ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 16 marzo 2018

Complice dei bugiardi e dei falsari

LE DUE "BANDE" DI CHIERICI: la visione manichea di stampo marxista del giornalista di Vatican Insider Gianni Valente





C’è qualcosa di peggio dell’avere un cattivo pensiero: 

è avere un pensiero bell’e fatto.
Charles Péguy

Ho avuto occasione di leggere un articolo di Gianni Valente dal titolo Le due bande di chierici e lo “storytelling papale” (qui). Valente, già redattore di 30Giorni, è giornalista dell’agenzia Fides e collaboratore, oltre che di Vatican Insider, anche della rivista Limes, nonché autore di alcuni saggi su Ratzinger e su Bergoglio. É amico personale di quest’ultimo (qui), con il quale intrattiene rapporti sin da prima della sua elezione. 

L’articolo inizia con una citazione di Charles Péguy, del quale Valente è estimatore: «Noi ci muoviamo continuamente tra due bande di preti: i clericali clericali e i clericali anticlericali». Dopo aver ricordato che fu «militante repubblicano e socialista, fondatore di una rivista, i Cahiers de la Quinzaine, frequentata da atei, agnostici e liberi pensatori», nel 1999 egli ebbe a scrivere (qui): «Quando Péguy ritrova la fede cristiana, non vive questo fatto come un’abiura della propria vita fino ad allora trascorsa in partibus infidelium» e a conferma di ciò Valente cita una sua frase: «È per un approfondimento del nostro cuore sul medesimo cammino, e non è affatto per un’evoluzione, né per un ripensamento, che abbiamo trovato la strada del cristianesimo. Non l’abbiamo trovata grazie a un ritorno. Piuttosto, l’abbiamo rinvenuta al termine. Ed è per questo, occorre che lo si sappia bene dall’una e dall’altra parte, che non rinnegheremo mai un solo atomo del nostro passato». 

Ecco quindi inquadrato il pensiero di uno scrittore militante nel partito anticlericale, sposato civilmente con una donna atea, che non ha fatto battezzare i suoi figli, e che considera possibile conciliare socialismo e cattolicesimo, ateismo e fede, in quel processo hegeliano che ritroviamo in non pochi pensatori e teologi progressisti, tra i quali - come maestro - lo stesso Joseph Ratzinger. Ecco inquadrato, direi, anche il pensiero di un altro scrittore militante nel partito progressista, Gianni Valente, che risente dello strutturalismo marxista tanto caro al Sessantotto ed in parte confluito prima in Azione Cattolica e poi in Comunione e Liberazione. Un pensiero gnostico e manicheo che considera e giudica la religione secondo le categorie della politica. Ecco infine inquadrato anche il ruolo di Ratzinger e Bergoglio: il primo impegnato ad applicare dottrinalmente la dialettica hegeliana, il secondo ad applicare pastoralmente lo strutturalismo marxista. E se le basi filosofico-teologiche sono state poste dal professore tedesco, le conseguenze pratiche sono oggi realizzate dal gesuita argentino, con il risultato di portare inevitabilmente ad una demolizione della religione, considerata come una sovrastruttura di cui la società può e deve liberarsi. Così se con Ratzinger era ancora possibile un compromesso tra filosofia e religione (nella sintesi tra due elementi antitetici), con Bergoglio la religione è esautorata di qualunque legittimità (in uno scontro frontale che ammette solo vincitori e vinti), in quanto anacronistica e superata: effetto effimero di un mondo che non c’è più.

Gioverà ricordare che nel 2001 il cardinale Godfried Danneels, Primate del Belgio, e il senatore Giulio Andreotti, direttore di 30Giorni, presentarono a Roma un libro su Charles Péguy, con prefazione del cardinale Roger Etchegaray, iniziando proprio da un’emblematica frase del porporato francese: «Di Péguy mi piace il suo anticlericalismo di buona lega». La cronaca recente ci ricorda il nome del cardinale Danneels per altre vicende, che non gli impedirono di comparire sulla Loggia di San Pietro il 13 Marzo di cinque anni fa, al fianco dell’appena eletto Jorge Mario. 

La scelta di iniziare l’articolo con una citazione di un personaggio caro al progressismo cattolico dovrebbe lasciar comprendere che l’approccio al tema da parte di Valente è tutt’altro che scevro da partigianeria. 

In occasione della conferenza tenuta nella sala del Cenacolo della Camera dei Deputati, il cardinale Danneels disse: «[Péguy] si è ritrovato cattolico con questa simpatia per il mondo moderno, anche scristianizzato. Finirà per avere immense difficoltà e collisioni con la borghesia cattolica della Francia e con colui che allora era una vera star, una stella mattutina del cattolicesimo francese del ventesimo secolo: Jacques Maritain. Ha avuto difficoltà perché per Maritain essere cristiani era innanzitutto credere a una serie di verità eterne, di concetti ben definiti, e seguire una morale codificata nell’insegnamento della Chiesa. A Péguy era accaduto diversamente. Bisogna dire che in Francia, all’inizio del ventesimo secolo, trovarsi in conflitto con Maritain poteva apparire come una specie di marchio di eresia. Forse proprio a causa di queste difficoltà, nei circoli cattolici tradizionali fino al Concilio Vaticano II Péguy non è mai stato guardato troppo bene». 

Ecco la divisione manichea tra « circoli cattolici tradizionali» e «Concilio Vaticano II», laddove i primi credono «a una serie di verità eterne, di concetti ben definiti» e seguono «una morale codificata nell’insegnamento della Chiesa», mentre i fautori del Concilio si riconoscono - quantomeno implicitamente - nel pensiero di Péguy. O meglio, a quel Péguy anticlericale che fa loro comodo, perché in un’intuizione lucidissima fu proprio lui a scrivere parole molto dure sui chierici d’allora, che potrebbero applicarsi a maggior ragione a quelli di oggi: «Tolgono il prezzo, ciò che costituisce la posta, della scommessa, il saldo, del gioco, tutto ciò che costituisce il premio e il valore e la posta stessa e l’oggetto della salvezza. Tolgono, censurano il mistero stesso della creazione, e ci arrivano solo togliendo i pezzi grossi, i misteri essenziali. Tolgono la creazione, l’Incarnazione, la Redenzione; il merito, la salvezza, il premio della salvezza; il giudizio e qualcos’altro; e naturalmente e soprattutto la Grazia; più di ogni mistero, il mistero e l’operare della Grazia» (qui).

La tesi dell’articolo è che esistano due fazioni apparentemente opposte che vogliono tenere Bergoglio «prigioniero nel suo personaggio»,  riconducendo tutto «alle “eccezionalità” o alle anomalie della sua persona» e forzando la lettura delle sue azioni «nella griglia dualista che legge tutto ciò che accade anche nella chiesa secondo le dialettiche tra liberal e conservative, tra destra e sinistra». 

Eppure il tenore di questo commento pecca a sua volta di una visione manichea di stampo marxista, «che legge tutto ciò che accade anche nella chiesa secondo le dialettiche tra liberal e conservative, tra destra e sinistra», proprio nel momento in cui Valente identifica due «bande di chierici» dai quali egli prende apparentemente le distanze: da un lato la «lobby dei piccoli inquisitori» e dall’altra i «narcisisti bergoglisti». Una visione che considero estremamente semplicistica, e che travisa grossolanamente da un lato l’opposizione fortemente critica a questo papa e dall’altro il ruolo spudoratamente cortigiano dei suoi sostenitori. In realtà si dovrebbe riconoscere con sguardo soprannaturale che nella Chiesa si trovano contrapposti un Davide cattolico ed un Golia modernista, e che il pusillus grex è destinato ad un’inesorabile vittoria, così come ad un’inesorabile sconfitta è destinata la scelesta turba dei novatori. 

Scrive Valente: «Perché il gioco funzioni, occorre tenere il Papa prigioniero nel suo personaggio. Ricondurre tutto alle “eccezionalità” o alle anomalie della sua persona. Denigrare o esaltare ogni suo gesto come espressione dei suoi gusti privati e delle sue idee personali, o dei riflessi condizionati che gli derivano dal suo percorso esistenzial-culturale». Ma qui non parliamo di un «gioco», bensì della salvezza delle anime, acquistate da Nostro Signore sulla Croce. Per questo i Papi cattolici usavano il plurale majestatis: essi erano una cosa sola, un tutt’uno con Cristo, e quando parlavano le loro parole erano parole sacre, parole divine, e non più parole umane. Per questo essi erano rivestiti di paramenti che ne oscuravano quasi l’aspetto umano, mettendo in risalto la maestà del Signore, Sommo ed Eterno Pontefice.  Se vi è chi ha enfatizzato la persona del Papa, questo è proprio Bergoglio, che ha voluto portare alle estreme conseguenze la profanazione - nel senso etimologico di riduzione dal sacro al profano - del Papato, differenziandosi dai suoi Predecessori non solo nel Magistero, ma anche esteriormente, nella dimora, nel linguaggio, nei modi. Se vi è un «prigioniero nel suo personaggio», questi è proprio Francesco, che ha fatto delle «eccezionalità» e delle «anomalie della sua persona» l’elemento caratterizzante del suo pontificato, anteponendo «ogni suo gesto come espressione dei suoi gusti privati e delle sue idee personali» al suo ruolo di Successore del Principe degli Apostoli. É lui che si è imposto come «una monade, o una star, un capo-partito»: se avesse avuto l’umiltà e la fede di comportarsi come un Papa, di parlare da Papa, di vestirsi da Papa, di abitare nella residenza del Papa, nessuno gli rimprovererebbe nulla. Ma anche questa è un’innovazione che risale a prima di Bergoglio, inaugurata da Paolo VI con l’irrituale abolizione della tiara e consolidata da Giovanni Paolo II. 

Concordo su quel che dice Valente: «Ogni rappresentazione del Papa come “fattore sorgivo”, come demiurgo di una “nuova” Chiesa e di un “nuovo” mondo finisce, alla lunga, per diventare strumento di auto-smantellamento ecclesiale». Ma ripeto: la responsabilità di questa rappresentazione artefatta non è da attribuire ad altri che a chi, come Papa, si è imposto non come elemento di continuità con la Tradizione della Chiesa, ma viceversa come l’artefice della «riscoperta» della «freschezza del Vangelo». Tra l’altro, non senza dimostrare un ego smisurato e allo stesso tempo un disprezzo per i suoi Predecessori, quasi avessero la colpa di aver messo da parte il Vangelo per duemila anni. 

Quanto alla «natura sinodale della Chiesa» ed alla «preminenza del popolo di Dio», mi pare che questi possano esser catalogati - per citare Antonio Spadaro (qui) - come birignao teologici, rivelatori di una mentalità conciliare che ha ben poco di cattolico. 

«Chi ama e segue la dottrina, ringrazia i Padri, i Papi e i Concili che hanno donato alla Chiesa la chiarezza luminosa di tanti simboli, definizioni e canoni»: verissimo. Ma allo stesso tempo egli si rammarica che altrettanta «chiarezza luminosa» difetti tanto negli atti dell’ultimo Concilio, quanto nel cosiddetto magistero di Bergoglio. E se è vero che il Cattolico «ripete con tutta la Tradizione della Chiesa che la dottrina di per sé non salva», come invece affermano i Protestanti col loro pecca fortiter sed crede fortius, è altrettanto vero che non è dato amare Dio se non Lo si conosce, e che occorre conformarsi all’invito dell’Apostolo - veritatem facientes in caritate (Ef IV, 15) - ossia che l’amore verso Dio e il prossimo si fonda sulla verità, poiché Dio stesso è Verità e Carità al sommo grado. E non si tratta di «gnosi», ma di conoscenza dettata dal desiderio di amare Dio: una conoscenza che si basa sulla Fede, ossia sull’ossequio dell’intelletto all’autorità del supremo Rivelatore, che poi muove la volontà ad amarLo e a conformare le proprie azioni alla Sua volontà. E se è doveroso sperare nella divina Misericordia «che perdona e guarisce», è altrettanto necessario temere la divina Giustizia: initium sapientiae timor Domini (Salmo CX, 10).

I due schieramenti delineati da Valente non possono comunque essere posti sullo stesso piano, perché il primo - quello conservative - conta tra le proprie file un numero estremamente ridotto di chierici e laici; viceversa, la schiera degli entusiasti di questo pontificato annovera la quasi totalità, se non dei fedeli e del Clero, quantomeno della parte più visibile e rappresentativa dell’attuale compagine ecclesiale e - fatto ancor più rivelatore - di molti non Cattolici. Non occorre una profonda conoscenza della Chiesa odierna per sapere che la destra cattolica è composta per lo più da semplici laici e dal basso Clero, mentre la sinistra vanta intellettuali, teologi, professori, sociologi, giornalisti, Prelati, Vescovi, Cardinali corteggiati dalla stampa e portati in palmo di mano dall’intelligencija culturale, politica e mediatica. I pochi intellettuali e teologi conservatori di norma sono fatti oggetto di scherno dal mainstream, ignorati dalla Gerarchia, ostracizzati dai loro Superiori, e non di rado licenziati o resi innocui. Quelli che ottengono un minimo di notorietà, di solito la devono al fatto di non dipendere da alcun ente ecclesiastico, cosa che consente loro di poter godere di libertà di espressione senza temere ritorsioni. Viceversa, gli esponenti progressisti sono sostenuti dai loro Superiori, incoraggiati dalla lobby di Santa Marta e premiati per la testimonianza di prona sudditanza all’idolo che ivi si adora. 

Ma l’accostamento tra le due fazioni è ancor più ardito perché tace su una differenza sostanziale. 

Chi oggi si trova suo malgrado nei panni del «piccolo inquisitore» non gode nel riconoscere che questo papa, lungi dal «riscoprire la freschezza del Vangelo» e dal confermare nella Fede il gregge affidatogli, è invece elemento disgregatore e artefice di disorientamento dottrinale e di confusione morale; anzi la loro denuncia di questo impressionante allontanamento dalla chiarezza dell’insegnamento cattolico da parte di Bergoglio è fonte di dolore, di vera sofferenza, per l’offesa arrecata a Dio, il disonore in cui è gettata la Chiesa ed il gravissimo pericolo per la salvezza eterna delle anime. 

Le voci che esprimono critiche a Bergoglio - che Péguy chiama «partito dei devoti», mettemdo in luce significative convergenze con l’estensore dell’articolo di Vatican Insider  - non mirano a «cogliere in fallo il Successore di Pietro», oggi ridotto a grottesca parodia di colui che Cristo ha posto a capo della Chiesa non per cambiare la Fede, ma per conservarla intatta; non per scandalizzare i fedeli, ma per istruirli nelle Verità eterne. I «dottrinalisti», contrariamente a quanto sostiene Valente, non «attaccano il Papa perché non parla il loro slang», ma esprimono forti perplessità perché non riconoscono in lui la voce del Pastore universale, ed anzi lo vedono esaltare quei lupi dai quali i suoi Predecessori mettevano in guardia il loro gregge. I Cattolici non parlano uno slang, un dialetto, un linguaggio in codice: essi riconoscono viceversa nel λόγος la Seconda Persona della Santissima Trinità, Gesù Cristo, la Parola eterna ch’è unica salvezza. 

Il silenzio ostinato di Bergoglio, lungi dal dissipare i dubbi, li muta in certezze e dimostra che non ci troviamo di fronte ai vaneggiamenti di alcuni visionari, ma ad una deliberata volontà demolitrice proprio in colui che è costituito in autorità da Dio per difendere la Chiesa. 

Quando esprimono una critica su Bergoglio, i «dottrinalisti» non «fanno a gara a denunciare la sua ultima presunta bestemmia, il suo ultimo presunto scarto dalle forme definite della vita ecclesiale e della dottrina cattolica». Se così fosse - se cioè si trattasse di mere speculazioni su questioni opinabili - essi compirebbero un atto temerario. Ma sentir dire che «anche dentro la santissima Trinità stanno tutti litigando a porte chiuse, mentre fuori l’immagine è di unità» (qui), è una vera e propria bestemmia, ben peggiore delle imprecazioni di un carrettiere ignorante. Altro che «presunto scarto»: l’elenco di irriverenti boutades e di grossolani errori dottrinali rivaleggia solo con gli insulti che l’argentino rivolge quasi quotidianamente a chi non condivide le sue idee. E se Valente riconosce che vi sono «forme definite della vita ecclesiale e della dottrina cattolica», dovrebbe anche spiegare per quale ragione Bergoglio se ne ritenga dispensato, a meno di non volersi imporre egli stesso come «una monade, o una star, un capo-partito». Così quella «autoreferenzialità» che Francesco «continua a indicare come fattore d’origine di molte patologie ecclesiali» è alimentata proprio da lui, che non tollera alcun dissenso e che di quell’ «autoreferenzialità» è prima vittima. 

Non è inoltre sufficiente affermare apoditticamente che «tutti i pronunciamenti e o suggerimenti di Papa Francesco si muovono nel grande alveo della Tradizione» perché ciò sia vero: la confusione che regna in seno alla compagine ecclesiale, unita al disaccordo tra esponenti della Gerarchia, conferma che non vi è né una chiarezza di insegnamento da parte di Bergoglio, né una univocità di comprensione di quell’insegnamento da parte dell’Episcopato, del Clero e dei fedeli. Negare questa evidenza rivela ostinata cecità, se non orgogliosa presunzione nell’aderire per motivi ideologici ad un postulato indimostrabile.

Dall’altra parte, le eteree eulogie - per usare ancora un’espressione di padre Spadaro - che la falange progressista innalza a Bergoglio non hanno assolutamente come destinatario il Vicario di Cristo, il Sommo Pontefice, ma proprio colui che con tutto il suo essere e con ogni parola si adopera per la demitizzazione del Papato. I progressisti si beano di questo papa proprio perché umilia l’istituzione che rappresenta, e contribuisce al processo di parlamentarizzazione iniziato col Vaticano II. Un processo che, come ho evidenziato in un altro mio commento (qui) rischia di coinvolgere anche una parte dell’ala conservatrice dei Cattolici. 

Valente sostiene che i tradizionalisti «con un lavoro durato interi lustri, hanno trasmutato geneticamente alcuni contenuti cristiani in ideologia di tribù identitaria, da investire nelle “battaglie culturali”». Con questa affermazione, egli conferma anzitutto che il problema esiste da prima di Bergoglio, che di lustri di pontificato ne conta solo uno; in secondo luogo, la dottrina cui essi aderiscono non è «ideologia di tribù identitaria», ma sperandarum substantia rerumargumentum non apparentium, secondo le parole dell’Apostolo (Eb IX, 1), che tuttavia identifica come Cattolico chi vi aderisce, e come eretico chi la rifiuta o la adultera. Infine, la battaglia che essi combattono è il bonum certamen (II Tm 4, 7) cui è tenuto ogni cristiano, che è miles Christi, nonostante questa espressione possa suscitare l’orrore dei novatori.  

E se vi è rischio di «disorientare i semplici battezzati cattolici», questo non dev’esser attribuito a chi lancia l’allarme, ma a chi si è reso responsabile di un allontanamento dalla «“vera” dottrina»: una dottrina che è vera senza virgolette, altrimenti non è. «Colui che non fa echeggiare la verità quando la conosce, si rende complice dei bugiardi e dei falsari»: lo scrisse proprio Charles Péguy, che altrove fece involontariamente - nella grande contraddizione di una fede senza dogmi - un ritratto della situazione attuale: «Cade tutto. Non c’è più cristianesimo né niente. Ci sono solo cocci senza nome, materiali senza forma, calcinacci e rovine; rovine informi, cumuli e macerie, mucchi e affastellamenti; scompigli, disastri, come quello che abbiamo sotto gli occhi; vergognose contraffazioni, imitazioni amorfe, immagini scandalose, parodie infami» (qui).

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