ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 21 agosto 2018

Esiste qualcuno che abbia a cuore la verità?

A CHI INTERESSA LA VERITA'?



La verità è una ed è la corrispondenza fra la cosa e il giudizio: la maggior parte delle persone non desidera la verità, se essa richiede sforzi e sacrifici; preferisce vivere in uno stato d’ignoranza che equivale alla menzogna
 di Francesco Lamendola  
  
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È opinione abbastanza diffusa che, per svolgere una riflessione appropriata sulla questione del relativismo contemporaneo, sia necessario essenzialmente determinare cosa si intenda per verità. Questo, però, a nostro avviso, significa già porsi in una prospettiva relativista: perché chiedersi cosa sia la verità significa suggerire, implicitamente, che la verità sia tale in base a una definizione, il che implica, inevitabilmente, che si facciano avanti svariate definizioni, e quindi molteplici verità. La domanda essenziale, a nostro avviso, non deve essere cosa sia la verità, perché la verità si può definire, ma non la si può giustificare, così come non si possono giustificare i postulati della geometria, sui quali però si basa tutto il discorso della geometria. La verità è la corrispondenza fra la cosa e il giudizio: la vecchia definizione di san Tommaso d’Aquino basta e avanza, e non c’è pirandellismo che tenga.

 Dopo di che, si tratta di non cadere nella trappola delle interpretazioni, perché nel momento in cui si vuol non solo definire ma anche giustificare la verità, necessariamente si fa una operazione ermeneutica, il che apre la porta, ipso facto, al relativismo: equivale infatti ad ammettere che sono possibili contemporaneamente diverse verità. La verità, invece, per definizione, è una, o non è: e tutti quelli che sostengono di avere la loro verità, non sanno letteralmente quel che dicono, perché, se lo sapessero, non si renderebbero ridicoli con una affermazione così palesemente priva di senso. Questo però significa andare contro tutto ciò che la cultura moderna ci ha sempre ripetuto e martellato nella testa: ossia che bisogna diffidare di chi dice di sapere cosa sia la verità. Fra Gesù Cristo, che dice di essere venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità, e Ponzio Pilato, che gli replica chiedendo cosa sia la verità, gli uomini moderni stanno istintivamente dalla parte di Ponzio Pilato (anche se magari, a parole, si definiscono cristiani, e tali credono di essere), perché questa diffidenza nei confronti della verità è diventata parte del loro Dna intellettuale, anzi, emozionale. Sentir parlare della verità, specialmente dopo i tre grandi maestri del sospetto, Marx, Nietzsche e Freud, provoca alla maggior parte delle persone, specialmente quelle semicolte e che si credono particolarmente sapienti e informate, una reazione che somiglia molto ai riflessi condizionati di Pavlov: vedono rosso, schiumano, digrignano i denti e si preparano ad attaccare e azzannare l’impostore, ossia il ribaldo, certamente malintenzionato, che afferma di sapere cos’è la verità, o che si comporta come se lo sapesse.

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La maggior parte delle persone non desidera la verità, se la verità richiede sforzi e sacrifici; preferisce vivere in uno stato d’ignoranza che equivale alla menzogna.

La vera domanda, pertanto, a nostro parere, non deve essere: che cos’è la verità?, perché il solo fatto di porsela implica il fatto di non crederla possibile. Per avere le risposte giuste, bisogna sapersi fare le domande giuste: e che cos’è la verità non è una domanda giusta, perché non è una domanda intelligente; chi la fa, la fa in mala fede. La domanda essenziale deve essere, piuttosto: a chi interessa la verità?, perché solo se esiste qualcuno che abbia a cuore la verità, il discorso sulla verità diventa un discorso positivo, razionale e dotato di senso; diversamente, è solo un esercizio di retorica e una perdita di tempo. Anche questa domanda, tuttavia, equivale a uno scontro frontale con la cultura oggi dominante: perché è un dogma del politicamente corretto credere e professare che la verità importi a tutti, che tutti la desiderino, che tutti la cerchino. E invece è proprio qui che si annida il marcio, come direbbe Amleto (c’è del marcio in Danimarca), perché Shakespeare, dietro i fronzoli di un teatro rinascimentale che tende al barocco, è uno che sa andare dritto al cuore delle cose. Il desiderio della verità è, sì, una tendenza latente nella maggior parte degli uomini; però, come tutte le cose, deve essere costantemente coltivato, sostenuto, incoraggiato, altrimenti appassisce e muore. Esso implica, infatti, per sua natura, una tensione, e quindi uno sforzo. È una tendenza contemporaneamente naturale e innaturale: naturale, perché tutti, o quasi tutti, ne sentono istintivamente il bisogno, dato che senza di essa si sprofonda in un mondo caotico, fatto di apparenze e di menzogne; innaturale, perché è più naturale sedersi, riposarsi e possibilmente addormentarsi su qualche verità di comodo, senza andar tanto a scavare per giungere fino alla verità vera: quella che giace al fondo. E la maggioranza delle persone non ama la fatica, meno ancora i sacrifici o i pericoli; la maggioranza delle persone ama la vita comoda, senza crearsi tanti problemi laddove ciò non sia assolutamente indispensabile.

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 L’ignorante inconsapevole? il problema è questo: che le persone non sono disposte a credere alla verità, neppure se viene loro servita su un piatto d’argento; preferiscono accontentarsi delle loro verità, cioè delle menzogne nelle quali vivono sprofondate. Sono come dei dormienti, dei sonnambuli che non vogliono essere destati: se qualcuno li sveglia, s’infuriano contro il disturbatore della loro quiete.

Giungiamo perciò a una prima, significativa conclusione, che è ben diversa da ciò che dice e ripete la cultura dominante: la maggior parte delle persone non desidera la verità, se la verità richiede sforzi e sacrifici; preferisce vivere in uno stato d’ignoranza che equivale alla menzogna, perché non riflette la corrispondenza fra la cosa e il giudizio. Però, nello stesso tempo, la quasi totalità delle persone si picca di essere amante della verità, e pretende di fondare su di essa la propria vita: chi non si vanta di essere una persona vera, una persona autentica? Questo è un altro aspetto tipico della società moderna: la finzione generalizzata che vi sia un amore universale per la verità. È una menzogna così capillarmente diffusa, che ; e tuttavia è necessario farlo, perché l’amore della verità è fatto in primo luogo dalla testimonianza, e ciò che distingue il vero dal falso amore è la disponibilità a soffrire per guadagnarsi il diritto di esistere. Chi non è disposto a farsi lapidare per amore della verità, non crede nella verità; e se non ci crede, è meglio che smetta di parlarne e si occupi di qualcos’altro. Ora, il fatto che la pigrizia e la viltà istintive degli esseri umani tendano ad allontanarli dalla verità, perché la verità implica sforzo e sacrificio, determina una prima scrematura fra quanti sono degni della verità e quanti non lo sono. La verità bisogna meritarla: non basta dire di desiderarla, bisogna mostrarlo con i fatti. E i fatti sono che chi cerca davvero la verità, si crea ovunque dei nemici, mentre chi finge soltanto di cercarla, si fa un gran numero di amici. La cultura moderna è quindi in se stessa una cultura menzognera, perché è stata pensata ed instaurata dai philosophes e dai loro successori, i quali non sono mai stati, e non sono neppure oggi, degli amanti della verità, bensì degli amanti di quello status che viene assicurato a quanti accarezzano l’ipocrisia generalizzata, secondo la quale tutti amerebbero la verità, perché ciò li rende apprezzati e popolari e convoglia su di essi le simpatie e l’ammirazione dell’uomo comune, il mezzo sapiente e il semi-cosciente, cioè l’ignorante inconsapevole che però non sa di essere tale. Ma affinché non procediamo troppo chiuso, come direbbe Dante, proviamo a scendere su un terreno più pratico, per meglio rendere l’idea. La società moderna apprezza quegli intellettuali che dicono di amare la verità, e dicono che tutti la amano, però, di fatto, si limitano a denunciare la congiura contro la verità, e danno a intendere che tutti gli uomini, se fosse per loro, la cercherebbero e la vorrebbero, però, poverini, ne sono espropriati da una serie di circostanze esterne che sfuggono alla loro volontà, e che devono pertanto subire. In questo modo, i nemici della verità si spostano all’esterno, sono sempre gli altri; ma ciascuno, quanto a se stesso, riceve la patente di amante della verità, e ciò lo fa sentire nobile e giusto, e accende in lui, per contro, una sacra indignazione contro quei malvagi che gli sottraggono la verità e che vanificano il suo desiderio di essa. Molto semplice e molto ben pensato: la formula ideale per essere popolari, passando per intrepidi paladini della verità, mentre si è soltanto dei parassiti che vivono sfruttando l’ipocrisia generalizzata. Qualche nome? Ma sarebbero legione; tuttavia, se proprio dobbiamo farne uno, ecco, ci sembra che Umberto Eco li compendi tutti a meraviglia: il classico pseudo intellettuale (pseudo filosofo, pseudo sociologo, pseudo romanziere, eccetera) che ha scritto decine e decine di libri per non dire assolutamente nulla, ma facendo credere a tutti di aver detto grandi cose, e, soprattutto, di aver demistificato i bugiardi, il che è pur sempre un utile contributo, sebbene indiretto, alla sacra battaglia in difesa della verità. Eppure tutta la sua opera è un’unica, sfrontata bugia: nascondendosi dietro il dito che la verità è relativa, ha dato un contributo notevole al trionfo della menzogna sulla verità. Eppure, chi più di lui si è scagliato con sacra indignazione contro maghi, ciarlatani, complottisti, esoteristi e imbroglioni d’ogni sorta? È tipico del philosophe di matrice illuminista: se la prende sempre con un avversario visibile, ma debole; e mentre sta dalla parte dei poteri forti, assume però l’aria intrepida del coraggioso campione della verità. Un altro esempio è il fotografo Oliviero Toscani. Chi più di lui si è speso a favore di una società multietnica, multiculturale, aperta, tollerante, solidale? I suoi modelli di ogni età, di ogni razza e di ogni sesso (chi vuol capire, capisca) hanno educato, si fa per dire, le ultime due generazioni d’italioti. Ma è facile portare avanti quel discorso, quando si è pagati dai Benetton e si ha l’attico a New York.

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La verità, per definizione, è una, o non è: e tutti quelli che sostengono di avere la loro verità, non sanno letteralmente quel che dicono, perché, se lo sapessero, non si renderebbero ridicoli.

A chi interessa la verità?

di Francesco Lamendola
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PRIMATO DEL REALE E PENSIERO
Ma quale "Totalitarismo razionalista"? Occorre ripristinare il primato del reale sul pensiero. Il pensiero moderno pretende di dimostrare che il pensiero è un’illusione a meno che si confessi debole cioè che rinunci alla verità 
di Francesco Lamendola  

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Il male più grande che il pensiero moderno ha causato alla società e alla cultura è stato quello di aver affermato il primato del pensiero sul reale, invertendo il rapporto naturale fra i due e gettando in soffitta, nello spazio di pochi anni, una tradizione antica duemila anni. Salvo rare eccezioni, i filosofi, da quando è nata la filosofia, hanno visto nel pensiero lo strumento per esplorare il reale, ma non la garanzia della realtà di questo: non hanno mai pensato, cioè, che il pensiero garantisca l’esistenza delle cose, ma, al contrario, che l’esistenza delle cose garantisce la possibilità del pensiero. Se il mondo sussiste, non è perché c’è il pensiero; il pensiero invece esiste perché c’è il mondo. Questa è stata la base di ogni sana filosofia, dai presocratici al rinascimento. Poi, nel 1600, arriva la cosiddetta rivoluzione scientifica, arrivano i Cartesio, i Galilei, i Bacone, gli Spinoza, i Leibniz, i quali, per quanto possano essere in disaccordo fra loro su delle singole questioni, condividono però l’orizzonte complessivo, quello che gli storici della filosofia chiamano l’avvento del razionalismo. Da quel momento, la filosofia capovolge letteralmente la sua prospettiva e opera una “rivoluzione copernicana”, che, in una progressione graduale, ma irresistibile, spazzerà via, uno dopo l’altro, tutti i puntelli del pensiero realista, per sostituirli con un razionalismo sempre più esasperato. Il culmine di questo processo arriverà due secoli dopo, con l’idealismo e con la pretesa di Fichte, Hegel e Schelling che non sia l’essere a creare il pensiero, ma il pensiero a creare l’essere. Oltre questo limite non si poteva andare, e infatti non si è andati; si poteva però fare ancora molta strada sulla via della distruzione della concezione realista, e la si è fatta, con tenacia, con perseveranza, si direbbe con zelo. Si potevano mettere in dubbio o far cadere gli ultimi capisaldi del realismo: primo fra tutti, l’io della coscienza, caposaldo al quale neppure Cartesio aveva voluto rinunciare, anzi, che il filosofo francese aveva posto a garanzia del conoscere, e perfino dell’essere. Ma se nulla, di ciò che è reale, è come appare; se nulla può essere accertato in senso assoluto, ma solo pensato in via teoretica; se quello che conta non è che le cose abbiano un senso, ma che abbia un senso il discorso sulle cose; se, infine, nessuno può dire che noi siamo, ma soltanto prendere atto che in quello che diciamo “io” vi è un fascio di idee e di associazioni mentali, oltre le quali nessuno può dire se esista davvero il noumeno, la cosa in sé: allora, chi può dire con certezza se non viviamo, come a un certo punto azzarda Shakespeare ne La Tempesta, all’interno di un sogno, in un mondo fatto della stessa, impalpabile sostanza di cui sono fatti i sogni? Chi può garantire qualsiasi cosa, tranne ciò che si può empiricamente constatare, ma solo nell’istante presente e alle condizioni presenti, e ciò che è incontrovertibilmente certo sul piano della logica, in particolare della logica matematica, ma non lo è affatto sul piano di quella che siamo soliti chiamare la realtà concreta?

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Sarebbe ora di prendere atto che il pensiero moderno è, di fatto, un anti-pensiero; che rende impossibile pensare qualcosa di positivo. Anti-pensiero che, infatti, nell’ultimo mezzo secolo, non ha saputo far molto di meglio che decostruire tutti i sistemi di verità e di certezza e affermare la propria debolezza costituzionale, la propria congenita impotenza, però con la sciocca petulanza di chi ha fatto chi sa mai quale sublime scoperta, solo perché si è specializzato nel fare le pulci a tutti gli altri.

Tutto diventa opinabile, tutto diventa aleatorio, tutto diventa soggettivo; ogni cosa sfuma, si allontana, si perde in una nebbia, in una dimensione “altra”, che si sottrae ai nostri sforzi conoscitivi, che si nega al  nostro desiderio di verità. Nulla è come sembra e di nulla si può avere alcuna certezza, tranne che del qui e ora: tale sembra essere il punto d’arrivo del pensiero contemporaneo. Che, infatti, nell’ultimo mezzo secolo, non ha saputo far molto di meglio che decostruire tutti i sistemi di verità e di certezza e affermare la propria debolezza costituzionale, la propria congenita impotenza, però con la sciocca petulanza di chi ha fatto chi sa mai quale sublime scoperta, solo perché si è specializzato nel fare le pulci a tutti gli altri. Valga per tutti l’esempio del cosiddetto “pensiero debole” e la vastissima, frivola e inutile opera di Umberto Eco: una monotona, ossessiva, esasperante ripetizione dello stesso concetto: le cose si possono ridurre a segni, la realtà vera non è quella che, ingenuamente, ci suggeriscono i sensi, ma quella a cui decidiamo di dare un determinato significato; se cambiano il valore dei segni, cambiano la realtà. Si tratta di un giochino così ingegnoso, che Eco ha dedicato la sua intera esistenza a smontarlo e rimontarlo all’infinto, in combinazioni innumerevoli, per far vedere quanto era bravo; ma è un gioco a somma zero, e infatti si riduce all’assunto che le cose sono nomi. Così, dal razionalismo si passa alla logica del linguaggio, e infine al nominalismo. Noi non abbiamo a che fare con le cose, ma con i segni; e al posto delle cose, ci troviamo alle prese con dei semplici nomi.

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Se il mondo sussiste, non è perché c’è il pensiero; il pensiero invece esiste perché c’è il mondo. Questa è stata la base di ogni sana filosofia, dai presocratici al rinascimento. Poi, nel 1600, arriva la cosiddetta rivoluzione scientifica e con essa l'avvento del razionalismo.

Le conseguenze del totalitarismo razionalista, perché di questo si tratta, sono state enormi, non solo nel campo del pensiero, ma in tutti i campi della vita, dall’economia all’arte. L’economia è stata gradualmente soggiogata dalla finanza: non più dai beni che possono essere rappresentati dal denaro, ma dal denaro, cioè da un segno convenzionale, che rappresenta i beni, e alla fine dal segno slegato completamente dai beni, cioè dal mondo delle cose. La finanza odierna è il regno dell’astrazione: sposta gigantesche somme di denaro che non esiste, ma che tuttavia esercita un dominio assoluto, insindacabile, tirannico, sui beni reali e sulle persone fisiche, le quali non hanno mai visto, né sperimentato i fiumi di ricchezza che sono nelle mani delle grandi banche, ma che non trovano alcuna corrispondenza con il mondo reale, e tuttavia vi si debbono sottomettere. Se su un pezzo di carta c’è scritto che un piccolo risparmiatore deve pagare un certo interesse mensile alla banca per il prestito a suo tempo ottenuto, ebbene il risparmiatore deve pagare in moneta reale, cioè corrispondente ad un pari quantitativo di beni o servizi; mentre nessuno va a verificare se la banca possiede davvero il denaro che dice di avere, in base alla convenzione dei titoli e delle azioni, che sono astrazioni pure e semplici. Nel campo dell’arte, si passati gradualmente da una descrizione delle cose reali ad una rappresentazione sempre più astratta di esse, anzi, ad una rappresentazione sempre più astratta di ciò che le cose suscitano nel soggetto a livello di emozioni. Si prenda un romanzo come Ulisse di Joyce: la realtà vi si attenua, vi si scioglie e si smaterializza, per cedere il posto alle associazioni mentali del protagonista, che “filtra” la realtà in maniera del tutto personale e imprevedibile. Non c’è più un criterio di certezza, non c’è più un criterio di verità e non c’è più un criterio di sanità mentale. I pensieri di un dormiente valgono quelli di un uomo sveglio; i pensieri di un pazzo, valgono quelli di un uomo lucido e sano. Che cos’è la pazzia, del resto, dicono i philosophes del XX secolo, tipo Foucault, se non una malvagia invenzione della società borghese, per sua natura repressiva e nemica della libertà e della spontaneità dell’individuo? Il signor Basaglia porterà questa brillante intuizione alle sue logiche conseguenze pratiche e farà chiudere i manicomi, ragion per cui viene tuttora ricordato come un eroe del nostro tempo, un liberatore degli oppressi. Oppure prendiamo il cinema: per quale strana pretesa lo spettatore dovrebbe pretendere che un film sia comprensibile, che segua un filo logico, che si attenga al principio di realtà? Macché: tutte superstizioni del tempo antico. In film come L’angelo sterminatore di Buñuel non si capisce nulla, e così deve essere: la pretesa di capire è una pretesa reazionaria, bigotta e irragionevole. Il razionalismo ha concluso la sua parabola e divora se stesso.Come ha osservato Corrado Gnerre, l’affermarsi del pensiero razionalista nella sfera estetica ha pervertito gradualmente l’idea dell’arte bella nella pratica dell’arte brutta. L’arte moderna è brutta, sempre più brutta, perché, a un certo punto, rinuncia a rappresentare le cose e incomincia a rappresentare le nostre impressioni soggettive di esse. Se per me il giardino che si vede dalla finestra del mio studio è un groviglio di linee spezzate, di curve tortuose, di cerchi e di triangoli, di colori disarmonici, di figure indistinguibili, ebbene chi sei tu per giudicarmi, per dirmi che questa non è arte, che non è una legittima rappresentazione della realtà come io la vedo e la percepisco? Lo stesso discorso vale per Il battello ebbro di Rimbaud: la realtà non è quella che è, ma quella che a me pare che sia, fosse pure un “viaggio” nei paradisi artificiali della droga. E le cose sono arrivate al segno che qualunque tentativo di tornare all’idea e alla pratica tradizionale dell’arte viene guardato con ironia e con sovrano disprezzo, ignorato dalla critica, boicottato dagli editori, dagli impresari delle gallerie e dai produttori cinematografici.

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Oggi non c’è più un criterio di certezza, non c’è più un criterio di verità e non c’è più un criterio di sanità mentale. I pensieri di un dormiente valgono quelli di un uomo sveglio; i pensieri di un pazzo, valgono quelli di un uomo lucido e sano.

Sarebbe ora, pertanto, di prendere atto che il pensiero moderno è, di fatto, un anti-pensiero; che rende impossibile pensare qualcosa di positivo, perché, se si accetta il paradigma del quale è l’espressione, nulla si può dire di certo, tanto meno in senso generale; che, di conseguenza, si è lasciato cadere il discorso sull’essere, che è il discorso filosofico sul quale si regge qualsiasi altro discorso. Bisognerebbe anche avere il coraggio di trarre le conclusioni pratiche dalla presente tirannia del razionalismo, che ha condotto all’economia finanziaria e speculativa, da un lato, e all’arte astratta e informale, dall’altro (solo per citare due fra i casi più vistosi; ma si potrebbe allargare il discorso a tutto il resto, dalla televisione allo sport, e dalla scienza alla religione). Il fatto è che l’anima non può vivere senza la verità, così come non può vivere senza la bellezza. E anche se la verità fosse solo una speranza, perché, di fatto, è difficile giungervi, o vi si giunge solo imperfettamente, l’idea che essa esiste, al di sopra delle opinioni contingenti e delle impressioni contraddittorie, è di fondamentale importanza per assicurare alla vita umana un orizzonte di senso. Allo stesso modo, può darsi che la bellezza sia qualcosa di opinabile e di perennemente incompleto e imperfetto, nondimeno gli uomini hanno bisogno di sapere che essa esiste, che non è una mera astrazione, che non è una semplice illusione, perché solo se essa esiste, ha un senso che le cose siano ordinate verso la bellezza. Bellezza implica ordine e armonia; bruttezza è sinonimo di caos e sproporzione. Osserviamo la natura: in essa vi sono una proporzione, un’armonia, e quindi una bellezza innegabili, dal fiore di campo alle più immense e remote galassie che brillano in una chiara notte stellata. E se ingrandiamo il fiore al microscopio elettronico, o se osserviamo la nebulosa per mezzo di un potente radiotelescopio, quel che vediamo sono un ordine, una proporzione, un’armonia ancor maggiori di quelle che potevamo apprezzare a occhio nudo; sempre più delicati, sempre più perfetti. Così come sono armoniose le formule matematiche mediante le quali si può esprimere la realtà biologica del fiore, o la realtà chimica dei corpi celesti. Questo significa che il bisogno di bellezza fa parte della natura umana, così come ne fa parte il bisogno di verità. Per quanto ardua possa essere la ricerca della verità, l’istinto ci dice che la verità esiste: altra cosa è affermare che la possiamo cogliere sino in fondo. Il mondo materiale è il regno delle cose parziali, contingenti, imperfette; ma ciò di cui ha sete l’anima nostra è un regno nel quale tutto è come deve essere, secondo un’armonia perfetta, una bellezza intramontabile.

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Arti, cinema, finanza e totalitarismo razionalista? Il razionalismo ha concluso la sua parabola e divora se stesso. Il suo affermarsi nella sfera estetica ha pervertito gradualmente l’idea dell’arte bella nella pratica dell’arte brutta. La finanza odierna ne è un'altro esempio: essendo diventata "il regno dell’astrazione" e della manipolazione dei poteri a danno dei popoli.

Proviamo a riflettere. La verità è la corrispondenza fra la cosa e il giudizio. Ma il giudizio di chi? È chiaro che nessuna mente umana possiede una lucidità tale da cogliere quella corrispondenza al 100%. Solamente Dio possiede uno sguardo così acuto, così perfettamente trasparente. Le menti umane devono accontentarsi di una verità imperfetta, perché imperfetto è tutto ciò che appartiene a questo mondo, pensiero compreso. Questo, però, non ci autorizza a disprezzarlo, da un lato, e nemmeno ad assolutizzarlo, dall’altro. Esaltandolo al di sopra delle sue possibilità, i razionalisti hanno finito per distruggerlo, perché hanno fatto emergere, impietosa, la distanza abissale che separa le sue smisurate pretese dalle sue effettive possibilità. Il razionalismo diventa empirismo, e alla fine scetticismo, da un lato (la parabola da Locke a Hume), dall’altro diventa logica formale o analisi del linguaggio (la parabola da Russell a Wittgenstein): ma in nessun caso mantiene le sue promesse, sempre finisce per dare molto meno di quel che aveva lasciato sperare. È evidente che ci troviamo in un vicolo cieco, e che, non potendo andare avanti, invece di insistere a dar testate nel muro, sarebbe cosa di buon senso ritornare indietro sui propri passi, e cercare il punto del sentiero in cui abbiamo sbagliato e siamo andati fuori strada. E il punto è quello in cui la filosofia moderna ha dato la precedenza al pensiero rispetto al reale, e ha fatto dipendere il reale dalla garanzia che, di esso, poteva dare il pensiero. È stato un pessimo affare, perché, dopo averci fatto intravedere la possibilità d’immensi guadagni, ci ha lasciati in piena bancarotta, fra le macerie delle nostre illusioni perdute e, per soprammercato, intristiti dal dilagare di una bruttezza sempre più sfacciata, si potrebbe ormai dire programmatica. Per esser accettata come arte, oggi un’opera deve disprezzare la bellezza delle cose e perdersi negli astratti furori dell’inesprimibile: paradossalmente, l’arte moderna pretende di far vedere che non si può più dipingere un quadro, né scrivere un romanzo, né comporre una poesia. Analogamente, il pensiero moderno pretende di dimostrare che il pensiero stesso è un’illusione, a meno che si confessi debole, cioè che rinunci alla verità. Ma un pensiero che non mira alla verità, né si sforza di stabilire la giusta corrispondenza fra la cosa e il giudizio, non è più pensiero: è un’altra cosa; come un’arte che rinunci alla bellezza, non è più arte. Per questa via, si sta davvero realizzando la distopia di Umberto Eco: noi non abbiamo più a che fare con le cose, ma coi nomi che abbiamo dato loro. Questa, però, non è una situazione normale: se ci stiamo adattando, è perché stiamo facendo come quei pesci che si adattano a vivere in un lago avvelenato. Per sopravvivere siamo diventati mostruosi. Tuttavia, non sarebbe meglio ripulire il lago dai veleni?

Occorre ripristinare il primato del reale sul pensiero 
di Francesco Lamendola

II - PUBBLICITA’ REGRESSO

Riflettiamo troppo poco sulla verità in un mondo nel quale un unico sistema di potere possiede le tecnologie informatiche e i mezzi di comunicazione; può dunque determinare tutti i fini ridotti a uno, il profitto unito al dominio 
di Roberto Pecchioli   

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L’attivazione dei sensi da parte della pubblicità privilegia le sensazioni immediate, “facili”, l’immagine deve superare la parola e ancor più ciò che è scritto. Trionfa un voyeurismo di massa che si accontenta della superficie ma pretende immagini sempre più forti, colori più intensi, sensazioni istantanee. Tutto ciò allontana il pensiero, la critica, il giudizio, per i quali vengono abolite le parole, come disseccate, e i concetti relativi, chiusi nello sbadiglio museale dei dizionari. Il telefono cellulare prima, lo smartphone poi hanno aggravato l’afasia per impoverimento del vocabolario, attraverso l’uso di sigle, acronimi, pittogrammi come gli “emoticon”. Il nome emoticon richiama l’emozione. Sembra questa l’esigenza primaria dell’uomo contemporaneo. Non più sentimenti o stati d’animo, duraturi, forti, pensati, ma semplici emozioni, stati psichici affettivi momentanei consistenti nella reazione a percezioni o rappresentazioni.
La sequenza delle emozioni forma il nuovo senso della vita, ma esse sono in gran parte provocate, indotte, eterodirette. Dunque, sono quelle e non altre in base agli scopi di chi le ha determinate. Nel caso della pubblicità, assistiamo alla caduta delle difese razionali, dei limiti e dei sentimenti morali, alla distruzione del Super Io. Le immagini sollecitano reazioni legate alla sfera del piacere, innanzitutto sessuale, le voci alternano toni euforici a accenti melliflui, intonazioni ipnotiche a espressioni soddisfatte; le frasi, elementari, hanno il compito di accompagnarci rapidamente nell’universo del desiderio anticamera della felicità. I panorami sono sempre belli, gradevoli, monumenti e opere d’arte diventano fondali, “location” per promuovere la forma merce, tutti sono felici, ben vestiti, sani, tranne gli esclusi, i paria, gli intoccabili, coloro che non seguono la giusta via acquistando quel prodotto, trascinando una vita non conforme. Costoro sono rappresentati come brutti, ingrugniti, infelici. E’ una sorta di realtà modificata, in cui vige l’adaequatio rei et publicitatis, una corrispondenza indotta tra realtà e pubblicità: bandito l’intelletto della formula di Tommaso d’Aquino.
L’atto dell’acquisto è sempre positivo, il nuovo è migliore dell’ex nuovo di ieri, invecchiato per tacito consenso e screditato dall’emozione rinnovata, una scossa elettrica per milioni di servi volontari. Chi non ha denaro, pagherà, le rate sono sempre “comode”, differite nel futuro, gli importi piccolissimi. Degli interessi si tace, se non per singoli aspetti favorevoli. Un residuo moralismo ipocrita inibisce la pubblicità al fumo, ma non sfuggono alla reclame l’alcool, le scommesse, il gioco d’azzardo che rovina le famiglie, i profilattici. La pubblicità è l’anima del commercio, tutto è merce, uomini compresi, e deve essere compravenduto, non sono ammessi limiti o zone franche. La pubblicità è l’unica anima rimasta sul mercato. La menzogna non solo vi è consentita, ma raccomandata e premiata attraverso gli istogrammi delle vendite.

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Come i ciechi di Brueghel?

Riflettiamo troppo poco sulla verità in un mondo nel quale un unico sistema di potere possiede le tecnologie informatiche e i mezzi di comunicazione; può dunque determinare tutti i fini, ridotti a uno, il profitto unito al dominio per sé, il consumo per noi senza distinguere tra vero o falso, giusto sbagliato, bene o male. La verità prende la maiuscola e cala dall’alto. E’ vero, è bene ciò che lorsignori decidono che lo sia. Il resto è silenziato, ridicolizzato o bollato con il timbro della bugia propalata ad arte dai malvagi di turno. Fake news, il cattivo è immediatamente identificato e smascherato, espulso dal consorzio civile. Un altro aspetto dell’infantilizzazione della società: per il bimbo che non ubbidisce alla mamma, nei panni del Grande Fratello globale, è sempre in agguato il lupo o l’uomo nero. 
Una volta colonizzato l’immaginario, far consumare merci, idee, comportamenti, con l’ausilio di alcune parole magiche, opportunità, libertà, scelta (!!!), è un gioco per i signori della pubblicità regresso. Ci hanno persuaso anche della gratuità di molti servizi, scacciando l’idea (altra fake news…) che se qualcosa è gratis, il prodotto venduto siamo noi. Goethe, che dal desiderio ha tratto un capolavoro universale, immaginò il suo deus ex machina negativo, Mefistofele, impegnato a comprare l’anima della vittima. Faust era assetato di piacere e di giovinezza, sì, ma anche di conoscenza. Non erano la libido, né il consumo a muovere la sua scelta. Azzerato ogni principio, obliterata ogni morale, messa da parte ogni utopia o ideologia, il Mefistofele mercatista riesce a farci pagare, indebitare, per realizzare i nostri sogni di consumo.
Ha compiuto un’impresa ancora più ardua, convincendoci che siamo noi a scegliere tra idee, prospettive, modi di vita, sistemi politici diversi. I pochi dissidenti, quel due per cento di autentici ribelli secondo Junger, non infrangono il muro di chi non si accorge che mille sono le tonalità del colore, infinite le variazioni sul tema, ma la musica è unica, uno il quadro.  E’ come tra gli scaffali del supermercato, dove tanti marchi diversi offrono nella sostanza il medesimo prodotto. L’inganno mefistofelico è giunto a farci preferire il contenitore, anzi il suo nome e il simbolo (marchio, griffe, brand) al contenuto.
Un regresso drammatico che non tocca solo l’aspetto commerciale, ma ha raggiunto la politica, la religione, l’etica, il senso dell’esistenza. Non viviamo più nemmeno in un mercato, ma in un gigantesco trust, un cartello globale. I suoi signori sanno tutto di noi, attraverso l’uso e l’incrocio dei dati che forniamo attraverso i nostri comportamenti e il traffico degli apparati tecnologici di uso quotidiano, tanto che ormai la pubblicità ci perviene personalizzata. Esattamente come basta assistere a un paio di blocchi pubblicitari di una trasmissione televisiva per capire a quale pubblico è destinata, sul nostro smartphone compaiono “consigli” indirizzati proprio a noi, esclusivamente a noi. Eppure, tutto ciò non ci atterrisce né ci indigna.
Mefistofele è stato astutissimo e ha prodotto un regresso delle nostre facoltà in cambio di un pizzico di comodità. La libertà vera, del resto, è un’idea aristocratica. In compenso, i desideri sono per tutti, e indurli, crearli, costruirli non è mai stato tanto facile, per gli iperpadroni. Si è passati dal feticismo della merce alla sua industria, abbattendo il senso morale, la coscienza infelice di Hegel. Ha vinto con altri mezzi la “furia del dileguare” nella forma dell’abolizione di ogni remora, limite e tabù. La società pubblicitaria vincente ha bisogno di eliminare ogni residuo, qualunque passato o remora che ostacoli la marcia inarrestabile del Nuovo, del Progresso, del Consumo.

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Riflettiamo troppo poco sulla verità in un mondo nel quale un unico sistema di potere possiede le tecnologie informatiche e i mezzi di comunicazione; può dunque determinare tutti i fini ridotti a uno, il profitto unito al dominio.

Per vincere, ha avuto bisogno di sconfiggere tutte le fonti di senso, le religioni, le ideologie, i principi, i sentimenti morali. Che il processo non sia neutro e abbia avuto bisogno di un’azione di lungo termine è dimostrato da un’utile strumento di giudizio, la cosiddetta finestra di Overton. Si tratta di un modello di rappresentazione delle possibilità di cambiamenti nell’opinione pubblica, che mostra come delle idee, totalmente respinte al loro apparire, possano essere poi accettate pienamente dalla società, per diventare infine legge o obbligo. Qualsiasi idea, anche la più incredibile, per potersi sviluppare ha una finestra di opportunità. In questa finestra l’idea può essere discussa, e si può apertamente tentare di modificare la legge in suo favore. L’apparire di questa idea consente il passaggio dallo stadio di “impensabile” a quello di degna di un pubblico dibattito, sino alla sua adozione nella coscienza di massa e il suo inserimento nella legge.
Non si tratta di lavaggio del cervello puro e semplice, ma di tecniche più sottili, efficaci e coerenti, tese a portare il dibattito fino al cuore della società, per fare sì che il cittadino comune si abitui a una certa idea e la faccia sua. All’inizio è sufficiente che un personaggio pubblico o politico la promuova in modo caricaturale ed estremo, e che poi il resto della classe pubblica e politica smentisca con grande foga. Ma l’idea è nata, e la danza può cominciare. Nella rappresentazione di Overton, le idee evolvono secondo sei stadi: inconcepibile (inaccettabile, vietato); radicale (vietato, ma con delle riserve); accettabile (l’opinione pubblica sta cambiando); utile (ragionevole, razionale); popolare (socialmente accettabile); legalizzazione (nella politica dello Stato).
L’uso della finestra Overton è un fondamento della tecnica di manipolazione della coscienza pubblica finalizzata all’accettazione da parte della società di idee precedentemente estranee e permette l’estirpazione dei tabù. L’essenza del metodo sta nel mutamento perseguito attraverso varie fasi, ciascuna delle quali sposta la percezione ad uno stadio nuovo dello standard ammesso fino a spingerlo al limite estremo. Ciò comporta uno spostamento della finestra, ed un dibattito ben orientato permette di raggiungere la fase ulteriore.  La premessa indispensabile è la capacità di controllo dell’opinione pubblica. Non si possono conseguire risultati siffatti senza essere i titolari dei meccanismi di formazione delle coscienze: pubblicità, intrattenimento, spettacolo e, naturalmente, istituzioni.
Chiunque può verificare, assistendo in televisione a un vecchio film nelle ore meno interessanti per i pubblicitari, che i valori, i principi, le idee base, i modi di vivere vigenti e presentati come “giusti” sino a qualche decennio fa erano del tutto opposti rispetto a quelli odierni. I film, i dibattiti, gli articoli dei giornali mainstream (la schiacciante maggioranza), i discorsi dei personaggi che orientano l’opinione pubblica si muovono concordemente nella medesima direzione, quella del libertarismo estremo, del mercato sovrano, della fine della famiglia, della tolleranza acritica, dell’esaltazione di ogni novità imposta dall’apparato tecnologico, industriale e finanziario. E’ questo l’impianto di potere che chiamiamo pubblicità, volto a creare un sentire comune che trasborda la società e milioni di persone a ritenere vero, buono e giusto ciò che fino a ieri era falso, male e sbagliato. Se passano determinati messaggi e si trasformano in patrimonio dei più, non è per caso: si tratta di un’operazione studiata, costruita a tavolino, voluta per scopi di varia natura, riassunti nel termine dominio.
Tentiamo una dimostrazione a contrariis. Immaginiamo di disporre degli strumenti culturali e giuridici, del controllo dei mezzi di comunicazione e delle università. Potremmo decidere di svolgere una campagna per sconsigliare l’aborto, anche senza cambiare di una virgola le leggi vigenti. Potremmo ridicolizzare facilmente l’idea che maschio e femmina non siano una costruzione culturale, come sostiene l’ideologia del genere (gender), ma un dato di natura, ribadendo che la famiglia è formata da uomo e donna. Potremmo diffondere il principio che la sessualità debba essere esercitata in ambito coniugale, o che la privatizzazione di tutto non sia il miglior modo di organizzare l’economia. Avremmo financo la possibilità di avviare campagne con le quali si sconsiglia di credere a tutto ciò che proviene dal potere, comprese le nostre stesse idee. Non ci sarebbe difficile mettere in campo artisti, intellettuali e solidi argomenti volti a dissuadere dall’uso di droghe o alcool.  Potremmo revocare in dubbio i dogmi dell’economia e ogni altra idea dominante. In pochi anni avremmo dalla nostra la maggioranza dell’opinione pubblica.
Se il potere fa il contrario, se l’“impianto”, come lo definiva Heidegger, va in direzione opposta, è segno che esiste una volontà precisa , imposta attraverso complessi meccanismi e passaggi, più o meno quelli analizzati da Overton.  La massa, tuttavia, specie se interrogata singolarmente, portata a ragionare e prendere posizione, sente o almeno intuisce che così non va. Ma nulla cambia. Il motivo non sta solo nella potenza dispiegata dal nemico, dalla pervasività dell’apparato, ma nella più grande delle sue vittorie: aver fatto passare ciò che accade come ineluttabile, un destino, un dato di natura previsto dal Progresso, confinando pensiero critico, dissenso, ribellione nel recinto dell’anacronismo e dell’ignoranza.
Occorre imparare a non credere, fondare, come esortava Giuseppe Prezzolini, una sorta di Società degli Apoti, quelli che “non se la bevono”. Nello stesso tempo, è urgente che un numero crescente di persone comprenda che il significato delle parole chiave imposto dal potere è la sua menzogna massima. Progresso, libertà, liberazione, tolleranza, democrazia, mercato, significano per lorsignori il contrario preciso di ciò che ci costringono a credere. La pubblicità, nell’accezione allargata che abbiamo tentato di esprimere, è il meccanismo principale attraverso il quale riconvertono i nostri cervelli, appropriandosene, privatizzati come tutto il resto. Se le nostre idee, scelte, gusti sono dirette da loro, significa che non siamo più proprietari di noi stessi.
Progresso è dunque regresso, libertà schiavitù. L’ illuminismo esaltò la ragione e il libero pensiero, contrapposti all’asserita dogmatica religiosa. Altri dogmi si sono sostituiti ai vecchi senza salvare l’uomo, reso più schiavo di prima: delle passioni, degli istinti e, vivaddio, dei “superiori”. Non ci stanchiamo di citare una frase del più liberale dei liberali, Friedrich Von Hajek, ne La via della schiavitù: chi possiede tutti i mezzi, determina tutti i fini. Vogliamo davvero che, attraverso tecnologia e apparato di pubblicità e propaganda, possiedano anche noi? Da antimarxisti di tutta la vita, evochiamo l’autore del Capitale. Lo schiavo di oggi, non diversamente dal proletario del secolo XIX, non ha da perdere che le proprie catene. Il problema è che è non sa di averle. La pubblicità, la società dello spettacolo, la grande macchina la cui anima è l’abolizione della verità, affermano che è libero come non lo è mai stato. Pubblicità regresso, ingannevole, abuso della credulità popolare.  

II - PUBBLICITA’ REGRESSO. I LIBERI SCHIAVI.

di Roberto Pecchioli Seconda parte


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Del 18 Agosto 2018

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