione ed una relativizzazione del Vangelo, ma alla esplicita pretesa di far valere, sulla Legge di Dio, le opinioni e i desideri degli uomini. E anche se quel documento è piaciuto moltissimo a papa Francesco, che non si è trattenuto dal lodarlo e dal magnificarlo fino alle stelle, è chiaro che esso esprime la folle pretesa dell’uomo di aver ragione contro Dio, con la scusa della misericordia di Dio stesso. All’esplicito comando di Gesù sulla indissolubilità del matrimonio: L’uomo non separi ciò che Dio ha unito, Kasper e i suoi amici sostituisce un’altra dottrina, che ormai è cattolica solo di nome, secondo la quale gli uomini possono unirsi e separarsi a loro discrezione, purché siano in “buona fede” e purché la Chiesa riconosca loro la patente di “sofferenti” che chiedono aiuto. Strano modo di porgere aiuto, quello di confermarli nel loro peccato, e di non chiamarlo tale, ma di legittimare la rottura di un sacramento: tanto vale dichiarare apertamente che si vuole instaurare una nuova religione che abbia l’uomo al centro, che sia al servizio dell’uomo e che consista nel dare sempre ragione all’uomo, anche se sbaglia, anche se pecca. Ma che senso ha parlare ancora di peccato, in una religione cosiffatta? Il peccato è l’offesa recata a Dio: ma dov’è Dio, in tutto questo pasticcio modernista, senza capo né coda; in questo sincretismo deista di tipo gnostico-massonico?
Già pubblicato il 01 Dicembre 2016
Del 12 Febbraio 2018
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.