Rainer Maria Woelki, cardinale di Colonia, torna a parlare di intercomunione, dopo la risposta poco chiara di Roma alle richieste di chiarimenti di sette vescovi tedeschi sulla possibilità di dare la comunione anche ai protestanti. "Questo riguarda la Sua Chiesa e di conseguenza riguarda la sua essenza". E non solo in Germania.
Molto spesso, quasi in maniera casuale, sentiamo dire che l’eucarestia è la fonte e la vetta della vita della Chiesa. Ma solo se riflettiamo a quello che ciò significa, e a quello che la Chiesa insegna e professa in tema di eucarestia, e della presenza reale del Signore nell’ostia, si possono mettere le parole del cardinale di Colonia nel giusto contesto. Rainer Maria Woelki è uno dei vescovi della Conferenza Episcopale Tedesca che hanno scritto e firmato una richiesta di chiarimenti alla Congregazione per la Dottrina della Fede in tema di comunione ai coniugi protestanti di cattolici. La Conferenza Episcopale tedesca, a maggioranza, aveva approvato un sussidio pastorale in cui era concesso ai coniugi protestanti di ricevere l’eucarestia durante la messa cattolica, con l’escamotage che si trattava di una situazione di grave emergenza spirituale. Questo stratagemma è stato contestato da personaggi autorevoli come i cardinali Brandmüller e Müller, e di conseguenza sette vescovi si sono rivolti a Roma. Ma il prefetto della Congregazione per la Fede, Ladaria, si è limitato a riferire un messaggio del Pontefice regnante in cui si suggeriva ai vescovi tedeschi di trovare una soluzione condivisa. Anche questo gesto, come era prevedibile, ha suscitato reazioni; alcuni vescovi tedeschi l’hanno interpretato come una non azione a favore dell’eucarestia ai protestanti, mentre altri hanno rimproverato a Roma un’omissione proprio laddove il suo ruolo sarebbe quello di fare chiarezza.
Nella sua omelia Woelki ha definito l’eucarestia il più grande mistero della fede, fatta eccezione per la Santissima Trinità. Ha ricordato ai fedeli che ricevendo la comunione dicono “Sì e amen” al Papa e al vescovo, alla struttura sacramentale della Chiesa, e ai Santi e alla loro venerazione. Questo rende la Messa non semplicemente “un evento” che possa essere rimpiazzato da un servizio della Parola e della Comunione, “non importa quanto bello”. “In primo luogo, ciò che conta è che nella celebrazione della Messa, noi abbiamo qualche cosa da dare – e cioè noi stessi a Dio – arrenderci a Lui”.
C’era stata polemica fra vescovi tedeschi riguardo alla lettera inviata a Roma. Woelki ha detto: “Molto è stato scritto e affermato. Fra le altre cose, è stato detto che mi sarei rivolto segretamente a Roma, che avrei scritto qualche cosa di nascosto. Con le parole della Sacra Scrittura, dico: ho agito e scritto e detto quello che doveva essere scritto e detto, in totale apertura. Dico ancora una volta: noi in Germania non viviamo in un’isola dei Beati. Non siamo una Chiesa nazionale. Siamo parte della grande Chiesa universale. Tutte le nostre diocesi tedesche sono incorporate nel grande globo. Siamo tutti uniti con le altre Chiese cattoliche del mondo, unite sotto la guida del Santo padre. Ecco perché ci avviciniamo a Cristo in unità con tutte le altre chiese particolari. In fedeltà al deposito della fede trasmesso a noi dagli Apostoli”.
Un altro vescovo che ha parlato del problema dell’intercomunione è stato quello di Essen, mons. Franz-Josef Overbeck. Ha detto che bisognerebbe trovare una “soluzione teologicamente responsabile”, sottolineando che quando un matrimonio interconfessionale è in gioco, la comunione dovrebbe essere prevista per entrambi i coniugi. Ma non ha proposto nessuna soluzione concreta; e il Codice di Diritto Canonico non lo prevede. Mentre nei giorni scorsi il cardinale Arinze ha suggerito che i protestanti che vogliono partecipare all’eucarestia divengano cattolici. “L’eucarestia non è una nostra proprietà privata, che possiamo condividere con i nostri amici. Il nostro the sì, e la nostra bottiglia di birra anche; quello possiamo condividerlo”.
Marco Tosatti
http://www.lanuovabq.it/it/intercomunione-woelki-non-ci-sta-e-non-e-il-solo
Crocifisso in Baviera, se la Chiesa sceglie la non identità
Dall’1 giugno in tutti gli uffici pubblici della Baviera è obbligatorio esporre il crocifisso: «Un chiaro impegno per la nostra identità bavarese e per i valori cristiani». Indovinate chi ha storto il naso. I soliti laicisti? Sbagliato. La Chiesa oggi va di moda la «tolleranza», mica l’«identità». Ma la «tolleranza» è un lusso dei tempi tranquilli, mentre l’«identità» fa comodo in tempi turbolenti.
Dall’1 giugno in tutti gli uffici pubblici della Baviera è obbligatorio esporre il crocifisso: «Un chiaro impegno per la nostra identità bavarese e per i valori cristiani». Indovinate chi ha storto il naso. I soliti laicisti? Sbagliato. La Chiesa. L’arcivescovo di Monaco (di Baviera), cardinale Reinhard Marx, che è pure capo della conferenza episcopale tedesca, «ha detto no all’uso politico del crocifisso». Con lui si sono schierate le associazioni dei giovani cattolici (Bdjk) e dei giovani protestanti (Ebj) bavaresi, «che al governatore hanno ricordato che per loro la croce è simbolo di tolleranza e non di identità».
La Germania è pur sempre uno stato federale e ogni Land in certe materie fa quel che vuole. Così, può accadere che nelle scuole sia vietato portare la croce al collo in omaggio alla neutralità religiosa, ma sui muri degli uffici pubblici no, se un decreto apposito, nel Land, lo prevede. In Baviera comanda il Csu, il partito cristiano-sociale, e il Cdu, il cristiano-democratico di Angela Merkel, è praticamente assente tanto è forte l’identificazione dei bavaresi col loro partito. Quest’ultimo è praticamente presente solo in Baviera, solo che questa è la regione più popolosa e più ricca dell’intera Germania, quantunque ne costituisca, geograficamente, il meridione. A fine aprile il governatore Markus Söder si era fatto ritrarre mentre appendeva un’antica e artistica croce di legno alla parete del suo ufficio alla cancelleria, poi l’annuncio su Twitter e infine il decreto.
Ora, la presa di posizione, critica e tutto sommato negativa, del cardinale Marx ricorda quella che prese il suo collega Mario Delpini quando il leader della Lega, Salvini, si presentò a un comizio elettorale con in mano un rosario e un Vangelo. Anche allora il no episcopale fu all’«uso politico» della religione. C’è, comunque, qualche differenza: Delpini non è cardinale, anche se la sua sede, Milano, è cardinalizia per antica tradizione; Salvini brandì i simboli religiosi in un comizio, che non è una sede istituzionale. La similitudine è nella motivazione, sia di Salvini che di Söder: il richiamo all’identità nazionale.
I giovani bavaresi, cattolici e luterani, non ci stanno, come si è visto: oggi va di moda la «tolleranza», mica l’«identità». Si potrebbe osservare che la «tolleranza» è un lusso dei tempi tranquilli, mentre l’«identità» fa comodo in tempi turbolenti. Ne sa qualcosa la Polonia, che, nella sua lunga storia di vaso di coccio tra vasi di ferro, per non farsi stritolare da Prussia protestante e Russia ortodossa si è sempre aggrappata al suo cattolicesimo, appunto per non perdere la sua identità.
Che non è solo simbolica o ideologica, ma implica tutto un modo di vita e di pensare, fin nei minimi dettagli: il sociologo delle religioni Léo Moulin constatava che pure la cucina polacca era diversa, più buona, di quelle dei vicini, pur alle stesse latitudini e con gli stessi prodotti; e connetteva ciò alla ostinata cattolicità polacca. I popoli cattolici hanno, a parità di condizioni, un’arte culinaria superiore, sosteneva Moulin, perché portatori di una diversa concezione della famiglia. E famiglia vuol dire desco comune. Il cattolico, poi, grazie al periodico «scarico» nel confessionale, è meno cupo, ha maggior joie de vivre rispetto al protestante, il quale è più individualista e porta intero il carico delle sue colpe verso Dio.
Certo, oggi lo scenario è cambiato e, per esempio, i popoli cattolici non hanno più il primato del numero dei figli. Ma proprio per questo è da incoraggiare almeno un ritorno al simbolo identitario, laddove le altre etnie alla loro identità ci tengono eccome. Mussolini cominciò la sua carriera come anticlericale e mangiapreti, ma in politica era scaltro (entrata in guerra a parte) e non esitò a rimangiarsi il suo ateismo socialista per firmare il Concordato con la Santa Sede. Una clausola del quale prevedeva il ripristino dei crocifissi in tutte le scuole, l’ora di religione (cattolica, ça va sans dire) obbligatoria nelle stesse, il cattolicesimo quale religione ufficiale dello Stato, eccetera. Insomma, la Chiesa un tempo all’«identità» ci teneva. Sono cambiati i «segni dei tempi»?
Rino Cammilleri
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