Il 19 maggio, la città di Bergamo è stata invasa dalla folla del gay pride, con tanto di curia indaffarata a ostacolare i cattolici che intendevano riparare l’offesa recata Dio da chi viola pubblicamente la sua legge. Pochi giorni dopo, come da accordi, per le stesse vie della città è passato il corpo di Giovanni XXIII, acclamato da tutti coloro che avevano battuto le mani alla sfilata dell’orgoglio omosessuale. E c’è stato persino qualche sacerdote che ha tentato di salvare capre, caproni e cavoli spacciando il “papa buono” per il “papa dei tradizionalisti”. Peccato che, più o meno nelle stesse ore, le spoglie del “papa buono” venissero accolte in città come le reliquie del “papa dei non credenti”.
Ma papa Roncalli, penserà il fedele, è definito il “papa buono”, perciò come è possibile accostarlo alla sovversione del cattolicesimo? Già, quanto è difficile non lasciarsi trasportare dalla corrente degli elogi e dei complimenti che innalzano a più non posso il pontefice bergamasco…
Ma, vien da chiedersi, chi ha coniato la definizione di “papa buono”? Non sarà forse proprio il clero conciliare, che ha trovato la strada spianata grazie al concilio indetto dal quel pontefice?
Il cardinale Biffi, certo non un oppositore del Vaticano II ma capace di parlare fuori dal coro, in un suo scritto sottolineava: “M’incantavano i suoi gesti “irrituali”, ed ero rallegrato dalle sue parole spesso sorprendenti e dalle sue uscite estemporanee. Solo la valutazione di alcune frasi mi lasciava esitante. Ed erano proprio quelle che più facilmente di altre conquistavano gli animi, perché apparivano conformi alle istintive aspirazioni degli uomini. C’era, per esempio, il giudizio di riprovazione sui “profeti di sventura”.
L’espressione divenne e rimase popolarissima ed è naturale: la gente non ama i guastafeste; preferisce chi promette tempi felici a chi avanza timori e riserve. […]
Ma ricordo che una perplessità mi prese però quasi subito. Nella storia della Rivelazione, annunciatori anche di castighi e calamità furono solitamente i veri profeti, quali ad esempio Isaia (capitolo 24), Geremia (capitolo 4), Ezechiele (capitoli 4-11). Gesù stesso, a leggere il capitolo 24 del Vangelo di Matteo, andrebbe annoverato tra i “profeti di sventura”. […]
“Bisogna guardare più a ciò che ci unisce che non a ciò che ci divide”. Anche questa sentenza – oggi molto ripetuta e apprezzata, quasi come la regola aurea del “dialogo” – ci viene dall’epoca giovannea e ce ne trasmette l’atmosfera. […] È opportuno, per esempio, che si usi di questo aforisma per salvaguardare i rapporti di buon vicinato in un condominio o la rapida efficienza di un consiglio comunale.
Ma guai se ce ne lasciamo ispirare nella testimonianza evangelica di fronte al mondo, nel nostro impegno ecumenico, nelle discussioni coi non credenti. In virtù di questo principio, Cristo potrebbe diventare la prima e più illustre vittima del dialogo con le religioni non cristiane. Il Signore Gesù ha detto di sé, ma è una delle sue parole che siamo inclini a censurare: “Io sono venuto a portare la divisione” (Luca 12,51).” [Giacomo Biffi, “Memorie e digressioni di un italiano cardinale”, Cantagalli, Siena, 2007]
Eppure si continua a udire che il pontefice di Sotto il Monte abbia avuto il merito di rinnovare la Chiesa. Ma, a tale proposito, vengono a mente gli scritti in cui monsignor Lefebvre sottolineò le vere finalità del papa “buono”: “C’è dunque qualche cosa che è cambiato nella Chiesa, qualche cosa che è stato cambiato dagli uomini della Chiesa. Si vuole cambiare la sua storia. – sottolineava il fondatore della FSSPX – […] È impossibile conoscere i fatti a fondo: personalmente non li conosco; ma di questi cambiamenti ci siamo accorti dal 1958, dopo il conclave che ha eletto Giovanni XXIII. Il cardinale Roncalli, patriarca di Venezia, quando partì per il conclave, e non era ancora eletto, scriveva già al vescovo di Bergamo: “Il papa che sarà eletto, bergamasco o no, dovrà cambiare molto nella Chiesa. Dovrà esserci una nuova Pentecoste”. In tutta la sua lettera si sente il desiderio di cambiare in modo profondo la Chiesa e io penso sia stato lui a denominare il Concilio: Concilio dell’aggiornamento.” [Mons. Marcel Lefebvre, Il colpo da maestro di Satana, ed. Ichthys]
Per comprendere cosa intendesse per aggiornamento, si consiglia vivamente la lettura del saggio di Paolo Pasqualucci Il Concilio parallelo, dove viene condotta una particolare analisi riguardo al tormentato iter conciliare di uno dei documenti più importanti del concilio stesso, la Costituzione Dei Verbum sulla divina rivelazione. “Pure si evince chiaramente – documenta Pasqualucci – quanto le azioni e le dichiarazioni di Giovanni XXIII mostrino come egli abbia incoraggiato e appoggiato la componente modernista rappresentata dall’azione eversiva dei vescovi organizzati in gruppi di studio e di pressione (con largo apporto di teologi in odor di eresia) e soprattutto organizzati nelle conferenze episcopali”, quelle conferenze episcopali che detenevano un’inusitata e amplissima ingerenza in materia liturgica benché si sottolineasse la loro grave deviazione dalla Tradizione della Chiesa.
“Da tutto ciò – continua Pasqualucci – si deve concludere che l’appoggio all’azione illegale e rivoluzionaria dei novatori corrispondeva al vero pensiero di Giovanni XXIII, mentre la sua approvazione degli schemi elaborati sotto l’effettivo controllo dottrinale della Commissione Teologica di Ottaviani e Tromp [il primo Cardinale dell’allora Sant’Uffizio, il secondo gesuita olandese e suo perito di fiducia, ndr ] era evidentemente per lui solo un atto dovuto, al quale non poteva sottrarsi, per ragioni d’ufficio”.
Dunque papa Giovanni XXIII non fu un “tradizionalista”, ma un modernista che diede il la all’avvio di quella che oggigiorno vediamo inesorabilmente dinanzi a noi: una crisi della Chiesa spaventosa generata dai disastri provocati dai papi conciliari di cui papa Roncalli ne è il capostipite: “Un cardinale, dopo la sua morte, disse che ci sarebbero voluti cinquant’anni per riparare i danni del suo pontificato. La frase fu diplomaticamente smentita. Pronunziata o meno, io credo che esprima qualcosa di vero. – così si espresse il domenicano Padre Innocenzo Colosio, sul numero di marzo del 1975 della “Rivista di Ascetica”, per recensire un libro di elogi di Franco Molinari su Giovanni XXIII. – Si tratta di riflessioni e giudizi personali di chi scrive […], giacché, seppure in forma privata, furono implicitamente espressi subito quando fu iniziata la campagna per la canonizzazione del «papa buono». Infatti, sollecitato a firmare la petizione per la medesima, chi scrive si rifiutò di farlo, suscitando così l’ironica disapprovazione dei promotori. Il criterio che mi spinse a tale sgradevole rifiuto fu proprio quello diametralmente opposto alla norma fondamentale dell’agire del nostro grande personaggio, recentemente ricordata dallo stesso Postulatore, su L’Osservatore Romano del 4 luglio: “Non voleva dispiacere a nessuno, e per non cadere proprio nell’errore volontario di dispiacere ad alcuno preferiva apparire anche troppo semplice”, e debole, aggiungerò io. Ora a questo atteggiamento di fondo, praticato non solo come persona privata ma anche come occupante posti di suprema responsabilità, brutalmente contrappongo la prassi e la norma di S. Paolo: “Si hominibus placerem, Christi servus non essem (GaI 1, 10).” Non si può infatti [esercitare] la bonarietà a tutti i costi. Ma giacchè mi sono assunto l’ingrato compito di fare l’avvocato del diavolo, cercherò di procedere in maniera più… scientifica, ricordando la tesi classica apparentemente paradossale, che, cioè, le virtù in stato perfetto sono necessariamente connesse, cosicchè se ne manca anche una sola, nessuna è perfetta e non si può parlare di santità. Il mio venerato maestro P. Reginaldo Garrigou-Lagrange […] insisteva – in una lezione tenuta ai postulatori dei vari ordini – nel dire che […] se un uomo è caritatevole al sommo, ma manca di coraggio morale, della virtù della fortezza, o della lungimirante prudenza, costui sarà un buon uomo, un ottimo cristiano ma non certamente un santo nel senso pieno del termine. […]
La tanto decantata bontà naturale o bonarietà del Roncalli fu sempre sorretta, accompagnata e corretta da tutte le altre virtù, specialmente dalla vera prudenza e dalla vera fortezza? Questo è il vero problema teologico di fondo per giudicare della santità di papa Giovanni. Egli, volendo a tutti i costi essere benevolo, simpatico, gradito, non ha forse instaurato un metodo di governo che ha snervato la disciplina ecclesiastica, per cui, insieme a molte altre cause, ci troviamo ora immersi in un immane caos ideologico, morale, liturgico, sociale? Per me la risposta è positiva, e quindi l’accusa è gravissima: a me quindi l’onere della prova. […]. Ecco alcuni di questi episodi emblematici, significativi di uno stile, di un metodo, di un sistema, sui quali non so se hanno sufficientemente riflettuto i suoi panegiristi ad oltranza. […]
Il seguente episodio è di dominio comune ed è molto più grave come indice di debolezza nel governo della Chiesa. L’episcopato olandese molto tempestivamente volle preparare il suo popolo al Concilio con una lettera cumulativa, tradotta presto in varie lingue, tra cui la francese e l’italiana. In essa vi era già adombrato, del resto abbastanza chiaramente, il principio che la validità delle decisioni del futuro concilio sarebbe stata condizionata dalla loro recezione o meno da parte dei fedeli. A Roma subito si fiutò il sottinteso ma deciso democraticismo che traspariva da quelle posizioni, e per ordine superiore la lettera fu ritirata dal commercio. Alfrink, primate d’Olanda, corse subito da Giovanni XXIII, per mostrargli quale disdoro gettava sull’episcopato di un’intera nazione un simile provvedimento disciplinare. Il papa Giovanni, per non dispiacere agli Olandesi, lo annullò, iniziando così quella serie di cedimenti, che poi in futuro culminarono, sotto il suo successore, nella non-condanna del famigerato Catechismo Olandese. […]
Altri atti di debolezza. Ecco un esempio della sua debolezza. Fin da quando era nunzio a Parigi non fece misteri circa la sua cordiale disapprovazione delle dottrine radicalmente evoluzioniste del famoso gesuita Teilliard de Chardin. Ma, eletto papa e sollecitato da più parti a mettere all’indice le sue opere, altra abbondante fonte dell’odierna dilagante confusione dottrinale – se ne schermì con la storica frase: Io sono nato per benedire e non per condannare! Ma Gesù, San Paolo, S. Giovanni Evangelista, molti grandi e santi Papi non si limitarono a benedire – compito troppo facile e simpatico – ma esercitarono anche il doveroso e gravoso ufficio di condannare e anatematizzare! […]
E così si è giunti a celebrare un importante Concilio Ecumenico, che per la prima volta nella storia della Chiesa non ha osato condannare apertamente il più grande errore del momento. E si trattava del comunismo ateo. Certo la storia, i secoli futuri non perdoneranno mai al Vaticano II di non aver stigmatizzato nella maniera più perentoria e plastica il comunismo ateo, il marxismo, che costituisce il più poderoso nemico del cristianesimo nel secolo XX. Perfino il termine non figura mai nel testo vero e proprio del Concilio! Si dirà: Ma quando veniva votata la “Gaudium et Spes”, Giovanni era già morto. Verissimo; ma fu lui che nel discorso programmatico di apertura annunziò con la massima solennità e chiarezza dì voler usare la medicina della misericordia piuttosto che quella della severità, evitando condanne, con lo specioso pretesto che è meglio esporre la verità che condannare l’errore, molto più che si tratterebbe di errori già condannati; ignorando così le leggi della psicologia umana secondo le quali una rinnovata condanna formale con relative sanzioni pratiche è ben più efficace di una luminosa disquisizione teorica. Papa Giovanni e il Vaticano lI ormai hanno fatto scuola, cosicché oggi la gerarchia a tutti i livelli non ha più il santo coraggio di buttare fuori dalla Chiesa chi apertamente nega i dogmi più sacrosanti.[Padre Innocenzio Colosio O.P. – Marzo 1975 “Rivista di Ascetica” – radiospada.org]
– di Stefano Arnoldi
By Redazione On 11 giugno 2018 · 13 Comments
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