ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 1 agosto 2018

La fuga dalla tradizione religiosa

Dicono addio alla messa, ma su islam e immigrati i cristiani chiedono stop

Nel Vecchio Continente i credenti sono al minimo storico, ma nella Penisola la fuga dalla tradizione religiosa è più lenta che altrove

In Germania le tappe della secolarizzazione vengono scandite dall'ufficio delle imposte. Per appartenere a una Chiesa bisogna pagare la Kirchensteuer, la tassa sulla religione, che pesa circa il 9% del carico fiscale medio e che a questo si aggiunge. Solo chi è in regola con i versamenti alla propria confessione ha diritto di ricevere i sacramenti ed essere inserito nel registro dei fedeli.
Chi non paga e non si è fatto iscrivere all'anagrafe come ateo o agnostico viene perseguito come evasore: ad accorgersene a suo tempo fu Luca Toni, il calciatore italiano per qualche stagione in forza al Bayern Monaco. Così, ogni anno in luglio, quando gli enti interessati pubblicano le statistiche sulle dichiarazioni dei redditi dell'anno precedente, per le chiese è tempo di bilanci: nel 2017, in soli 12 mesi, tra cattolici ed evangelici i fedeli sono diminuiti di 660mila unità, l'anno precedente la cifra era stata di poco inferiore. Non tutti si cancellano dagli elenchi ufficiali, magari per risparmiare o per scarso interesse. Molto semplicemente il calo è in buona parte frutto dell'evoluzione demografica: gli anziani credenti muoiono, i giovani non frequentano le chiese. A partecipare a una funzione religiosa almeno una volta al mese è il 22% della popolazione, per la pratica settimanale si scende sotto le due cifre.

È l'Europa senza Dio, in cui a segnare l'addio alla fede sono anche e soprattutto le nuove generazioni. «In tutto il continente i giovani adulti non si identificano più con la religione né la praticano», ha dichiarato Stephen Bullivant, professore di sociologia alla St. Mary's University di Londra, autore di una ricerca sulla religione degli under 30.
FEDELI CHE CONTANO
Attenti, però: il fatto che il vecchio continente sia ormai «decristianizzato» non vuol dire che sia già venuta l'ora di liquidare come irrilevante la presenza nella vita pubblica di cattolici o protestanti. Anzi, tutto il contrario. A sostenerlo è il Pew Research Center, un centro di ricerca americano specializzato in analisi sociali e demografiche. Poco più di un mese fa ha pubblicato un'indagine frutto di un mega sondaggio condotto in 15 Paesi. L'obiettivo, come sintetizzato dal titolo, «Essere cristiani oggi nell'Europa Occidentale», era quello di mettere a fuoco la presenza e i valori dei credenti nel vecchio continente. Il risultato: «La maggioranza dei cristiani europei sono ormai non praticanti, ma i loro atteggiamenti si distinguono nettamente da chi non ha affiliazioni religiose, non solo per quanto riguarda Dio e il ruolo della religione nella società, ma anche sui problemi sociali, l'atteggiamento verso l'islam e verso l'immigrazione». I cristiani, insomma, sia pure a «bassa intensità», ci sono e si notano.
Le prime cifre della ricerca (vedi anche i grafici pubblicati in queste pagine) riguardano la frequenza religiosa. E da questo punto di vita l'Italia, con un altro pugno di Paesi come Portogallo e Irlanda, si presenta come una specie di ultimo bastione della fede. Il 40% degli abitanti della penisola dichiara di andare in chiesa almeno una volta al mese. È la percentuale più alta d'Europa e a seguirci sono, appunto, il Portogallo con 35 e l'Irlanda con 34. Se si tiene conto anche dei non praticanti, in prima posizione con l'83% di cittadini che si definiscono cristiani è il Portogallo, seguito a pochi passi ancora da Irlanda e Italia a pari merito. Da notare l'abisso che ci separa da Paesi come l'Olanda (solo il 42% degli abitanti si dice cristiano), Svezia e Norvegia (52%), ma anche la posizione dell'un tempo cattolicissima Spagna, dove il livello di chi va in chiesa almeno una volta al mese è al 21%. In Italia, poi, è bassissima la percentuale di chi fa professione esplicita di ateismo o agnosticismo (il 15%), solo le solite Irlanda e Portogallo ci eguagliano mentre in Spagna il livello è doppio.
DIFFERENZA DI VALORI
La raffica di cifre non impressiona più di tanto Franco Garelli, docente di Sociologia delle religioni all'Università di Torino. «Qui si parla di frequentazione mensile, se si guarda a quella settimanale siamo anche sotto il 20%. È una pratica discontinua e sempre più culturale, una religione che viene recuperata nei momenti fondanti della vita familiare, il battesimo, il matrimonio, i funerali». Il tutto vissuto un po' all'italiana: «Rimaniamo un po' a metà strada: non abbiamo le tradizioni laiciste di altri Paesi, e allo stesso tempo l'apparenza è quella di una adesione non piena, mai vissuta totalmente».
Quanto agli atteggiamenti specifici dei cristiani, praticanti e no, la distinzione è quasi ovvia su temi come l'aborto o i matrimoni gay. Nei 15 Paesi presi in considerazione il 52% dei praticanti accetta, sia pure in alcuni casi, l'aborto legale e il 58 le nozze gay. Dati che possono sembrare rilevanti ma restano sensibilmente diversi rispetto a chi non denuncia alcuna affiliazione religiosa, fascia in cui il sì raggiunge in tutti e due i casi l'87%. Differenze importanti si riscontrano anche su temi legati al sentimento patrio, al pluralismo religioso e all'immigrazione. «I cristiani nel loro complesso tendono ad esprimere in maniera più forte il senso dell'identità nazionale», dicono i ricercatori del Pew Center. Quanto all'islam il 49% dei praticanti europei pensa che sia incompatibile con i valori nazionali (nella media della popolazione la cifra è al 32%) mentre il 40 pensa che i livelli di immigrazione debbano essere ridotti (28% tra chi non appartiene ad alcuna chiesa). Da notare che in alcuni Paesi, Italia in testa, i cristiani diffidenti nei confronti della religione maomettana e degli immigranti sono una legione. Nella Penisola il 63% dei praticanti pensa che tra noi e il mondo musulmano ci siano differenze insormontabili (29% tra i non credenti). Valori simili ai nostri si hanno in Paesi come l'Austria e la Finlandia (dove peraltro i frequentanti le chiese sono molto pochi) mentre tra i praticanti spagnoli il dato scende al 43%. L'Italia ha anche il record tra i praticanti che vogliono uno stop o quanto meno un rallentamento dell'immigrazione, il 63% (36% tra i non religiosi). Con valori paragonabili ai nostri ci seguono solo Austria, Belgio, e Danimarca. L'atteggiamento diffidente dei fedeli italiani sembra fare a pugni con molte dichiarazioni sull'accoglienza delle gerarchie ecclesiastiche. «Credo che i vertici della Chiesa conoscano bene la posizione di chi va a messa ogni domenica», commenta il professor Garelli. «E io non interpreterei questi dati come il sintomo di una mancanza di solidarietà. È più probabilmente un atteggiamento di difesa: il timore che il superamento di certe soglie di sicurezza, l'eccesso, metta in pericolo un'identità culturale legata a quella religiosa».
DEVOTI PER REAZIONE
A proposito del fenomeno la ricerca del Pew Center sottolinea l'influsso che i più recenti movimenti migratori hanno avuto sugli atteggiamenti culturali dei credenti. Sul tema si cita un professore americano, Roger Brubaker, docente all'Università di California che ha parlato di «cristianità reattiva». Il meccanismo, sostiene Brubaker, è semplice. «Molti europei anche secolarizzati hanno guardato ai nuovi immigrati e hanno detto: se loro sono musulmani, allora in qualche modo noi dobbiamo essere cristiani». Un altro studioso, il francese Olivier Roy, è stato ancora più netto: «Se l'identità cristiana dell'Europa è diventata un tema è perché il Cristianesimo come pratica e fede ha perso terreno trasformandosi in un marcatore culturale sempre di più neo-etnico». E anche da questo punto di vista la Germania è un caso. Nei mesi scorsi il governo della Baviera ha stabilito di esporre il crocifisso in tutti i luoghi pubblici. Alcuni prelati, come Rudolf Voderholzer, vescovo di Regensburg hanno salutato con gioia la decisione: «La croce è l'epitome della cultura occidentale. L'espressione di una cultura di amore e compassione». Ad avanzare riserve invece non sono stati tanto imam o rabbini, ma il cardinale di Monaco Reinhard Marx: «Concepire la croce come puro elemento culturale è un errore: è un segno di opposizione alla violenza, al peccato e alla morte, ma non un simbolo di esclusione».
Angelo Allegri 
IDEOLOGIE
L'immigrato è sacro: come ti invento il razzismo
La sinistra culturale italiana sta inventando da decenni una narrazione sul razzismo italiano. L'immigrato è il nuovo proletario sfruttato, per questo è diventato sacro e intoccabile. Ogni fatto di cronaca è un pretesto buono per alimentare questa versione dei fatti.
                                     La protesta a Trapani contro Salvini
L’emigrato è sacro e guai a chi lo tocca. Sei poi è africano, è ancora più sacro. Il presidente Mattarella, per esempio, in visita di stato in Armenia, al deporre una corona di fiori sul sacrario del genocidio insieme al presidente armeno, non imita quest’ultimo, che si fa il segno della croce, dunque nemmeno il memoriale del genocidio è per lui sacro. Però alza la voce contro l’Italia-farwest se un cretino spara ad aria compressa su una bambina nomade. Una ragazza di origine nigeriana si becca un uovo in un occhio ed ecco tutti i giornali e i tiggì fare la conta, tutte le volte che danno la notizia, di quanti neri nell’ultimo mese si sono fatti la bua per colpa dei bianchi. Sicuramente il Tg2 metterà, se continua così, il numeretto in alto a destra dello schermo, così come per i «femminicidi». Cioè, ogni volta che ci sarà un caso, ci ricorderà tutti i precedenti, in modo che gli italiani non si scordino il sacro dovere di santificare il migrante.

L’americanata del «razzismo» ha prodotto negli Usa discriminazioni al contrario, alle quali  l’odiato (non a caso) Trump sta cercando di porre rimedio. Ora, la sinistra nostrana cerca di americanizzarci anche in questo, noi che non abbiamo avuto né capanne dello zio tom né guerre di secessione. Le sinistre, eredi del giacobinismo, sono maestre nella guerra degli slogan: i loro avi  l’hanno inventata ed è il motivo per cui cercano indefesse di introdurre i loro temi ideologici nelle scuole. Le quali, dal Sessantotto in poi, sono diventate il luogo privilegiato del conformismo politicamente corretto, complice lo scarso livello critico della classe insegnante. Berlusconi, dal canto suo, fin dal 1994 commise lo stesso errore della Dc, trascurando la cultura, le arti e la scuola in un gramscismo al contrario. Perì di propaganda e demonizzazione, malgrado i voti che aveva.
Due-tre anni fa, d’estate, ero a cena in un ristorante all’aperto, a Pisa, con una coppia di amici e il loro figlio di dieci anni. La città era da sempre un feudo rosso, perciò gli ambulanti africani erano intoccabili. Cenare fuori era un tormento, ti si avventavano addosso come le cavallette, uno dietro l’altro, senza fine. Ero impegnato in una animata discussione quando arrivò il primo, insistente nel voler vendermi le sue cianfrusaglie. Gli dissi che non mi interessava, dovetti ripeterlo cinque volte, alzando vieppiù la voce. Alla fine, spazientito, mi levai in piedi e lo mandai a quel paese a male parole. Ebbene, il bambino mi diede del «razzista», e a nulla servì spiegargli  che avrei agito così anche con un ambulante italiano se fastidioso e importuno. Eh, i corsi di antirazzismo glieli avevano fatti a scuola, perciò il decenne si comportava come i cani di Pavlov. Così, la sinistra e i suoi utili idioti non devono fare altro che ribattere i loro slogan fino allo sfinimento, ansiosi come sono che un movimento razzista, dai e dai, prima o poi nasca davvero.
Né si tratta di un fenomeno solo italiano: sui giornali esteri la Lega è qualificata di «partito xenofobo», e lo stesso fanno i giornalisti italiani con tutte le destre europee; basta solo che chiedano una qualche disciplina dell’«accoglienza» e l’etichetta è già pronta. Naturalmente, come tutti sanno, per far nascere un fenomeno basta evocarlo con sufficiente reiterazione. L’iperprotezione dell’immigrato creerà fatalmente un movimento di rigetto, e allora, se prenderà i voti delle maggioranze esasperate, gli si darà del «populista» (da qual pulpito viene poi, la predica: se c’era un partito populista in Italia era il loro papà, il Pci) e lo si demonizzerà in  tutti i modi. Se prenderà altre vie, meglio: la sinistra ha un bisogno disperato di un «proletariato» da cavalcare, e se non c’è lo crea. Come da copione, quando la sinistra perde alle urne fa ricorso alla piazza: il segretario del Pd, Martina, ha appena annunciato una grande «mobilitazione» antirazzista per settembre. Pensate che dopo le ultime elezioni, le sinistre si stiano estinguendo? Errore: come si fa a comandare pur essendo una risicata minoranza glielo ha insegnato Marx, ed è una lezione che non hanno mai dimenticato. Anche perché non sanno fare altro.
Rino Cammilleri
Salvare gli immigrati, riportarli in Libia. Si può fare
La nave italiana Asso Ventotto ha riportato un centinaio di clandestini in Libia, dopo averli recuperati in mare. Proteste dalla sinistra che parla di violazione delle leggi internazionali, ma non è così: in Libia ci sono porti sicuri e gli irregolari vengono consegnati all'Onu, che provvede poi al rimpatrio.
                                      La asso Ventotto
Non era mai accaduto prima e il fatto segna certamente una svolta “storica” nella lotta contro i flussi di immigrati illegali, come dimostrano le reazioni irate e scomposte dei tanti esponenti politici e della cosiddetta società civile legati al business dei soccorsi e dell’accoglienza.
La nave italiana Asso Ventotto, basata in Libia per il supporto alle piattaforme petrolifere off-shore, ha soccorso il 30 luglio un gommone con un centinaio di clandestini a bordo. La sala operativa di Roma della Guardia Costiera ha dato indicazioni alla nave di coordinarsi con la Guardia costiera libica riportando in Libia i migranti illegali.
Fino a ieri ogni nave civile o militare non libica che raccoglieva in mare migranti li sbarcava in Italia e non era mai accaduto prima che li riportasse in Libia benchè la nostra ex colonia controlli legittimamente un’area SAR (ricerca e soccorso) impiegando anche le motovedette donate dall’Italia alla Guardia Costiera di Tripoli coordinata da una nave italiana nel porto militare della capitale  (Abu Sittah). “Un fatto senza precedenti, che avviene in violazione della legislazione internazionale che garantisce il diritto d'asilo e che non riconosce la Libia come un porto sicuro”, ha tuonato il deputato di Liberi e Uguali Nicola Fratoianni, in questi giorni a bordo della nave dell’Ong Open Arms.
Per il presidente del Pd Matteo Orfini “il governo è il mandante dell’atto illegale che è stato commesso in mare” ma il ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, ha replicato che “i migranti a bordo del gommone sono stati salvati e in tutto ciò l’Italia non c’entra, perché le operazioni sono state gestite dalla Guardia costiera libica”. Sulla questione del "porto sicuro" in Libia Toninelli ha aggiunto: "L’Unione europea ha dato mandato per la costituzione della Guardia costiera libica, il precedente governo ha dato una mano dando delle motovedette e noi faremo altrettanto. Il diritto del mare è stato rispettato. Altre versioni non esistono".
I fatti sono stati chiariti da un comunicato dell’armatore dell’Asso Ventotto, la società Augusta Offshore di Napoli, che riferisce di aver soccorso 101 migranti “sotto il coordinamento della Coast Guard libica".
Il 30 luglio, alle ore 14.30 l’Asso Ventotto era in assistenza alla piattaforma di estrazione “Sabrata” della Mellita Oli & Gas (Joint Venture tra ENI e NOC libica), a 57 miglia marine da Tripoli, 105 miglia da Lampedusa, 156 miglia da Malta e 213 miglia da Pozzallo in Sicilia.
Alle 15 l’Asso Ventotto ha ricevuto istruzioni dal Dipartimento Marittimo di Sabrata di procedere in direzione di un gommone avvistato a circa 1.5 miglia sud est dalla piattaforma, dopo aver imbarcato rappresentanti dell’Authority libica sulla piattaforma stessa.
Mezz’ora dopo la nave si è avvicinata al gommone ricevendo istruzioni dal rappresentante dell’autorità libica a bordo di recuperare i migranti e di procedere verso Tripoli.
Alle 16.30 l’Asso Ventotto aveva recuperato 101 migranti di cui 5 bambini e 5 donne incinte e un quarto d’ora dopo una motovedetta della Coast Guard libica si è affiancata alla nave italiana informando il comandante che sarebbe stato scortato fino al porto di Tripoli dove sono arrivati alle 21, trasbordando i migranti su un battello della Coast Guard libica. Il comunicato precisa che in nessuna fase dell’operazione di soccorso “non si sono verificati incidenti o proteste da parte dei migranti salvati".
La presenza della flotta della società nelle acque prossime alla costa libica ha fatto sì che tali navi siano state chiamate ad intervenire in 262 operazioni di soccorso dal 2012 al 2017 salvando 23.750 migranti e impegnando le navi per un totale di 137 giorni.
Dopo il bando delle navi delle Ong dai porti italiani e lo stop agli sbarchi di clandestini anche dalle navi militari europee, il ritorno in Libia dei migranti illegali soccorsi dall’Asso Ventotto rafforza la politica del governo italiano e gli accordi italo-libici per la lotta ai traffici di esseri umani tesa a scoraggiare i flussi.
Di fatto si tratta dei respingimenti assistiti a lungo suggeriti anche da NBQ come unica possibilità di evitare vittime in mare e scoraggiare le partenze dai paesi d’origine dei migranti, ora consapevoli che non verranno accolti in Italia ma rimpatriati direttamente dalla Libia a cura delle agenzie dell’ONU.
La vicenda dell’Asso ventotto dimostra infatti ciò che era già noto e che viene negato solo da chi ha interesse a continuare a far sbarcare in Italia ed Europa ondate di clandestini.
La Libia offre porti sicuri e anche aeroporti sicuri come dimostrano i quasi 30 mila migranti illegali rimpatriati in aereo dall’Organizzazione internazionale delle migrazioni (OIM) con voli dall’aeroporto Mitiga di Tripoli.
Da oltre un anno i migranti intercettati dalle autorità libiche vengono consegnati in territorio libico a campi d’accoglienza in cui è presente l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) e OIM che dall’anno scorso ricevono anche ingenti finanziamenti dall’Italia per sostenere le attività di accoglienza e rimpatrio nella nostra ex colonia.
La presenza in Libia delle agenzie dell’Onu rende strumentale e “politica” la denuncia dell’Unhcr che ha criticato il rientro in Libia dei migranti illegali sulla Asso Ventotto affermando che “la Libia non è un porto sicuro e questo atto potrebbe comportare una violazione del diritto internazionale”. Eppure l’Australia attua da anni respingimenti assistiti effettuati dalle sue navi militari ma non ha mai subito condanne dall’Onu.
Lo sbarco in sicurezza ad Abu Sittah dei migranti a bordo dell’Asso Ventotto conferma invece come la Libia sia in grado di gestire lo stop ai flussi illegali col supporto dell’Italia e dell’Onu. Un successo che consolida i governi di Tripoli e di Roma dimostrando che, al contrario di quanto sempre sostenuto dai precedenti governi italiani, l’immigrazione illegale si può (e si deve fermare).
Non a caso la linea dura di Roma ha indotto i trafficanti a dirottare parte dei traffici verso la Spagna il cui governo socialista pratica la stessa accoglienza indiscriminata che ha caratterizzato i governi di centro sinistra italiani.
Con una differenza sostanziale: barconi e gommoni diretti in Spagna salpano dalle coste di Marocco e Algeria che, a differenza della Libia, non sono considerati “Stati falliti” o instabili i cui governi dovrebbero subire pressioni affinché controllino meglio le proprie coste e acque territoriali.

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