Anche l’abito liturgico fa il monaco. Ovvero: perché la Casa di Dio non va spogliata
“È necessario acquisire il senso della Liturgia come azione di Cristo e della Chiesa e non come un atto privato. Per questo nessuno, anche se sacerdote, può mutare, aggiungere o togliere elementi propri della liturgia stabilita dalla Chiesa ed edita nell’editio typica“.
Don Enrico Finotti, del quale ci siamo già occupati per i suoi precedenti libri Il mio e il vostro sacrificio e Se tu conoscessi il dono di Dio, scende nuovamente in campo a difesa della liturgia (anzi della Liturgia, con la L maiuscola, come scrive lui) e lo fa con Nell’attesa della tua venuta. Il liturgista risponde, edito anche questa volta da Chorabooks, la casa editrice animata dal maestro Aurelio Porfiri.
Nato a Rovereto, classe 1953, presbitero dell’arcidiocesi di Trento dal 1978, don Finotti, curatore della rivista Liturgia: culmen et fons e autore di numerose pubblicazioni, è un innamorato della liturgia e, ciò che più conta, riesce a far innamorare anche i suoi lettori.
In questo terzo volume la formula è, come nei precedenti, quella delle risposte ad alcune domande poste dai fedeli, il che evita i voli pindarici e le riflessioni un po’ astruse, permettendo a don Finotti di andare al cuore dei problemi
Sentite, per esempio, che cosa dice a proposito della pastorale giovanile, uno dei terreni di conquista preferiti dai barbari (definizione mia, non di don Finotti) che, con il pretesto dell’animazione liturgica, fanno terra bruciata della tradizione e del culto autentico da rendere a Dio: “La ‘pastorale giovanile’ non può ammettere il capriccio e non può rimandare ad una presunta futura maturazione che non verrà mai. Se non si inizia subito ad introdurre i bambini e i giovani nell’esperienza delle leggi rituali e liturgiche, atte ad educare alla spiritualità, alla proprietà, alla vera devozione, domani avremo un popolo di Dio estraneo alle leggi fondamentali della vita interiore e del culto liturgico”. Applausi!
Moltissimi gli argomenti raccolti in questo terzo volume (dalla Via Crucis alle preghiere dei fedeli, da certe versioni “innovative” del Credo alla veglia pasquale, dalla cremazione all’inchino del capo all’Et incarnatus est), ma qui ci vogliamo concentrare sull’uso dei paramenti preziosi e alla “lode” che don Finotti innalza ai sacristi, grazie ai quali in molte nostre chiese ancora si conservano pezzi di grandissimo valore artistico e spirituale.
Purtroppo però, annota sconsolato l’autore, non pochi paramenti sacri “sono stati lasciati deperire, altri smontati per fare casule moderne, o comunque abbandonati e non più usati”. Perché? Tante le cause: incuria, trascuratezza, ignoranza. Ma una cosa è certa: “Il Concilio, come si vorrebbe far passare, non ha nel modo più assoluto comandato o consigliato l’abbandono dei paramenti storici, anzi ne ha sollecitato il restauro e la conservazione”.
È vero che il Concilio, nel proporre un criterio per la confezione degli abiti liturgici nuovi, raccomanda “una nobile bellezza” e di non ricercare “una mera sontuosità”, tuttavia “la nobile semplicità non significa pauperismo, minimalismo e mediocrità, ma piuttosto l’opposto”. Infatti, “gli abiti liturgici devono essere nobili nella qualità dei materiali, nelle forme e nell’ornato. Non più prodotti seriali a basso prezzo e con fogge dozzinali e sommarie, ma abiti di qualità e spessore artistico”.
Gli abiti liturgici, in quanto tali, devono avere una loro funzionalità, ma senza mai dimenticare anche lo scopo di rivestire degnamente i ministri sacri. “Occorre perciò un gusto specifico e una attenta formazione liturgica, sia per confezionare, sia per scegliere un campionario di valore”.
“Forse è giunto il tempo – afferma don Finotti – di dotare le nostre sagrestie di apparati veramente nobili, che per la loro proprietà possano varcare le mode passeggere ed essere ancora apprezzati e usati dai posteri. In tal modo si spende bene e si crea buon gusto e cultura liturgica elevata. In questo orizzonte i paramenti antichi non solo ci mettono in comunione con le generazioni cristiane che ci hanno preceduti, dimostrando il genio artistico dei secoli e proclamando la continuità con la Liturgia di sempre, ma ci sono maestri in ordine alla proclamazione del primato di Dio nella Liturgia. Essi affermano l’altissima dignità del ministro sacro, soprattutto quando in timore e tremore accede all’altare e compie il Sacrificio, agendo in persona Christi”.
I paramenti preziosi possono metterci a disagio solo se abbiamo “una visione riduttiva del sacerdote”. Se vediamo in lui un semplice animatore di assemblea non riusciamo a capire il perché di ricoprirlo di indumenti speciali. Invece, se siamo consapevoli del senso del sacro e “dello stare alla presenza del Mistero e dell’incedere adorante nel santuario davanti alla divina Maestà”, ecco che l’intero complesso dei paramenti ci appare per ciò che è: una delle modalità con le quali la Chiesa rende onore e gloria a Dio aiutando i fedeli a fare altrettanto attraverso la partecipazione all’azione liturgica.
Ecco perché i paramenti classici sono importanti. Ed ecco perché, di conseguenza, è necessario verificare lo stato della loro conservazione e, quando è il caso, procedere con gli adeguati restauri, ma soprattutto è importante che i paramenti siano usati nelle occasioni dovute. Essi “non sono, né sono mai stati, abiti quotidiani, ma paramenti per le celebrazioni solenni”. Pertanto “la Settimana santa, il Triduo pasquale, le domeniche di Pasqua e le solennità dell’Ascensione e di Pentecoste sono giorni quanto mai propri per indossare questi apparati e far percepire al popolo cristiano la grandezza dei misteri celebrati e anche l’alto tenore della fede dei nostri padri e della storia religiosa delle nostre comunità, anche piccole”.
I parroci sotto questo profilo hanno una responsabilità alla quale non devono sottrarsi. Da loro infatti “dipenderà la formazione di sacristi sensibili a questi valori e capaci di assolvere al loro impegno”, ma, d’altro canto, “anche la competenza, la convinzione e l’entusiasmo di molti sacristi potrà risvegliare nei loro parroci una maggiore attenzione verso un patrimonio che è del popolo di Dio e che richiede non detrattori, ma buoni amministratori”.
E che cosa rispondere a chi obietta che la Chiesa deve essere povera?
Risposta: “È vero, ma tale povertà va esercitata innanzitutto nella vita personale e familiare dei cristiani e anche in quella pastorale e istituzionale della comunità”. La liturgia e il suo decoro vanno invece “curati con la massima proprietà, fino all’ultima spiaggia, quando a malincuore, come in taluni frangenti della storia della Chiesa, si dovette soccombere alla necessità”.
Insomma, “la casa di Dio è l’ultima che va spogliata, dopo averlo fatto con le nostre case. Così ci insegnano i santi, in particolare il santo curato d’Ars”.
Tutto il contrario di ciò che spesso avviene oggi, quando troppo spesso, anziché rendere più povero ed essenziale il nostro stile di vita, ci comportiamo da consumisti e materialisti incalliti, ma pretendiamo che ad impoverirsi sia il culto da rendere a Dio.
E che cosa direbbe don Finotti davanti aagli abiti liturgici scelti per i sacerdoti che celebreranno le Sante Messe durante l’Incontro mondiale delle famiglie a Dublino? Che cosa direbbe di quelle casule dai colori pastello che evocano l’arcobaleno e di quei simboli pagani disegnati proprio al centro?
Aldo Maria Valli
Link per l’acquisto del libro:Don Enrico Finotti, del quale ci siamo già occupati per i suoi precedenti libri Il mio e il vostro sacrificio e Se tu conoscessi il dono di Dio, scende nuovamente in campo a difesa della liturgia (anzi della Liturgia, con la L maiuscola, come scrive lui) e lo fa con Nell’attesa della tua venuta. Il liturgista risponde, edito anche questa volta da Chorabooks, la casa editrice animata dal maestro Aurelio Porfiri.
Nato a Rovereto, classe 1953, presbitero dell’arcidiocesi di Trento dal 1978, don Finotti, curatore della rivista Liturgia: culmen et fons e autore di numerose pubblicazioni, è un innamorato della liturgia e, ciò che più conta, riesce a far innamorare anche i suoi lettori.
In questo terzo volume la formula è, come nei precedenti, quella delle risposte ad alcune domande poste dai fedeli, il che evita i voli pindarici e le riflessioni un po’ astruse, permettendo a don Finotti di andare al cuore dei problemi
Sentite, per esempio, che cosa dice a proposito della pastorale giovanile, uno dei terreni di conquista preferiti dai barbari (definizione mia, non di don Finotti) che, con il pretesto dell’animazione liturgica, fanno terra bruciata della tradizione e del culto autentico da rendere a Dio: “La ‘pastorale giovanile’ non può ammettere il capriccio e non può rimandare ad una presunta futura maturazione che non verrà mai. Se non si inizia subito ad introdurre i bambini e i giovani nell’esperienza delle leggi rituali e liturgiche, atte ad educare alla spiritualità, alla proprietà, alla vera devozione, domani avremo un popolo di Dio estraneo alle leggi fondamentali della vita interiore e del culto liturgico”. Applausi!
Moltissimi gli argomenti raccolti in questo terzo volume (dalla Via Crucis alle preghiere dei fedeli, da certe versioni “innovative” del Credo alla veglia pasquale, dalla cremazione all’inchino del capo all’Et incarnatus est), ma qui ci vogliamo concentrare sull’uso dei paramenti preziosi e alla “lode” che don Finotti innalza ai sacristi, grazie ai quali in molte nostre chiese ancora si conservano pezzi di grandissimo valore artistico e spirituale.
Purtroppo però, annota sconsolato l’autore, non pochi paramenti sacri “sono stati lasciati deperire, altri smontati per fare casule moderne, o comunque abbandonati e non più usati”. Perché? Tante le cause: incuria, trascuratezza, ignoranza. Ma una cosa è certa: “Il Concilio, come si vorrebbe far passare, non ha nel modo più assoluto comandato o consigliato l’abbandono dei paramenti storici, anzi ne ha sollecitato il restauro e la conservazione”.
È vero che il Concilio, nel proporre un criterio per la confezione degli abiti liturgici nuovi, raccomanda “una nobile bellezza” e di non ricercare “una mera sontuosità”, tuttavia “la nobile semplicità non significa pauperismo, minimalismo e mediocrità, ma piuttosto l’opposto”. Infatti, “gli abiti liturgici devono essere nobili nella qualità dei materiali, nelle forme e nell’ornato. Non più prodotti seriali a basso prezzo e con fogge dozzinali e sommarie, ma abiti di qualità e spessore artistico”.
Gli abiti liturgici, in quanto tali, devono avere una loro funzionalità, ma senza mai dimenticare anche lo scopo di rivestire degnamente i ministri sacri. “Occorre perciò un gusto specifico e una attenta formazione liturgica, sia per confezionare, sia per scegliere un campionario di valore”.
“Forse è giunto il tempo – afferma don Finotti – di dotare le nostre sagrestie di apparati veramente nobili, che per la loro proprietà possano varcare le mode passeggere ed essere ancora apprezzati e usati dai posteri. In tal modo si spende bene e si crea buon gusto e cultura liturgica elevata. In questo orizzonte i paramenti antichi non solo ci mettono in comunione con le generazioni cristiane che ci hanno preceduti, dimostrando il genio artistico dei secoli e proclamando la continuità con la Liturgia di sempre, ma ci sono maestri in ordine alla proclamazione del primato di Dio nella Liturgia. Essi affermano l’altissima dignità del ministro sacro, soprattutto quando in timore e tremore accede all’altare e compie il Sacrificio, agendo in persona Christi”.
I paramenti preziosi possono metterci a disagio solo se abbiamo “una visione riduttiva del sacerdote”. Se vediamo in lui un semplice animatore di assemblea non riusciamo a capire il perché di ricoprirlo di indumenti speciali. Invece, se siamo consapevoli del senso del sacro e “dello stare alla presenza del Mistero e dell’incedere adorante nel santuario davanti alla divina Maestà”, ecco che l’intero complesso dei paramenti ci appare per ciò che è: una delle modalità con le quali la Chiesa rende onore e gloria a Dio aiutando i fedeli a fare altrettanto attraverso la partecipazione all’azione liturgica.
Ecco perché i paramenti classici sono importanti. Ed ecco perché, di conseguenza, è necessario verificare lo stato della loro conservazione e, quando è il caso, procedere con gli adeguati restauri, ma soprattutto è importante che i paramenti siano usati nelle occasioni dovute. Essi “non sono, né sono mai stati, abiti quotidiani, ma paramenti per le celebrazioni solenni”. Pertanto “la Settimana santa, il Triduo pasquale, le domeniche di Pasqua e le solennità dell’Ascensione e di Pentecoste sono giorni quanto mai propri per indossare questi apparati e far percepire al popolo cristiano la grandezza dei misteri celebrati e anche l’alto tenore della fede dei nostri padri e della storia religiosa delle nostre comunità, anche piccole”.
I parroci sotto questo profilo hanno una responsabilità alla quale non devono sottrarsi. Da loro infatti “dipenderà la formazione di sacristi sensibili a questi valori e capaci di assolvere al loro impegno”, ma, d’altro canto, “anche la competenza, la convinzione e l’entusiasmo di molti sacristi potrà risvegliare nei loro parroci una maggiore attenzione verso un patrimonio che è del popolo di Dio e che richiede non detrattori, ma buoni amministratori”.
E che cosa rispondere a chi obietta che la Chiesa deve essere povera?
Risposta: “È vero, ma tale povertà va esercitata innanzitutto nella vita personale e familiare dei cristiani e anche in quella pastorale e istituzionale della comunità”. La liturgia e il suo decoro vanno invece “curati con la massima proprietà, fino all’ultima spiaggia, quando a malincuore, come in taluni frangenti della storia della Chiesa, si dovette soccombere alla necessità”.
Insomma, “la casa di Dio è l’ultima che va spogliata, dopo averlo fatto con le nostre case. Così ci insegnano i santi, in particolare il santo curato d’Ars”.
Tutto il contrario di ciò che spesso avviene oggi, quando troppo spesso, anziché rendere più povero ed essenziale il nostro stile di vita, ci comportiamo da consumisti e materialisti incalliti, ma pretendiamo che ad impoverirsi sia il culto da rendere a Dio.
E che cosa direbbe don Finotti davanti aagli abiti liturgici scelti per i sacerdoti che celebreranno le Sante Messe durante l’Incontro mondiale delle famiglie a Dublino? Che cosa direbbe di quelle casule dai colori pastello che evocano l’arcobaleno e di quei simboli pagani disegnati proprio al centro?
Aldo Maria Valli
Le parole perdute di Newman (e di san Pio X)
Non è certamente questa la sede per ripercorrere la vicenda umana e spirituale di Newman, né di tornare sul primato della coscienza, e dunque della verità, pensiero così centrale, e così attuale, nella sua riflessione. Vorrei puntare invece l’attenzione, sia pure in breve, su due aspetti del suo insegnamento, che si riassumono in altrettante parole assai desuete: la prima parola è battaglia e la seconda è dogma.
Opporsi al mondo
Un’affermazione di Newman, contenuta dei Sermoni, mi ha sempre colpito: «È compito specifico del cristiano opporsi al mondo».
Un’asserzione alquanto netta, non c’è che dire. E forse avventata, almeno per la nostra sensibilità odierna. Noi infatti, e intendo anche noi cattolici, siamo ormai abituati a ragionare in termini di dialogo con il mondo, al più di «confronto», ma mai di opposizione.
Newman invece ci riporta a una realtà dimenticata. La vita del cristiano è una battaglia. Come in tutte le battaglie, c’è un nemico al quale opporsi e poiché nel mondo l’azione del nemico è così penetrante e incisiva, opporsi al mondo è doveroso e necessario. Sempre che si voglia essere cristiani sul serio.
Numerose sono le pagine dedicate dal cardinale Newman all’identikit del cristiano, ma ecco qui un pensiero che fa al caso nostro: «La battaglia è il vero contrassegno del cristiano». Sì, avete letto bene: battaglia. Non ci sono scorciatoie, non c’è spazio per compromessi. Il cristiano «è un soldato di Cristo».
«Ma queste – direte – sono cose d’altri tempi: la Chiesa non parla più così» È vero. Ma mi permetterei di aggiungere: purtroppo.
La battaglia è la condizione abituale del cristiano. Ovviamente anche nei confronti di se stesso. Sentite ancora Newman: «Se avete domato interamente il peccato mortale, non vi resta che aggredire i peccati veniali in voi; non c’è scampo, altro non rimane da fare, posto che siate soldati di Gesù Cristo».
Non a caso, alla fine della vita, l’apostolo Paolo dice: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede» (2 Tm 4,7).
Forse il dono più velenoso che si può fare al cristiano consiste nel fargli perdere questa dimensione, che è letteralmente agonistica, per trasformarlo in un’anima perennemente accogliente e dialogante, ovviamente sulla base di un acconcio discernimento.
Necessità del dogma
E ora la seconda parola: dogma.
Una volta, parlando di Newman, l’allora cardinale Joseph Ratzinger (se lo si vuole leggere interamente si può andare nel sito www.oratoriosanfilippo.org, dove c’è la traduzione della relazione tenuta da Ratzinger nel centenario della morte di Newman durante un simposio organizzato dal Centro degli Amici di Newman il 28 aprile 1990) spiegò che nel cammino di conversione di Newman un passo decisivo fu il superamento del soggettivismo a favore di una concezione del cristianesimo fondata sul dogma.
Dogma? Ecco qua un’altra parola oggi quasi impronunciabile.
Ma sentiamo Ratzinger: «A questo proposito trovo sempre grandemente significativa, ma particolarmente oggi, una formulazione tratta da una delle sue prediche dell’epoca anglicana. Il vero cristianesimo si dimostra nell’obbedienza, e non in uno stato di coscienza. “Così tutto il compito e il lavoro di un cristiano si organizza attorno a questi due elementi: la fede e l’obbedienza; egli guarda a Gesù (Eb 2, 9) e agisce secondo la sua volontà. Mi sembra che oggi corriamo il pericolo di non dare il peso che dovremmo a nessuno dei due. Consideriamo qualsiasi vera e accurata riflessione sul contenuto della fede come sterile ortodossia, come astruseria tecnica. Di conseguenza facciamo consistere il criterio della nostra pietà nel possesso di una cosiddetta disposizione d’animo spirituale” (J.H. Newman, Parochial and Plain Sermons, II)».
Priorità dello zelo sulla benevolenza
E aggiungeva il futuro papa Benedetto XVI: «A questo riguardo sono diventate per me importanti alcune frasi prese dal libro Gli Ariani del IV secolo, che invece a prima vista mi erano sembrate piuttosto sorprendenti: il principio posto dalla Scrittura a fondamento della pace è “riconoscere che la verità in quanto tale deve guidare tanto la condotta politica che quella privata e che lo zelo, nella scala delle grazie cristiane, aveva la priorità sulla benevolenza”. È per me sempre di nuovo affascinante accorgermi e riflettere come proprio così e solo così, attraverso il legame alla verità, a Dio, la coscienza riceve valore, dignità e forza».
Mi fermo qui. Mi sembra ce ne sia a sufficienza per una salutare riflessione in questi nostri tempi nei quali la Chiesa appare tanto affascinata dalla benevolenza data e ricevuta.
Permettetemi soltanto di ricordare che domani, 21 agosto, la Chiesa ricorderà san Pio X, Giuseppe Sarto, papa dal 1903 al 1914, il pontefice della Pascendi (l’enciclica sugli errori del modernismo, «sintesi di tutte le eresie»), del Catechismo maggiore e di quel Catechismo della dottrina cristiana nel quale a un certo punto (n. 266), con la tipica (e utilissima) formula della domanda e della risposta, troviamo scritto: «Possono essere veramente felici quelli che seguono le massime del mondo? Quelli che seguono le massime del mondo non possono essere veramente felici, perché non cercano Dio, loro Signore e loro vera felicità; e così non hanno la pace della coscienza, e camminano verso la perdizione».
Aldo Maria Valli
Opporsi al mondo
Un’affermazione di Newman, contenuta dei Sermoni, mi ha sempre colpito: «È compito specifico del cristiano opporsi al mondo».
Un’asserzione alquanto netta, non c’è che dire. E forse avventata, almeno per la nostra sensibilità odierna. Noi infatti, e intendo anche noi cattolici, siamo ormai abituati a ragionare in termini di dialogo con il mondo, al più di «confronto», ma mai di opposizione.
Newman invece ci riporta a una realtà dimenticata. La vita del cristiano è una battaglia. Come in tutte le battaglie, c’è un nemico al quale opporsi e poiché nel mondo l’azione del nemico è così penetrante e incisiva, opporsi al mondo è doveroso e necessario. Sempre che si voglia essere cristiani sul serio.
Numerose sono le pagine dedicate dal cardinale Newman all’identikit del cristiano, ma ecco qui un pensiero che fa al caso nostro: «La battaglia è il vero contrassegno del cristiano». Sì, avete letto bene: battaglia. Non ci sono scorciatoie, non c’è spazio per compromessi. Il cristiano «è un soldato di Cristo».
«Ma queste – direte – sono cose d’altri tempi: la Chiesa non parla più così» È vero. Ma mi permetterei di aggiungere: purtroppo.
La battaglia è la condizione abituale del cristiano. Ovviamente anche nei confronti di se stesso. Sentite ancora Newman: «Se avete domato interamente il peccato mortale, non vi resta che aggredire i peccati veniali in voi; non c’è scampo, altro non rimane da fare, posto che siate soldati di Gesù Cristo».
Non a caso, alla fine della vita, l’apostolo Paolo dice: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede» (2 Tm 4,7).
Forse il dono più velenoso che si può fare al cristiano consiste nel fargli perdere questa dimensione, che è letteralmente agonistica, per trasformarlo in un’anima perennemente accogliente e dialogante, ovviamente sulla base di un acconcio discernimento.
Necessità del dogma
E ora la seconda parola: dogma.
Una volta, parlando di Newman, l’allora cardinale Joseph Ratzinger (se lo si vuole leggere interamente si può andare nel sito www.oratoriosanfilippo.org, dove c’è la traduzione della relazione tenuta da Ratzinger nel centenario della morte di Newman durante un simposio organizzato dal Centro degli Amici di Newman il 28 aprile 1990) spiegò che nel cammino di conversione di Newman un passo decisivo fu il superamento del soggettivismo a favore di una concezione del cristianesimo fondata sul dogma.
Dogma? Ecco qua un’altra parola oggi quasi impronunciabile.
Ma sentiamo Ratzinger: «A questo proposito trovo sempre grandemente significativa, ma particolarmente oggi, una formulazione tratta da una delle sue prediche dell’epoca anglicana. Il vero cristianesimo si dimostra nell’obbedienza, e non in uno stato di coscienza. “Così tutto il compito e il lavoro di un cristiano si organizza attorno a questi due elementi: la fede e l’obbedienza; egli guarda a Gesù (Eb 2, 9) e agisce secondo la sua volontà. Mi sembra che oggi corriamo il pericolo di non dare il peso che dovremmo a nessuno dei due. Consideriamo qualsiasi vera e accurata riflessione sul contenuto della fede come sterile ortodossia, come astruseria tecnica. Di conseguenza facciamo consistere il criterio della nostra pietà nel possesso di una cosiddetta disposizione d’animo spirituale” (J.H. Newman, Parochial and Plain Sermons, II)».
Priorità dello zelo sulla benevolenza
E aggiungeva il futuro papa Benedetto XVI: «A questo riguardo sono diventate per me importanti alcune frasi prese dal libro Gli Ariani del IV secolo, che invece a prima vista mi erano sembrate piuttosto sorprendenti: il principio posto dalla Scrittura a fondamento della pace è “riconoscere che la verità in quanto tale deve guidare tanto la condotta politica che quella privata e che lo zelo, nella scala delle grazie cristiane, aveva la priorità sulla benevolenza”. È per me sempre di nuovo affascinante accorgermi e riflettere come proprio così e solo così, attraverso il legame alla verità, a Dio, la coscienza riceve valore, dignità e forza».
Mi fermo qui. Mi sembra ce ne sia a sufficienza per una salutare riflessione in questi nostri tempi nei quali la Chiesa appare tanto affascinata dalla benevolenza data e ricevuta.
Permettetemi soltanto di ricordare che domani, 21 agosto, la Chiesa ricorderà san Pio X, Giuseppe Sarto, papa dal 1903 al 1914, il pontefice della Pascendi (l’enciclica sugli errori del modernismo, «sintesi di tutte le eresie»), del Catechismo maggiore e di quel Catechismo della dottrina cristiana nel quale a un certo punto (n. 266), con la tipica (e utilissima) formula della domanda e della risposta, troviamo scritto: «Possono essere veramente felici quelli che seguono le massime del mondo? Quelli che seguono le massime del mondo non possono essere veramente felici, perché non cercano Dio, loro Signore e loro vera felicità; e così non hanno la pace della coscienza, e camminano verso la perdizione».
Aldo Maria Valli
IL CASO RAI
Un Rosario al collo svela il delitto di lesa laicità
La giornalista Rai Marina Nalesso conduce con il Rosario al collo. E la premiata ditta Atei & giacobini strepita per il delitto di lesa laicità. Forza Marina: non ti curar di lor ma guarda e passa. Sappi che se ti fossi messa il chador quei «laici» avrebbero difeso a spada tratta il tuo diritto a manifestare il tuo credo religioso.
Vien voglia di cantare la fortunatissima canzoncina di Rocco Granata: «Marina, Marina, Marina, ti voglio al più presto sposar’…». Sì, perché Marina Nalesso, giornalista del Tg1, si permette nell’edizione pomeridiana di andare in video a dire le notizie indossando, su un tailleur grigio tortora, non una collana qualsiasi ma un pregiato rosario da cui pende un piccolo crocifisso. Figuratevi quelli dell’Unione Atei etc. Col loro strepito hanno ottenuto di far convergere l’attenzione pubblica su quel crocifisso. Neanche al papa era mai riuscito.
Eh, ragazzi, la pubblicità è l’anima del commercio. Parlatene, parlatene, qualcosa resterà. La vicenda del crocifisso della Nalesso dovrebbe, nella mente dei suoi accusatori, diventare il nuovo caso politicamente corretto nazionale. Come in Inghilterra, come in Svezia, dove una hostess e un’infermiera sono finite in tribunale per il loro crocifisso al collo. Ma l’Italia è quel Paese conosciuto bene dagli italiani, tranne dai gruppetti giacobini, che da due secoli, sotto etichette ogni volta diverse, si sforzano di «fare gli italiani». Infatti, grazie a Dio non siamo inglesi né svedesi e qui non gliene frega niente a nessuno di quel che la Nalesso porta al collo. Non resterà ai giacobini che la via giudiziaria: la denuncino per lesa laicità, poi si adoperino perché la causa venga giudicata da un magistrato di idee consonanti. Ci sta che la (esigua) minoranza ancora una volta imponga il suo capriccio alla maggioranza silenziosa.
Ma non è detto: in questo Paese anche i comunisti sono catto- e spendono cifre per la Prima Comunione dei loro pargoli. Non stupisce, invece, il silenzio di tomba (è il caso di dirlo) del clero e dei suoi incliti rappresentanti mediatici. «Famiglia cristiana», in effetti, ha altro di cui occuparsi, il culto di San Migrante martire. «Civiltà cattolica»? Il direttore Spadaro si è già espresso: il crocifisso non è un Big Jim (sic) da ostentare. Roma locuta est (chissà poi perché «Big Jim», boh). Tutte e due le pubblicazioni di punta del catto- italiano, il settimanale e il mensile, hanno dato addosso a Salvini, ministro dell’interno, colpevole per l’una di chiudere i porti a San Migrante, per l’altra di volere riportare il crocifisso sui muri degli edifici pubblici.
Ora, se una quidam de populo se lo mette al collo in via privata, dov’è il problema? Solo al (ristretto) club degli Atei & Agnostici etc. può venire l’orticaria. Non sanno che la Rai è da sempre lottizzata col manuale Cencelli? E poi, perché si ostinano a guardare il Tg solo al pomeriggio? Per giunta, se si va a vedere le foto, il crocifisso sul petto della Nalesso è veramente minuscolo. Viene in mente la vecchia barzelletta: una zitella chiama i vigili perché dalla sua finestra si vede l’inquilino di fronte che fa ginnastica nudo; i vigili vengono, vedono, e constatano che del reo si scorge solo il mezzo busto. Lo fanno presente alla denunciante, e quella risponde: «Sì, ma se salite sull’armadio lo vedete intero!».
Forza, dunque, Marina: non ti curar di lor ma guarda e passa. Sappi che se ti fossi messa il chador quei «laici» avrebbero difeso a spada tratta il tuo diritto a manifestare il tuo credo religioso. Ma sì, bene fanno «Famiglia cristiana» e «Civiltà cattolica» a tacere. Infatti, non spetta a loro il giudizio. Ma all’esorcista.
Rino Cammilleri
http://www.lanuovabq.it/it/un-rosario-al-collo-svela-il-delitto-di-lesa-laicita
Un Rosario al collo svela il delitto di lesa laicità
La giornalista Rai Marina Nalesso conduce con il Rosario al collo. E la premiata ditta Atei & giacobini strepita per il delitto di lesa laicità. Forza Marina: non ti curar di lor ma guarda e passa. Sappi che se ti fossi messa il chador quei «laici» avrebbero difeso a spada tratta il tuo diritto a manifestare il tuo credo religioso.
Vien voglia di cantare la fortunatissima canzoncina di Rocco Granata: «Marina, Marina, Marina, ti voglio al più presto sposar’…». Sì, perché Marina Nalesso, giornalista del Tg1, si permette nell’edizione pomeridiana di andare in video a dire le notizie indossando, su un tailleur grigio tortora, non una collana qualsiasi ma un pregiato rosario da cui pende un piccolo crocifisso. Figuratevi quelli dell’Unione Atei etc. Col loro strepito hanno ottenuto di far convergere l’attenzione pubblica su quel crocifisso. Neanche al papa era mai riuscito.
Eh, ragazzi, la pubblicità è l’anima del commercio. Parlatene, parlatene, qualcosa resterà. La vicenda del crocifisso della Nalesso dovrebbe, nella mente dei suoi accusatori, diventare il nuovo caso politicamente corretto nazionale. Come in Inghilterra, come in Svezia, dove una hostess e un’infermiera sono finite in tribunale per il loro crocifisso al collo. Ma l’Italia è quel Paese conosciuto bene dagli italiani, tranne dai gruppetti giacobini, che da due secoli, sotto etichette ogni volta diverse, si sforzano di «fare gli italiani». Infatti, grazie a Dio non siamo inglesi né svedesi e qui non gliene frega niente a nessuno di quel che la Nalesso porta al collo. Non resterà ai giacobini che la via giudiziaria: la denuncino per lesa laicità, poi si adoperino perché la causa venga giudicata da un magistrato di idee consonanti. Ci sta che la (esigua) minoranza ancora una volta imponga il suo capriccio alla maggioranza silenziosa.
Ma non è detto: in questo Paese anche i comunisti sono catto- e spendono cifre per la Prima Comunione dei loro pargoli. Non stupisce, invece, il silenzio di tomba (è il caso di dirlo) del clero e dei suoi incliti rappresentanti mediatici. «Famiglia cristiana», in effetti, ha altro di cui occuparsi, il culto di San Migrante martire. «Civiltà cattolica»? Il direttore Spadaro si è già espresso: il crocifisso non è un Big Jim (sic) da ostentare. Roma locuta est (chissà poi perché «Big Jim», boh). Tutte e due le pubblicazioni di punta del catto- italiano, il settimanale e il mensile, hanno dato addosso a Salvini, ministro dell’interno, colpevole per l’una di chiudere i porti a San Migrante, per l’altra di volere riportare il crocifisso sui muri degli edifici pubblici.
Ora, se una quidam de populo se lo mette al collo in via privata, dov’è il problema? Solo al (ristretto) club degli Atei & Agnostici etc. può venire l’orticaria. Non sanno che la Rai è da sempre lottizzata col manuale Cencelli? E poi, perché si ostinano a guardare il Tg solo al pomeriggio? Per giunta, se si va a vedere le foto, il crocifisso sul petto della Nalesso è veramente minuscolo. Viene in mente la vecchia barzelletta: una zitella chiama i vigili perché dalla sua finestra si vede l’inquilino di fronte che fa ginnastica nudo; i vigili vengono, vedono, e constatano che del reo si scorge solo il mezzo busto. Lo fanno presente alla denunciante, e quella risponde: «Sì, ma se salite sull’armadio lo vedete intero!».
Forza, dunque, Marina: non ti curar di lor ma guarda e passa. Sappi che se ti fossi messa il chador quei «laici» avrebbero difeso a spada tratta il tuo diritto a manifestare il tuo credo religioso. Ma sì, bene fanno «Famiglia cristiana» e «Civiltà cattolica» a tacere. Infatti, non spetta a loro il giudizio. Ma all’esorcista.
Rino Cammilleri
http://www.lanuovabq.it/it/un-rosario-al-collo-svela-il-delitto-di-lesa-laicita
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