ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 24 maggio 2018

Dietro le quinte

LA TESTIMONIANZA
"Legge 194, il momento più tragico per l'Italia" - VIDEO

Le menzogne, il contesto tragico del terrorismo, le forzature ideologiche. Ecco come l'aborto divenne legale in Italia. Parla Carlo Casini, per molti anni presidente del Movimento per la Vita e protagonista della battaglia contro l'approvazione della Legge 194 in Parlamento. In questo video spiega cosa accadde in quello che fu "il frangente più drammatico della storia italiana".

TUTTE LE FAKE NEWS DEGLI ABORTISTI

http://www.lanuovabq.it/it/legge-194-il-momento-piu-tragico-per-litalia-video


Costruire il futuro sulla legge divina e naturale

(di Roberto de Mattei) Quarant’anni fa, il 22 maggio 1978, sotto il nome di legge 194 per l’interruzione della gravidanza veniva introdotto in Italia, da una classe dirigente democristiana, l’omicidio di Stato di massa.
Omicidio, perché la legge 194 stabilisce la liceità di sopprimere l’essere umano innocente nel grembo della madre; omicidio di Stato, perché questo crimine è approvato, organizzato e finanziato dallo Stato italiano; omicidio di massa, perché le vittime dell’aborto in Italia sono state, secondo stime ufficiali, circa sei milioni, un numero di molto superiore alla somma di tutti morti in guerre e sciagure naturali dalla nascita dello Stato italiano (1861) ad oggi.
Emma Bonino, che con Marco Pannella si batté in maniera sfegatata per fare approvare questa legge, in una video-intervista rilasciata il 22 maggio 2018 a la Repubblica, ha detto che la legge 194 «ha funzionato». Come può funzionare una ghigliottina o un forno crematorio, senza nessuna parola di pietà per chi viene ucciso. Però – ha aggiunto la Bonino – dopo quarant’anni è necessario «fare un tagliando» cioè perfezionare questa legge, perché qualcosa ancora non funziona bene. Qual è il problema? È l’altissima obiezione di coscienza dei medici, che impedisce una applicazione piena e solerte della legge.  
Alla Bonino non interessa sapere quali sono le ragioni di questa obiezione di coscienza, quello che importa è che la legge funzioni, che la carneficina continui e perciò ella auspica una maggiore diffusione dell’aborto farmacologico, attraverso la RU 486, la pillola abortiva, a cui ancora poche donne ricorrono. Emma Bonino, come tanti abortisti, considera evidentemente il bambino un’escrescenza del corpo della madre, oppure, se ammette che sia vita umana ciò che si svolge per nove mesi nel seno materno, fa propria la visione secondo cui l’interesse dello Stato, della razza, della classe proletaria, o del singolo individuo, giustifica l’uccisione di un essere umano innocente. Questa visione ha un solo nome, che va proclamato a chiare lettere: barbarie. La Bonino non si rende neppure conto che qualcosa nel mondo sta cambiando, che oggi non sono i cortei delle femministe a riempire le strada, ma le marce per la Vita come è accaduto a Roma il 19 maggio e in Argentina il 20 maggio. La grande stampa ignora questi eventi, ma non si può fermare una protesta che nasce da quella legge naturale che è incisa a caratteri indelebili nel cuore di ogni uomo. Sotto la pressione dei movimenti pro-life, negli Stati Uniti, il presidente Trump, ha fatto, in meno di un anno, più di quanto abbiano fatto negli ultimi trent’anni i suoi predecessori. La stessa Cina comunista, dopo il fallimento della sciagurata politica del figlio unico, ha deciso che dall’inizio del 2019, saranno aboliti i limiti fin qui imposti alle nascite.
In Italia un nuovo governo si sta formando. È lamentevole il fatto che nel cosiddetto “contratto di governo” i grandi temi della vita e della famiglia siano assenti, o considerati solo sotto l’aspetto strettamente economico. Eppure, come ha osservato Virginia Coda Nunziante, se il linguaggio economico è l’unico che viene compreso, basterebbe cominciare con il togliere dalla spesa pubblica i 2-300 milioni di euro che ogni anno sono dedicati ad uccidere i nostri bambini e dedicarli a rendere più funzionante non l’abortificio, ma il sistema sanitario nazionale. Una delle ragioni della crisi del nostro paese è il crollo demografico, dovuto all’aborto e alla contraccezione, frutto a loro volta di una cultura edonista e relativista. Non si potrà uscire dalla crisi se non si rovesciano i presupposti della cultura di morte. È questo il messaggio che viene dalla Marcia per la Vita e da altre recenti iniziative, come quelle di Citizengo e di Pro Vita onlus, ma anche dallo sforzo di tanti giovani, gruppi e associazioni, che non si arrendono, che andranno avanti, e che all’Italia in disfacimento di oggi, sostituiranno un’Italia che ritrova la legge divina e naturale e su quella costruisce il proprio futuro. (Roberto de Mattei)


Fiat aborto. La famiglia Agnelli dietro le quinte della legge 194 

In queste ore di celebrazione del quarantennio della 194 ci preme gettare un po’ di luce su qualcosa che il sedicente mondo pro-life italiano ha sempre bizzarramente ignorato. Così come i Rockefeller sono principi indiscussi della necrocultura americana (con l’odio per la riproduzione naturale che si tramandano da una generazione all’altra), anche l’Italia ha la sua famiglia designata, che tanto ha fatto per portare la legge dell’immane massacro degli innocenti nel nostro Paese: questa famiglia si chiama, per ironia onomastica, Agnelli.
Il suo impegno su questo fronte è negletto dagli studi di chi si occupa della materia, anche se ha contribuito attivamente a un sacrificio umano grande più o meno come il Veneto, il Friuli-Venezia Giulia, il Trentino-Alto Adige e un pezzo di Lombardia messi insieme. Al moloch dell’aborto sono stati sacrificati almeno 6 milioni di innocenti: un’ecatombe che in termini di morti vale almeno 50 Nagasaki.
I Rockefeller italiani
È noto perfino alle cronache mondane come i Rockefeller avessero negli Agnelli un loro pied-à-terre italiano. Non c’è solo una simpatia tra due vecchie dinastie delle industrie pesanti che hanno business complementari (una produce petrolio, l’altra motori a scoppio). E nemmeno ci sono solo le cointeressenze dovute alle comuni, inevitabili frequentazioni dei club globalisti come il Gruppo Bilderberg o la Trilaterale (quest’ultima, come tanta della politica estera sia militare che diplomatica degli USA, nata nei laboratori dei ricchissimi nuovayorchesi).
Qualche storico, come Anthony Sutton, ha pure suggerito che l’unione delle due famiglie portasse a dinamiche mondiali infernali: i Rockefeller, secondo Sutton, sono i veri attori dietro agli investimenti industriali della Fiat in Unione Sovietica. Con il paradosso che i mezzi che uccidevano i soldati americani in Vietnam fossero prodotti grazie ai trasferimenti tecnologici degli americani Rockefeller, che continuarono per decenni. Uno che aveva capito il giochino era probabilmente il deputato nazionalista americano Larry McDonald, acerrimo nemico dei Rockefeller. Egli era casualmente uno dei 269 passeggeri del volo civile Korean Airlines 007, dall’Alaska a Seoul, che Yuri Andropov fece abbattere dai suoi MiG il 1° settembre 1983.
Il “fascino dell’Avvocato”
Ma nel legame tra i due casati c’è molto di più: c’è un fattore, come dire, umano. Quando si chiedeva a David Rockefeller di Gianni Agnelli, al vecchio riccone brillavano le pupille. Era anche lui, come tutta la stampa italiana, vittima della panzana del “fascino dell’Avvocato”. E questo pur essendo infinitamente più abbiente: il Rockefeller, che allo specchio probabilmente scorgeva un paperone nerd, invidiava il playboy italiano e i suoi party scatenati a Nuova York, dove nessun membro della famiglia piemontese era ammesso, con una eccezione: il nipote Lapo. Sì, solo da questo dettaglio si possono capire tante cose…
A quelle feste, le donne, si narra, erano le più belle della terra. Gli uomini presenti erano del calibro di Henry Kissinger, l’onnipotente Segretario di Stato americano ancora oggi vivo e vispo sullo scacchiere internazionale. Kissinger adorava l’Avvocato e tutta la sua stirpe: si racconta che la prima riabilitazione di Lapo, dopo il primo scandaletto con il transessuale, avvenne grazie a Kissinger (presso il quale il giovane Agnelli aveva lavorato), il quale aveva sicuramente buone entrature con tutto un mondo della stampa americana che improvvisamente cominciò a dedicare innumerevoli servizi al rampollo torinese. “Vogue America” dedicò decine di pagine, una cosa mai vista. Anche gli Agnelli hanno amato molto Kissinger, al punto da piazzarlo nel Consiglio di Amministrazione della Juventus.
Kissinger e il Male americano
Ma, venendo a noi, Kissinger è soprattutto l’uomo del NSSM-200, il Memorandum per il quale l’America stabiliva che per continuare il suo dominio sul globo doveva far crollare la popolazione mondiale. Per questo, veniva stabilito che i Paesi del Terzo Mondo che non accettavano le politiche di riduzione delle nascite dovessero essere privati di aiuti economici.
Quando la cosa venne a galla, anche grazie al lavoro della forza politica di Lyndon Larouche che giustamente vedeva in Kissinger l’apoteosi del male, in realtà non successe niente. Kissinger continuò a godersi i suoi party e le partite della Juve, e a dispensare i suoi servigi con il suo studio di consulenze miliardarie.
Questa tendenza americana a subordinare gli aiuti alla perversione sessuale e agli infanticidi, del resto, è ancora viva nei nostri anni. È il caso della Nigeria del precedente presidente Jonathan Goodluck, cui venne proposto dagli sgherri di Obama di fare un cambio interessante: se avessero accettato di decriminalizzare l’omosessualità e permesso le nozze di Sodoma, gli americani avrebbero fornito loro le immagini satellitari delle postazioni dei terroristi islamici di Boko Haram. Altrimenti, beccatevi le bombe nelle chiese la domenica e state zitti.
Aurelio Peccei, un uomo Fiat al Club di Roma
Ma torniamo agli Agnelli. Preme raccontare come essi furono i grandi protettori di un enigmatico personaggio torinese. Costui fu centrale nel lancio dell’idea di depopolazione terrestre in tutto il secondo Novecento. Egli fu altresì un grande motore di quelle tendenze che potevano essere ancillari in questa mostruosa guerra contro l’uomo: l’ecologia, per esempio.
Stiamo parlando di Aurelio Peccei. Peccei era uomo Fiat. Egli è la persona che più di ogni altra si è dedicata, su scala internazionale, alla diffusione del mito apocalittico moderno della “bomba demografica” (quella che oggi viene propalata fin dentro il Vaticano che invita Paul Ehrlich) e dei “Limiti dello sviluppo”, titolo di uno studio del MIT che egli finanziò: questo è esattamente il cominciamento di tutto il sentire mondiale per cui le risorse sono limitate e l’uomo va svalutato, altrimenti si finisce come quei bambini africani magrissimi con la pancia gonfia.
Fu Peccei, sempre con il sostegno Agnelli e Rockefeller, a dar vita al Club di Roma, antesignano di tutti i consessi tra potenti della terra, creato presso l’Accademia dei Lincei alla Farnesina il 7 aprile 1968 con la sponsorizzazione diretta della Fondazione Agnelli.
Susanna Agnelli e le prove tecniche di aborto
Ma senza andare a scandagliare la sinistra figura di Peccei, che aveva sicuri appoggi massonici in Sudamerica e finanche in Asia, basti pensare l’impegno politico degli Agnelli già visibile in superficie. Il tema del feticidio fu impugnato dalla famiglia stessa. Nel 1976, cioè due anni prima che arrivasse la 194, la deputata del Partito Repubblicano Italiano (notoriamente, il partito della massoneria) Susanna Agnelli chiese al Ministro della Sanità l’autorizzazione all’aborto per le madri di Seveso, cioè quelle donne incinte al tempo del disastro chimico che colpì la cittadina lombarda.
La richiesta della Agnelli, ovviamente, si univa a quella della deputata radicale Emma Bonino. È profondamente ingiusto vedere come oggi il mondo pro-life si scagli quasi unicamente contro la radicale che praticava gli aborti con la pompa da bicicletta e non contro l’infanta industrialista.
Per l’Agnelli, insomma, questa anteprima nazionale del feticidio di Stato doveva farsi per forza. La diossina di Seveso era un’occasione troppo ghiotta. Il Ministro De Falco concesse la deroga, non prima di aver avuto il placet del Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, il cattolico che due anni dopo avrebbe firmato la legge genocida 194.
Gli aborti invocati dalla Agnelli vennero operati alla clinica Mangiagalli di Milano e al nosocomio Desio. Furono fatti degli studi sui poveri resti dei bambini massacrati. All’epoca una vita valeva davvero qualcosina di più: oggi a Liverpool, per fare un esempio a caso, l’autopsia la negano perfino a un bambino di due anni. I resti degli aborti furono inviati in un laboratorio di Lubecca, in Germania, per essere analizzati; nella relazione stilata nel 1977 dai tedeschi si dice che in nessuno di quei resti umani fosse evidente un segno di malformazione.
Altre donne di Seveso portarono a termine le loro gravidanze senza problemi. I loro figli, che vivono tutt’oggi, non mostrarono segni di malformazioni evidenti. Qualcuno magari sta pure leggendo queste righe.
Il disastro di Seveso non fu altro che il casus belli necessario all’avvento della legge 194. Il ruolo centrale degli Agnelli nell’ecatombe che ne seguì è quindi da non sottovalutare. Essi non facevano altro che viaggiare su di una linea tracciata nei decenni dai loro soci Rockefeller, e teorizzata scientificamente dal loro uomo Aurelio
Peccei.
Anche per questo, dobbiamo comprendere come la famiglia Agnelli sia un pericolo per questo Paese. Nella politica, nei giornali e perfino nel calcio, il loro nome incute ancora oggi timore e sudditanza psicologica. Ma va da sé, a loro tutto è permesso. Hanno aiutato il Male a portare l’aborto in Italia. Diciamo che sono stati ampiamenti premiati. Io però continuo a credere che una punizione arriverà, anche prima che venga il giudizio vero.

– di Roberto Dal Bosco

Lo spirito buono della legge 194 secondo il quotidiano Avvenire
di Alfredo De Matteo) Le decine di migliaia di persone che il 19 maggio scorso hanno partecipato alla VIII edizione della Marcia per la Vita hanno fatto risuonare forte il loro no all’aborto volontario e alla legge 194, di cui proprio in questi giorni ricorre il quarantennale. Per sua natura il diritto alla vita o è assoluto oppure non è, per cui nessuna norma che pretende di legittimare in qualche modo l’omicidio dell’innocente nel grembo materno può essere definita “buona”; men che mai la sciagurata 194 che ha causato fino ad ora oltre sei milioni di vittime innocenti ufficiali.
Eppure, nel mondo cattolico c’è ancora chi difende la legge abortista, per di più dalle pagine del quotidiano dei vescovi italiani. In un articolo apparso su Avvenire del 17 maggio dal titolo «I 40anni della legge 194. Perché l’aborto non è un diritto», Marcello Palmieri scrive: «Non è un diritto, non è una libertà. È e resta una scelta drammatica ed estrema, che il diritto consente nella misura in cui un bene giuridico costituzionalmente sancito si pone in insanabile contrasto con un altro di pari valore: il diritto alla vita del concepito e quello alla salute fisica e psichica della gestante. È il vero spirito della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, la ratio -cioè l’obiettivo – che traspare da tutto il suo testo e che tante pronunce giurisprudenziali hanno confermato nel corso degli anni. Lo Stato riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio, vi si legge nell’articolo 1 (…) D’altronde la legge 194 pone (porrebbe, se fosse davvero applicata ovunque per ciò che dice) maglie molto strette all’aborto, imponendo ogni volta il tentativo di rimuovere le cause per cui esso viene chiesto e subordinando in ogni caso la soppressione della vita nel grembo materno alla messa in atto di procedure piuttosto rigide: colloqui, attivazione di volontari, consulti medici, periodi di riflessione obbligatori».
Verrebbe da ridere, se non fosse che in realtà ci sarebbe da piangere lacrime amare nel costatare la totale assenza di vergogna in chi scrive certe corbellerie sulla pelle dei milioni di vittime della norma abortista. Difficile infatti credere che l’articolista, e chi condivide con lui certe idee malsane rendendole pubbliche, non conosca il contenuto della 194 e che la sua conoscenza della legge si fermi alle ipocrite enunciazioni di principio, del tutto sganciate dal suo nucleo normativo.
Innanzitutto, l’articolista mette arbitrariamente e scandalosamente sullo stesso piano due diritti, quello alla vita del concepito e quello alla salute fisica e psichica della gestante, come se le esigenze della donna, di qualunque tipo esse siano, vista anche l’aleatorietà dei concetti stessi di salute fisica e psichica, possano legittimamente “gareggiare” con il diritto alla vita di colui che deve nascere.
In secondo luogo, la ratio della legge 194 è proprio quella di anteporre alla vita del bambino le esigenze della madre, qualunque esse siano, al punto che l’aborto è praticamente libero nei primi tre mesi di gestazione e molto facile da ottenere oltre tale assurdo limite.
Già, perché anche in presenza di una diagnosi di malformazione (anche solo presunta) del concepito, l’accento è posto sempre sulla madre e sulle sue esigenze, non certo sul bambino; egli, di fatto, non è titolare di diritti per la legge 194, che da pieno potere di vita e di morte alla madre del nascituro.
Per quanto riguarda le maglie molto strette all’aborto che porrebbe l’iniqua 194, è sufficiente leggere gli articoli 4 e 6 della legge per farsi un’idea di quanto sia falso tale assunto.
L’articolo 4 recita così: «Per l’interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico o a una struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia».
Sfidiamo chiunque, compreso l’articolista, a trovare un solo motivo per il quale non sia possibile per una donna accedere all’aborto; tant’è che non esiste una casistica ufficiale delle cause per cui viene richiesto dal momento che ciò risulterebbe del tutto inutile, stante le infinite combinazioni previste dalla legge ai fini dell’accettazione della domanda di aborto.
Per cui, anche le procedure “piuttosto rigide” che imporrebbe la 194, di cui scrive il nostro, vanno ad infrangersi nella norma generale, ben più cogente, che riconosce alla donna il diritto di abortire. Il problema maggiore che il popolo della vita deve fronteggiare, e non da oggi, non è costituito tanto dal fuoco nemico, che sarebbe sciocco non mettere in preventivo, ma da quello amico; ossia, da chi dovrebbe denunciare le leggi ingiuste e guidare la rivolta contro i nemici della vita invece di fare l’apologia della legge 194 e strizzare loro l’occhiolino. (Alfredo De Matteo)

FB CHIUDE LE SENTINELLE IN PIEDI. LA CENSURA SUL WEB E SUI GIORNALI. DAL CONFORMISMO AL FASCISMO.

Quando si dicono le coincidenze! Ieri sera stavo leggendo un libro di Nelson Algren, uno scrittore americano della metà del secolo scorso, di un realismo USA molto particolare. Di lui sono famosi “L’uomo dal braccio d’oro” e “Le notti di Chicago”, testimonianze di un’umanità continuamente ai limiti e al di là della legge, ex pugili e prostitute e così. Via. Il libro che sto leggendo si intitola “Chi ha perduto un americano” e racconta dei viaggi di Algren in Europa, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Stavo leggendo questa frase: “E il prodotto finale di un conformista che diventa sempre più conformista non è forse un fascista?” quando un’amica mi ha avvertito che Facebook aveva bloccato il sito delle Sentinelle in Piedi e compiuto una serie di altre nefandezze censorie semplicemente perché dei liberi cittadini esprimevano il loro parere contrario all’aborto, e dicevamo di esseri contrari a una legge specifica. Senza insultare o aggredire nessuno.
Che Facebook sia un luogo partigiano, schierato politicamente culturalmente, e illiberale in maniera continua e crescente ormai non è più una novità. Il 15 giugno 2016, su San Pietro e Dintorni scrivevo un post intitolato: “Adinolfi il Grande Fratello e FB”.
Ecco il testo, che non troverete più su San Pietro e Dintorni:
Il Grande Fratello profetizzato da George Orwell è già qui, e si chiama Facebook. Ieri qualcuno ha segnalato è imposto l’oscuramento sul popolarissimo social del simbolo del “Popolo della Famiglia”, l’organizzazione politica creata da Mario Adinolfi, bestia nera, vittima e il bersaglio dei gruppi di pressione e degli attivisti LGBT, omosessuali.
Fra l’altro alcuni sono arrivati ad attribuirgli qualche responsabilità (indiretta, per fortuna) anche per la strage di Orlando, fino a quando non è emerso che il criminale assassino aveva da anni tendenze e frequentazioni omosessuali.
Da quello che siamo venuti a sapere, è stato individuato come “omofobo” il simbolo del Pdf a causa della scritta “No gender nelle scuole”. Ci scrive Mario Adinolfi, a cui abbiamo chiesto qualche lume: “Non posso usare neanche Messenger. e gli Lgbt hanno segnalato in massa il simbolo del Pdf, tra l’altro bloccando per sempre la mia possibilità di usarlo come foto profilo. Dovessi ripubblicarlo, mi sarebbe bloccato il profilo per sempre”.
Ora su Facebook chi frequenta il sito vede di tutto. Al limite (e qualche volta anche oltre) la pornografia, insulti, malvagità, pettegolezzi e scemenze di ogni genere. Bloccare un’immagine come quella che vedete a fianco la dice lunga sul grado di follia del mondo in cui stiamo vivendo. Oltre che sul livello di ideologizzazione a cui sono sottoposti i cosiddetti “amministratori” con potere di censura del social network. E vogliamo parlare del silenzio che accompagna, sui grandi giornali anch’essi lietamente proni ai dettami del nuovo MinCulPop, fatti come questo?
Perché sono immobili le penne degli scandalizzati per vocazione e professione?”.
Il post sopravvisse per ventiquattro ore sul sito, e poi fu cancellato per decisione dei quadri intermedi, sottoposti a pressione da parte della solita lobby LGBT, e evidentemente corrivi o incapaci di resistere. (Era la prima volta, in quarant’anni, che venivo censurato).
Ora il problema non è Facebook. Facebook può fare quello che vuole, salvo affermare di essere un luogo di libero incontro e scontro. Il problema sono i colleghi dei grandi giornali, che vedono, non possono non vedere e non sapere, e tacciono. E allora torniamo alla domanda finale del post censurato da La Stampa: “Perché sono immobili le penne degli scandalizzati per vocazione e professione?”. E forse la risposta ce la da la frase lapidaria di Nelson Algren. Conformisti, conformisti, e piano piano, fascisti. Nel senso peggiore del termine.
Marco Tosatti

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