ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 16 novembre 2018

Inductus in temptationem

Non abbandonarli alla tentazione di cambiare il “Padre nostro”


Il nostro Amico don Alfredo, ci ha ricordato un suo bellissimo articolo sul "Padre Nostro" e sulle spinte idealistiche che sin dal 2010 premevano per introdurre una modifica alla VI domanda della "preghiera del Signore".
Molto volentieri, se pur con molta amarezza nel cuore, lo riproponiamo oggi, all'indomani della nefasta decisione approvata dalla CEI (Assemblea Generale Straordinaria 12-15 nov. 2018) di cambiare il testo del Padre Nostro nel Messale.
Due riflessioni:
1) quindi il testo del Padre Nostro che si recita nel S. Rosario NON è stato modificato, e meno male.
2) secondo gli "ingenui" vescovi italiani, il crollo della pratica religiosa degli ultimi 50 anni è dovuta alla traduzione (fin ora sbagliata) del Padre Nostro? Sembrerebbe di sì. Bene: ora torneremo ad avere le chiese piene. Ottimo! Grande! Avanti così!
Roberto



Non abbandonarli alla tentazione di cambiare il “Padre nostro”

di don Alfredo Morselli [*]

1 - Lo status quaestionis

La traduzione classica della VI domanda del Padre nostro "non ci indurre in tentazione" è sotto il tiro di tanti critici da molti anni, ancor prima che la versione CEI del 2008 proponesse "non abbandonarci alla tentazione"; pochi giorni fa il Santo Padre Francesco ha manifestato approvazione per questo modo di tradurre [1], dando probabilmente il colpo di grazia alla versione a cui siamo abituati. E così la preghiera che Gesù ci ha insegnato è destinata a subire un cambiamento anche nei testi liturgici ufficiali in lingua italiana.
Perché questo cambiamento? Per evitare che qualcuno pensi che Dio possa positivamente indurre qualcuno in tentazione, o possa essere Egli stesso causa della tentazione.
Si tratterebbe veramente di uno scandalum mere receptum, perché è molto facile ricordare, con S. Giacomo, che “Nessuno, quando è tentato, dica: "Sono tentato da Dio"; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno” (Gc 1,13).
Sono ben altri i passi difficili, che possono turbare la coscienza dei più deboli; e, sempre in tema di una certa azione positiva e diretta di Dio nella tentazione, è molto più problematico del Padre nostro quanto troviamo in 2 Ts 2,11: “Dio perciò manda loro una forza di seduzione, perché essi credano alla menzogna”. Grazie al cielo, qui nessuno ha ancora pensato di cambiare il testo sacro.

Però è anche vero che ogni scandalo, quando è possibile, va rimosso, perché “non tutti hanno la conoscenza” e quindi “se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio fratello” (1 Cor 8, 7. 13).
Questo principio paolino, tutto informato dalla carità, va applicato anche nella traduzione dei testi sacri; a patto però di non tradire il significato del testo, di non contraffarlo; il che significherebbe scambiare la Parola di Dio con una povera parola di uomo.
E allora ci chiediamo: non abbandonarci alla tentazione è una traduzione esatta, vera, di et ne nos inducas in tentationem, che a sua volta traduce il greco kai mē eisénkēs hemâs eis peirasmón? La nuova versione corrisponde a quello che ci ha insegnato Gesù?
Mia esclusiva intenzione è la valutazione della nuova traduzione da un punto di vista filologico e grammaticale.



2 - Cosa vuol dire et ne nos inducas?

La parola greca tradotta con inducas, eisénkēs è una voce del verbo eisférô, che vuol dire fare entrare, introdurre. Cosa significa questo?
Innanzi tutto, con il Padre nostro, noi non chiediamo di non essere tentati.
Sappiamo infatti che questo è impossibile; anzi, tanto quanto vogliamo servire il Signore, tanto più saremo messi alla prova.
La Scrittura parla chiaro: “Perché tu eri accetto a Dio, bisognava che ti provasse la tentazione” (Tb 12, 13 Vg). Altrettanto affermano i Padri: “La nostra vita in questo luogo di esilio non può essere senza tentazione, perché il nostro avanzamento avviene soltanto per la tentazione. Nessuno può arrivare a conoscere se stesso finché non è tentato, né essere coronato senza aver vinto. Né vince senza combattimento; né può combattere senza che vi siano nemici e tentazioni” (S. Agostino, In Psalm. LX).
E San Leone Magno afferma: “Non si danno opere di virtù senza le prove della tentazione, né fede senza agitazioni, né lotta senza avversari, né vittoria senza combattimento. Se vogliamo trionfare dobbiamo venire alla lotta” (Serm. I, de Quadrag.).
Se dunque non si può chiedere di non essere tentati, dovremo chiedere di vincere nella tentazione; e come si consegue questa vittoria? Non entrando nella trappola diabolica (la tentazione), rimanendo nell’amore di Gesù Cristo (Cf. Gv 15).
Chi cede alla tentazione cessa di rimanere in Dio (cfr. 1 Gv 4,15), e dimora nell’atmosfera diabolica: la tentazione è la porta aperta per uscire dagli atri del Signore per ritrovarsi in un paese lontano (Cfr. Lc 15,13).
“Per me un giorno nei tuoi atrî è più che mille altrove, stare sulla soglia della casa del mio Dio è meglio che abitare nelle tende degli empi” (Sal 84,11). Peccare significa entrare, attraverso la porta della tentazione, in uno stato di vita lontano dal Signore, le tende degli empi.
Allora tutto ciò significa, forse, che con la VI domanda del Padre nostro, chiediamo al Signore di non indurci a lasciare il suo amore, la dimora in Lui, e che non ci faccia entrare nella dimora degli empi?

3 - Il sostrato semitico.

Stando a quest'ultima interpretazione, l’espressione et ne nos inducas in tentationem potrebbe essere un’occasione di scandalo ancora più pericolosa, perché sembrerebbe che Dio stesso ci possa spingere a entrare nel peccato.
A questo punto però ci viene in aiuto la grammatica ebraica e aramaica. Non dobbiamo dimenticare infatti che Gesù ha insegnato il Padre nostro non certo in greco, ma – e qui ci sono varie ipotesi – o in ebraico (nella lingua colta dei farisei: cfr. At 21,40; oppure nella lingua degli esseni di Qumram), o in aramaico (la lingua parlata in Palestina ai tempi di Gesù).
Ebbene, nelle antiche lingue semitiche esiste la forma detta causativa, per cui, con una sola parola si esprime ciò che in italiano o latino si esprime con una perifrasi.
Provo a spiegare con un esempio: forma attiva: mangiare; forma passiva: essere mangiato, forma riflessiva: mangiarsi; forma causativa attiva: fare mangiare; in ebraico fare mangiare si esprime con una parola sola, con una coniugazione particolare (detta hiphil).
Questa forma, al negativo, cioè preceduta dalla particella ’al, che corrisponde all'italiano non, ha due possibilità di traduzione, determinate esclusivamente dal contesto. La particella negativa ’al può negare o la causalità stessa o l’azione causata.
Ricostruiamo ora passo passo la traduzione da un probabile Pater insegnato da Gesù in ebraico o aramaico.
L'espressione non ci indurre traduce, con parafrasi esatta, il latino et ne nos inducas e il greco mē eisénkēs hemâs; a questa espressione soggiace verosimilmente l’ebraico ’al tebî’ênu (o forme aramaiche analoghe); ’al tebî’ênu può essere tradotto con:
a) non farci entrare (nella tentazione): qui viene negata la causalità.
b) fa sì che non entriamo (nella tentazione): qui viene negata l’azione causata.
Tra gli studiosi che sostengono la traduzione b), troviamo soprattutto Jean Carmignac (1969, 1988) (“garde-nous de consentir à la tentation”) [2]: quest’ultimo offre un lungo elenco di altri autori che interpretano et ne nos inducas, pur implicitamente, in questo stesso senso; ne riporto alcuni: Eliseo Armeno (450), Riccardo di San Vittore (tra il 1153 e il 1162), Lotario dei Conti di Segni, poi Innocenzo III (1195); tra gli autori più recenti troviamo J. Heller (1901), T.H. Robinson (1928), M. Zerwick (1953).


4 - Confronto tra le due opzioni.

Se confrontiamo la proposta di Heller e di Carmignac (≈ "fa’ sì che non entriamo nella tentazione") con la nuova traduzione della CEI ("non abbandonarci alla tentazione"), possiamo vedere cha la prima è più corretta e presenta due vantaggi:
1) Viene dichiarata una causalità divina positiva: Signore, agisci, fa’ sì che; non abbandonarci richiama in modo più tenue l’azione divina, quasi che Dio venga richiamato da uno stato di non azione, quando invece "non si addormenterà, non prenderà sonno, il custode d’Israele" (Sal 121,4).
2) Viene meglio espressa la teologia e la dinamica psicologica della tentazione: l’uomo è - di fatto - necessariamente tentato. Il demonio non può obbligare al peccato, può solo costruire una trappola; allora chiediamo: "Fa' sì o Signore che io non entri colà dove il demonio mi apre le porte".
Al contrario, non abbandonarci alla tentazione non è una traduzione, ma una interpretazione; e così purtroppo viene presentato come testo sacro ciò che – tutt'al più – potrebbe essere detto in una nota esplicativa.

Conclusione.

Cosa ha fatto l’evangelista nel tradurre in greco le parole di Gesù pronunciate in una lingua semitica (ebraico o aramaico)? È rimasto umile; non ha voluto dare una sua spiegazione per l’uomo di quell’epoca, ma ha tradotto letteralmente parola per parola, per rimanere il più vicino possibile al verbo stesso del Salvatore, o a quella versione del Padre nostro che veniva già usata nella liturgia Eucaristica in età apostolica (Cfr. la Didaché).
In altre parole, l'evangelista non ha confuso la traduzione della Parola di Dio o di un testo liturgico con la catechesi.
Inoltre, se fa problema la traduzione non c'indurre perché Dio non induce nessuno al male, è forse possibile che Dio abbandoni l'uomo alla tentazione? Dio non induce al male e neppure abbandona: non si vede dunque un gran guadagno con la traduzione nuova.
Si potrebbe obiettare che era più facile per un greco che viveva in ambiente palestinese recuperare il senso del causativo negativo, di quanto non possa fare l’uomo di oggi. Al che rispondo: all’uomo di oggi si possono dare spiegazioni; e se proprio si vuole cambiare un testo con la sua parafrasi, si dia almeno la parafrasi giusta.
E poi bisogna tener conto che ogni traduzione ha sempre la coperta corta, e qualcosa di scoperto rimane sempre: e se questo succede con i testi scritti dagli uomini, tanto più accadrà con la parola di Dio, che non sarà mai resa perfettamente da nessuna traduzione. La tradizione giudaico-cristiana ha, tra suoi tesori, un metodo eccellente per assorbire questi limiti: le bibbie rabbiniche e le glosse medioevali, dove il testo biblico è lasciato immutato, scritto persino con caratteri più grandi, e intorno tutti i commenti possibili: midrashim etc. da una parte, Padri della Chiesa dall'altra; ma il testo sacro non si tocca: siamo noi che dobbiamo adattarci a lui, e non lui a noi.

NOTE

[*] Questo scritto è un rifacimento di un precedente articolo, pubblicato su questo stesso blog nel 2010 e nel 2017; cfr. http://tinyurl.com/y9ju2son.
[1] "È meglio dire: «Non lasciarmi cadere nella tentazione». Jorge Mario Bergoglio sollecita una nuova traduzione…". Così comincia la pagina WEB di Famiglia Cristiana del 7-12-2017 (http://tinyurl.com/yccjvgmn).
[2] Cfr. Jean Carmignac, A l'écoute de Notre Père, Paris: O.E.I.L., 1988, pp. 58-78.

http://blog.messainlatino.it/2018/11/non-abbandonarli-alla-tentazione-di.html

"LA CHIESA CATTOLICA per duemila anni ha sbagliato, e con essa anche Gesù"che per duemila anni migliaia di Santi hanno pronunciato in latino le medesime parole.Et ne nos inducas in tentationem;


Pater - Testo Aramaico Traslitterazione / Traduzione 
 

Legenda dei simboli usati per la trascrizione` - non si pronuncia (glottal stop), come lo spirito dolce del greco
´ - indica un suono profondamente gutturale e sonoro
w - w come nell'inglese well
ŝ - suono sh come l'inglese shop o l'italiano sciare
s - s come nell'italiano sole
ç - s "enfatica" tz o più o meno come la zz dell'italiano pazzo 
h - h come nell'inglese hand
h - suono molto aspirato come ch nel tedesco nasch
j - i come nell'inglese yes
΄ - sta ad indicare un relitto vocalico simile al simbolo fonetico a utilizzato per l'inglese
b`- indica la b spirante, come nel sardo soßl sole
k`- indica la k spirante come nel toscano la Xasa

Gli altri segni valgono come in italiano


Che cosa è, oggi, tutta questa smania di nuovo e di cambiamento se non quel monito paolino: "stanchi di udire la solita dottrina" (2Tim.4,1-5), attraverso la quale si vuole dare una "nuova" immagine di Dio e della Chiesa?

Dal latino della prima Vulgata di san Girolamo: "...et ne nos indúcas in tentatiónem..." e non ci indurre in tentazione, il primo a storcere il naso su questa traduzione fu Martin Lutero, sì, proprio lui che ovviamente lasciò ai suoi discepoli e alla "sua chiesa", l'opportunità di ritradurre il finale con: "E non esporci alla tentazione, ma liberaci dal maligno, perché tuo è il regno e la potenza e la gloria in eterno. Amen".

La versione della CEI del 1978 manteneva ancora la frase tradizionale della Vulgata: "e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male".Mentre, già dalla versione del 2008 abbiamo una modifica davvero grottesca in: "e non abbandonarci nella tentazione, ma liberaci dal male". Una traduzione, quest'ultima, che Benedetto XVI non volle usare nel lezionario liturgico.

Chi ha ragione e chi ha torto? Ha torto il Protestantesimo ieri e la CEI con Papa Francesco, oggi, perché la traduzione protestante fu volutamente ideologica, come ideologica lo è oggi. Milioni di cattolici in tutto il mondo e da duemila anni hanno sempre pregato con la versione - tradotta in lingua propria - dalla Vulgata attraverso la quale, per altro, per duemila anni migliaia di Santi hanno pronunciato in latino le medesime parole.

Il messaggio che si vuole far passare è che "la Chiesa può sbagliare" e che per duemila anni ha sbagliato, finalmente oggi abbiamo un Papa così coraggioso e misericordioso, da rimettere le cose a posto. Riportiamo questo passaggio molto interessante da chi ha già discusso l'argomento:



"La parte a cui mi riferisco, tradotta e utilizzata per secoli, è proprio il versetto di Matteo 6,13a: "non ci indurre in tentazione" , che nella nuova versione è stato maldestramente tradotto con "non abbandonarci alla tentazione". Naturalmente anche qui ha prevalso il "politicamente corretto". Come può Dio "indurre" in tentazione? Allora cambiamo con una traduzione più morbida, più sdolcinata, più sentimentale. Cosa sbagliatissima... Il latino "inducere", molto opportunamente usato da san Girolamo nella Vulgata (traduzione della Bibbia dall'ebraico e greco al latino fatta da Girolamo nel IV secolo), essendo composto da 'in' ('dentro, verso') e 'ducere' ('condurre, portare'), corrisponde puntualmente al greco eisphérein; e naturalmente è seguito da un altro in (questa volta preposizione) e dall'accusativo temptationem, con strettissima analogia quindi rispetto al costrutto greco.


Quanto poi all'italiano indurre in, esso riproduce esattamente la costruzione del verbo latino da cui deriva e a cui equivale sotto il profilo semantico. Dunque la traduzione più giusta, che rimane fedele al testo è quella che è sempre stata: "non ci indurre in tentazione". Ogni altra traduzione è fuorviante, e oserei dire anche grottesca." 


Il Pontefice, durante la settima puntata del programma di Tv2000 intitolato proprio Padre Nostro contesta - ALLA CHIESA CATTOLICA - il modo in cui è stata tradotta la frase «e non indurci in tentazione». «Nella preghiera del Padre Nostro - chiosa papa Francesco - Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice "non mi lasci cadere nella tentazione": sono io a cadere, non è Lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito», ha spiegato Bergoglio, sottolineando che «quello che ti induce in tentazione è Satana, quello è l'ufficio di Satana».

Che l'abbiano cambiata i francesi non è certo una dimostrazione concreta, una prova, che san Girolamo avesse torto, e con lui la Chiesa Cattolica bimillenaria!! Come al solito Bergoglio non chiarisce, non spiega e soprattutto mente, perché non dice che la nuova traduzione servirebbe a far sentire più uniti i cattolici e i protestanti insieme, tanto non si prega più in latino, neppure nella Messa, perciò un cambiamento alla frase finale, e come la vogliono i protestanti da sempre, è un compromesso accettabile, per papa Francesco.


Che cosa sta accadendo? Che cosa è, oggi, tutta questa smania di nuovo e di cambiamento se non quel monito paolino: "stanchi di udire la solita dottrina" (2Tim.4,1-5), attraverso la quale si vuole dare una "nuova" immagine di Dio e della Chiesa? E' chiaro che, come da anni si sta dando addosso anche al concetto del CASTIGO DI DIO per mitigarlo e cambiarlo, facendo passare solo una pastorale verso un Dio bonaccione, piacione (la cui nuova immagine è papa Francesco), misericordioso, atto a non dover mai giudicare alcun peccato degli uomini, così ora si attacca il Pater Noster per dimostrare che TUTTO dipende solo dagli uomini, e che Dio non ha alcun ruolo nelle nostre vite.


"Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione"(Sir.2)

Insegna san Paolo: "Che diremo dunque? C'è forse ingiustizia da parte di Dio? No certamente! Egli infatti dice a Mosè: Userò misericordia con chi vorrò, e avrò pietà di chi vorrò averla. Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell'uomo, ma da Dio che usa misericordia. Dice infatti la Scrittura al faraone: Ti ho fatto sorgere per manifestare in te la mia potenza e perché il mio nome sia proclamato in tutta la terra. Dio quindi usa misericordia con chi vuole e indurisce chi vuole. Mi potrai però dire: «Ma allora perché ancora rimprovera? Chi può infatti resistere al suo volere?». O uomo, tu chi sei per disputare con Dio?" (Rm.9.14-20).


Ascoltiamo la risposta di sant'Agostino: "Se Dio è autore di tutto e vuole tutto, se è lui che indurisce, come può poi lamentarsi, minacciare, biasimare: come può rimproverare l'uomo del suo comportamento peccaminoso, se è Dio che, irresistibilmente, vuole tutto questo? Il problema è posto in termini chiari. Ma Paolo avverte subito la difficoltà di una risposta adeguata: quindi, mentre implicitamente afferma che l'uomo è libero è responsabile, e che quindi Dio ha tutti i diritti di rimproverare, situa il problema nel suo contesto naturale: la trascendenza divina. Fa questo anzitutto con una interrogazione retorica: come può l'uomo mettersi a discutere, quasi da pari a pari con Dio fino a contraddirlo? È la posizione assurda con cui l'uomo pone dei problemi che toccano la trascendenza divina, posizione che Dio rimprovera, ad esempio, a Giobbe (58-39)..."(tratto da 83 Questioni; questione n.68).


E dunque, perché affermiamo che la traduzione modernista del Pater Noster è sbagliata, è ideologica ed è protestante?


"Beato l'uomo che poteva trasgredire e non ha trasgredito, che poteva fare il male e non lo fece" (Sir 31,10).
In una delle trasmissioni di Radio Maria, il compianto esorcista Padre Amorth tenne una lectio proprio sul "VALORE DELLA TENTAZIONE" partendo proprio dal racconto del Libro di Giobbe dove si legge testualmente...

"C'era nel paese di Uz un uomo che si chiamava Giobbe. Quest'uomo era integro e retto; temeva Dio e fuggiva il male.... Un giorno i figli di Dio vennero a presentarsi davanti al SIGNORE, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.

Il SIGNORE disse a Satana: «Da dove vieni?» 

Satana rispose al SIGNORE: «Dal percorrere la terra e dal passeggiare per essa». 

Il SIGNORE disse a Satana: «Hai notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Dio e fugga il male». 

Satana rispose al SIGNORE: «È forse per nulla che Giobbe teme Dio? Non l'hai forse circondato di un riparo, lui, la sua casa, e tutto quel che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani e il suo bestiame ricopre tutto il paese. Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia». 

Il SIGNORE disse a Satana: «Ebbene, tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona».

E Satana si ritirò dalla presenza del SIGNORE... (Gb.1,1-12)


Il resto della storia dovremo conoscerlo.... Giobbe perderà TUTTO, Satana chiederà che Giobbe sia anche provato sulla sua persona attraverso delle malattie, la prova sarà immensa, la tentazione immane, ma vincerà donando - anche culturalmente - il famoso detto "la pazienza di Giobbe", leggete il Libro, imparerete tutti qualcosa!


La Bibbia, spiegava Padre Amorth, tratta la tentazione come una beatitudine:"Beato l'uomo che sostiene la tentazione, poiché una volta collaudato riceverà la corona della vita che Dio promise a quanti lo amano" (Giacomo 1,12). 


Un grande santo e dottore della Chiesa, S.Giovanni Crisostomo, arrivò ad affermare che il demonio (certamente suo malgrado) è il "santificatore delle anime". 


E' evidente perciò che non va cambiato il Pater Noster, ma cercare di capire cosa intenda la Bibbia per TENTAZIONE, e perché, semmai, Dio che è davvero misericordioso, la permette 


Nel 2010 già Cantuale Antonianum faceva questo appello ai Vescovi: Per favore, non cedete alla tentazione di cambiare il Padre Nostro... , facendo osservare: "Non ci si accorge che la traduzione proposta, se proprio vogliamo dirlo, si espone a domanda di egual tenore: "Ma può Dio abbandonare i suoi figli alla tentazione?", non dice forse la Scrittura (Gc 1,14) che "Dio non permette che siamo tentati sopra le nostre forze"? Quindi è ovvio che non ci abbandona alla tentazione se noi prima non abbiamo abbandonato lui! Ma leggiamo in Mt 4,1: "Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo" (Tunc Iesus ductus est in desertum a Spiritu, ut tentaretur a Diabolo)....


Anche Gesù, ricordiamolo (Lc 22,42), pregò il Padre, con umanissimo timore, di far passare il calice della prova della Passione, ma si rimise alla sua volontà (il ditelismo - le due volontà - è dogma di fede). Il Padre lo sostenne nella tentazione finale, quella di scappare dalla croce, e Cristo superando la prova potè affermare: "tutto è compiuto" (Gv 19,30). Infatti senza la tentazione nessuno è adatto alla prova, tanto in se stesso, come si ha nella Scrittura: Chi non è stato tentato che cosa sa? (Sir 34, 9.11)" Prosegue poi Agostino: "Quindi con quella preghiera non si chiede di non essere tentati, ma di non essere immessi nella tentazione, sulla fattispecie di un tale, a cui è indispensabile essere sottoposto all'esperimento del fuoco, e non chiede di non essere toccato col fuoco, ma di non rimanere bruciato. Infatti la fornace prova gli oggetti del vasaio e la prova della sofferenza gli uomini virtuosi (Sir 27,6)". (De Sermone Domini in Monte II,9.30)


Ci viene quasi il sospetto che papa Francesco, come il suo preposto gesuita Arturo Sosa, non creda alle parole di Gesù perchè... "a quei tempi non c'era un registratore", tanto da sentirsi autorizzato a modificare una traduzione che è limpida fin dai primi secoli.... che non fu una interpretazione, come sta tentando di fare lui oggi, e come fece Lutero ieri, ma che è una semplice ed autentica traduzione.


La tentazione E' LA PROVA.... senza la quale nessuno di noi potrebbe entrare in Paradiso! Vogliamo concludere con le parole del Catechismo della Chiesa Cattolica

http://www.vatican.va/archive/catechism_it/p4s2a3_it.htm 

a dimostrazione che papa Francesco sta sbagliando, ha sbagliato la CEI con la nuova traduzione, e sbaglia questa nuova pastorale modernista:


Noi chiediamo al Padre nostro di non « indurci » in essa. Tradurre con una sola parola il termine greco è difficile: significa «non permettere di entrare in», «non lasciarci soccombere alla tentazione». «Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male» (Gc 1,13); al contrario, vuole liberarcene. Noi gli chiediamo di non lasciarci prendere la strada che conduce al peccato. Siamo impegnati nella lotta «tra la carne e lo Spirito». Questa domanda implora lo Spirito di discernimento e di fortezza.(n.2846)


Lo Spirito Santo ci porta a discernere tra la prova, necessaria alla crescita dell'uomo interiore (Cf Lc 8,13-15; At 14,22; 2 Tm 3,12) in vista di una «virtù provata», (Cf Rm 5,3-5) e la tentazione, che conduce al peccato e alla morte. Dobbiamo anche distinguere tra «essere tentati» e «consentire» alla tentazione. Infine, il discernimento smaschera la menzogna della tentazione: apparentemente il suo oggetto è «buono, gradito agli occhi e desiderabile» (Gn 3,6), mentre, in realtà, il suo frutto è la morte. (n.2847)


«Dio non vuole costringere al bene: vuole persone libere [...]. La tentazione ha una sua utilità. Tutti, all'infuori di Dio, ignorano ciò che l'anima nostra ha ricevuto da Dio; lo ignoriamo perfino noi. Ma la tentazione lo svela, per insegnarci a conoscere noi stessi e, in tal modo, a scoprire ai nostri occhi la nostra miseria e per obbligarci a rendere grazie per i beni che la tentazione ci ha messo in grado di riconoscere».

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