ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 10 dicembre 2018

Cattolici che non hanno la coscienza pulita

Chi sono i veri “cristiani ideologici”? Coloro che hanno nostalgia o coloro per cui …va tutto bene, madama la marchesa?


Un tipico errore della Chiesa post-conciliare è quello di non voler essere attenti alla realtà delle cose.
La Vita di Grazia diminuisce … non fa nulla. Il senso del peccato diminuisce … non fa nulla. Le famiglie si sfasciano … non fa nulla. I matrimoni civili aumentano e in alcune zone d’Italia sono più numerosi di quelli religiosi … non fa nulla. I giovani hanno dimenticato completamente l’obbligo e il valore della castità prematrimoniale … non fa nulla. Le leggi dello Stato recepiscono ed esprimono sempre più il relativismo etico dominante … non fa nulla. Va tutto bene, è inutile preoccuparsi.

E’ un tipico errore che si manifesta in due atteggiamenti.
Il primo atteggiamento è minoritario ed è di chi, dinanzi allo sfacelo, fa silenzio, in un certo senso apprezza e -sempre in un certo senso- quasi spera che il trend continui su questa falsariga. Si tratta –diciamocelo francamente- dell’atteggiamento di quei cattolici che non hanno la coscienza pulita, che hanno molti disordini nella vita privata e che in questo modo sperano di poter tacitare la propria coscienza convincendosi che ciò tutto sommato sarebbe la dimostrazione che la morale cattolica non può essere completamente rispettata e che deve cambiare radicalmente.
Il modo invece maggioritario di manifestare questo errore è più complesso, è quello di chi si accorge che c’è molto che non va, ma nello stesso tempo si sforza di dimostrare che ciò che non va rientrerebbe in una sorta di crisi fisiologica della Chiesa. Insomma, non può non andare così. Per liberarsi da “incrostazioni storiche” di contaminazioni con il potere e con certi conservatorismi, la Chiesa deve vivere una crisi, una crisi che la porterà ad una maggiore “spiritualizzazione” e ad essere più fedele al suo mandato. Gli argomenti che si adducono ovviamente sono complessi, ma si capisce bene come alla base di questi vi sia un’altra questione: psicologica.
Se per il primo atteggiamento la questione è più “bassa”, in un certo senso è una questione “di pancia”, per il secondo l’atteggiamento la questione è “di testa”. E’ la posizione ideologica che impedisce di capire. L’ideologia –si sa- è un’ipertrofia dell’intelligenza, che, proprio perché ipertrofia, si traduce in un accecamento dell’intelligenza stessa. Una realtà quando cresce troppo finisce con l’annullare se stessa. Il cancro altro non è che una crescita impazzita delle cellule; un uomo che fosse troppo alto non riuscirebbe a vivere bene, non passerebbe facilmente attraverso le porte, non entrerebbe facilmente in un auto, non troverebbe facilmente vestiti da poter indossare o scarpe da poter calzare. L’ideologia è l’intelligenza sproporzionata e ipertrofizzata che vuole prescindere dall’osservazione, per affidarsi esclusivamente alle proprie costruzioni teoriche e intellettuali.
Spesso sentiamo l’attuale papa Francesco parlare contro i cristiani “ideologici” e molti leggono questa definizione come un riferimento a cristiani di formazione tradizionale che sono soliti denunciare uno stato della Fede e della Chiesa tutt’altro che positive. Indubbiamente la definizione è da utilizzare perché c’è tanto “cattolicesimo ideologico” ai nostri giorni, ma chiediamoci: in chi c’è questo atteggiamento? A chi bisogna davvero affibbiare una simile etichetta? A chi legge le cose come stanno o a chi si illude che le cose vadano bene quando invece non vanno assolutamente bene?
Molti conoscono la celebre frase di un noto teorico del socialismo sovietico: “Se i fatti non ci daranno ragione, peggio per i fatti!” Ebbene, in tanti –troppi- cattolici di oggi si attaglia bene questa massima. Dinanzi alla crisi evidentissima della Vita di Grazia, dinanzi all’altrettanto evidentissima crisi della Chiesa, non bisogna mutare i dettami pastorali, le linee di tendenza, le programmazioni dei recenti decenni, il problema non starebbe lì, non può stare lì. Eppure, per evangelica sapienza, i cristiani dovrebbero essere arciconvinti che dai frutti si riconoscono gli alberi.
Monsignor Giacomo Biffi, vescovo emerito di Bologna, utilizzando il suo inconfondibile stile nel suo Il Quinto Evangelo scrisse a proposito di questo atteggiamento così diffuso:  “Il Regno dei cieli è simile a un pastore che avendo cento pecore e avendone perdute novantanove, rimprovera l’ultima pecora per la sua scarsità di iniziativa, la caccia via e, chiuso l’ovile, se ne va all’osteria a discutere di pastorizia”. E pensare che queste cose Biffi le scrisse nel lontano 1969: una vera profezia.
Nell’Avvento di qualche anno fa il cardinale di Vienna, monsignor Schonborn, fu invitato a predicare nella diocesi di Milano e per l’occasione disse riferendosi alla Chiesa attuale: (…) lasciamo la nostalgia degli anni Cinquanta, quelli della mia infanzia, nel villaggio, quando la chiesa si riempiva di gente per tre volte ogni domenica. Tutti in chiesa. Lasciamo la nostalgia per la vitalità dei nostri oratori degli anni Cinquanta e Sessanta.” Eccolo il vero cristianesimo “ideologico”! Un conto è dire che constatando la diversità fra il passato e il presente, il cattolico non debba abbattersi, altro è dire che vada abbandonata la nostalgia. Parole incomprensibili. Quando si perde qualcosa di bello, la nostalgia è più che opportuna, ed è l’unico atteggiamento umanamente ragionevole. Certo, non bisogna deprimersi, anzi è necessario ancora più attivarsi, rimboccarsi le maniche e agire, convinti che le sorti della storia non sono nelle nostre mani ma in quelle di Dio e della Sua Santissima Madre, ma un simile impegno può essere motivato solo da una costatazione intelligente: le cose ora non vanno bene, bisogna agire per modificarle. Dire di “lasciare la nostalgia” è quanto di più “ideologico” possa essere affermato in una simile situazione … a meno che non si desideri “apostatare”, cosa che sarebbe gravissimo per un un cardinale di Santa Romana Chiesa.
Si ha paura di vedere la realtà così come essa è, ma ciò non è un atteggiamento realmente cristiano, perché il cristiano è prima di tutto uomo di osservazione che fa della virtù della prudenza il timone del proprio giudicare e del proprio agire.
del C3S

Uomini giusti ai posti giusti / 3

Buongiorno e bentornati! Eccoci di nuovo qui con la rubrica L’uomo giusto al posto giusto. Che per la puntata odierna segnala prima di tutto mister Steve Hester, diacono cattolico della diocesi di Lexington (Usa), noto perché si è dichiarato a favore dell’aborto legalizzato e del «matrimonio» omosessuale.
Gesù «non ha predicato affatto contro l’aborto», ha detto il prode Steve. Il quale, bontà sua, ha aggiunto di non credere che «il Signore pensasse che uccidere i bambini fosse giusto, ma forse [Gesù] non ha predicato contro l’aborto perché sapeva che il sesso sicuro e l’educazione, piuttosto che la legislazione, sono il modo effettivo per ridurre gli aborti».
Ma Gesù, ha precisato Steve, «non ha predicato nemmeno contro il matrimonio omosessuale o l’omosessualità, sebbene allora ci fossero persone Lgbt. E forse non ha predicato contro l’omosessualità perché è venuto qui per insegnarci come amare, non chi amare».
Mister Hester, dicono le cronache, non ha fatto queste dichiarazioni in modo estemporaneo. No, egli ha parlato più volte in questi termini, anche durante il battesimo di un bambino «con due padri» e sempre esprimendosi a favore del «cambiamento della Chiesa».
Bene. Dopo questa partenza col botto veniamo al secondo uomo giusto al posto giusto: don Luca Favarin, prete di Padova secondo il quale «oggi fare il presepio è ipocrita», perché «il presepe è l’immagine di un profugo che cerca riparo e lo trova in una stalla» e dunque «esibire le statuette, facendosi magari il segno della croce davanti a Gesù bambino, quando poi nella vita di tutti i giorni si fa esattamente il contrario, ecco tutto questo io lo trovo riprovevole».
Don Luca Favarin, che a Padova, apprendiamo dalla stampa locale, «gestisce nove comunità e aiuta 140 ragazzi africani», si scaglia contro il nuovo decreto sicurezza e dice: «Il nuovo decreto costringe le persone a dormire per strada, quindi l’Italia si è schierata per la non-accoglienza. Poi però, a casa, tutti bravi a esibire le statuette accanto alla tavola imbandita, al caldo del termosifone acceso».
Non contento di tale dichiarazioni, don Luca, poco prima della Santa Messa domenicale, ha scritto su Facebook: «Quest’anno non fare il presepio credo sia il più evangelico dei segni. Non farlo per rispetto del Vangelo e dei suoi valori, non farlo per rispetto dei poveri».
Chiamato poi al telefono, durante la trasmissione radiofonica La zanzara, da un falso papa Francesco, don Favarin, cascandoci con tutte le scarpe, ha difeso strenuamente la sua posizione, ma si è anche lasciato sfuggire che «il vescovo si è molto arrabbiato con me». Meno male.
Ed eccoci al terzo uomo giusto al posto giusto, che è (rullo di tamburi): don Ermanno!
Chi è don Ermanno? Ve lo spiego subito. Anzi, lascio che a spiegare sia Benedetta Frigerio, che un sabato si è recata alla Santa Messa prefestiva nella chiesa di San Carlo al Corso, a Milano, ed ha scoperto che il prete, don Ermanno appunto, faceva recitare non il Credo apostolico ma un Credo, scritto da don Michele Do, nel quale «vengono cancellate tutte le verità di fede».
Alla fine della Messa Benedetta decide dunque di andare in sacrestia per chiedere ragioni e don Ermanno le spiega: «Oggi bisogna tradurre con le nostre parole, con il nostro linguaggio! Questo è il credo di un santo, Dario Fo».
«Dario Fo?…»
«No, scusi, Michele Do».
Il racconto di Benedetta Frigerio si può leggere qui: http://www.lanuovabq.it/it/credo-eretico-alla-messa-in-san-carlo-al-corso
Alla prossima con L’uomo giusto al posto giusto!
Aldo Maria Valli

Cattolici nel mondo post-cristiano. I racconti di Roberto de Mattei sull’eresia modernista


(Gennaro Malgieri, formiche.net – dicembre 2018) Il modernismo, veicolato dalle società segrete dalla fine del Settecento agli inizi del secolo scorso, è il “vizio d’origine” della decadenza, ormai evidente, della Chiesa cattolica. Tutte le “criticità” che stanno emergendo con drammatica sequenza temporale, al punto da non lasciare respiro a molti credenti, sono riconducibili a una fase storica culminata nell’Ottocento e diramatasi nel primo decennio del Novecento la cui ideologia di sostegno è stata il relativismo.
L’indagine sulle origini, lo svolgimento e l’affermazione di questa vera e propria sciagura abbattutasi sul cattolicesimo è stata approfondita e vasta, come è noto, ma le conseguenze dei risultati del modernismo non sono stati minimamente scalfiti o arginati, nonostante un sempre più imponente movimento di fedeli accompagnato da intellettuali e prelati “immunizzati” dalla tabe dello scetticismo e, sostanzialmente, dall’apostasia, si sia impegnato nel tentativo di una “restauratio” i cui esiti, nonostante tutto sembri congiurare verso un peggioramento, autorizzano la fiducia di chi alla “Chiesa di sempre” non intende rinunciare.
È con questo spirito che abbiamo letto, traendone godimento spirituale ed anche letterario, l’ultimo libro di Roberto de Mattei, intellettuale cattolico tra i più noti e prestigiosi in Europa, che da tempo immemorabile, soprattutto come presidente della Fondazione Lepanto, direttore di “Radici cristiane” e dell’agenzia di informazioni “Corrispondenza romana”, dedica il suo apostolato  a quella che un tempo veniva definita la “buona battaglia”.
La sua opera più recente, Trilogia romana (Solfanelli editore, pp.158, € 12), si distacca dai lavori abituali di de Mattei, di chiara impronta saggistica – ne ricordiamo due per tutti: la scintillante biografia di Plinio Corrêa de Oliveira e Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta , edita da Lindau, che ottenne il prestigioso premio Acqui Storia nel 2013 – per approcciare il grande tema del modernismo, appunto, e della funzione delle società segrete nell’opera di demolizione della Chiesa, con piglio spiccatamente letterario: ha messo in forma di racconti, tutt’altro che fantasiosi benché attraversati da una narrazione accattivante ricca di aneddoti, dettagli, colloqui e luoghi partoriti dall’autore, vicende storiche dimenticate, che offrono spazi di riflessione per comprendere quanto è accaduto e sta accadendo Oltretevere.
 Con rara eleganza e spirito di finezza, ereditati dal padre, il grande storico delle dottrine politiche Rodolfo de Mattei che si dilettava pure di letteratura lasciandoci splendide pagine soprattutto di “spigolature” romane, Roberto de Mattei rievoca nel primo racconto due grandi personalità del XIX secolo: il cardinale Giuseppe Mezzofanti, difensore della Chiesa contro tutti gli attacchi che all’epoca venivano portati dal laicismo fino a costringere nella “ridotta” vaticana il Papa e la Curia, e lo storico francese Jacques Crétineau-Joly. Il colloquio tra i due personaggi è suggestivo, evocativo e commovente. Dall’affresco storico che viene fuori si capisce il senso di una tragedia nascente, ma anche si coglie il filo di speranza che anima il porporato ed il suo interlocutore: la prefigurazione della conversione del mondo che in qualsiasi momento può levarsi dalle tenebre che lo avvolgono. Nell’Ottocento questa idea non era peregrina. Ma oggi?
Il secondo racconto della Trilogia è un omaggio doveroso e sentito, benché arricchito da ritratti ed atmosfere d’epoca, della principessa Maria Cristina Giustiniani Bandini che fu presidente dell’Unione delle Donne Cattoliche d’Italia dal 1909 al 1918. Ella ispirò la vita cristianamente esemplare e virtuosa della nipote donna Maria Sofia Giustiniani Bandini, ultima erede di quella dinastia principesca,  morta nel 1977 in concetto di santità. In questo quadro figurano monsignor Umberto Benigni, sottosegretario agli Affari ecclesiastici straordinari sotto il Pontificato di Pio X e direttore di “Corrispondenza romana”, pubblicazione alle dirette dipende del Papa con la missione di contrastare apertamente il modernismo; don Ernesto Buonaiuti, figura controversa che ha avuto un ruolo di primo piano nell’affermazione dell’eresia modernista; il sulfureo principe Leone Caetani, rampollo di una delle più prestigiose ed antiche famiglie romane.
Tra questi protagonisti si dipana un “rapporto” a distanza che ci permette di comprendere la reazione all’infiltrazione della sovversione sostenuta da ambienti (significativo il ruolo di Caetani) che tradirono il papato influenzati dalle idee illuministiche e soggiogati da una propensione all’esotismo intellettuale, oltre che ad interessi politici e finanziari molto concreti: il risultato fu la “devozione” al “fumo di Satana”. La figura più tragica è quella di Buonaiuti cui fa da pendant la ben più inquietante personalità di Caetani, punta di lancia della massoneria romana e continentale: dopo la sua morte, la figlia pittrice, Sveva Caetani, volle evocare un suo immaginario viaggio all’inferno guidata dal padre. C’è la sintesi perfetta, in questo particolare rivelato da de Mattei, dell’universo demoniaco nel quale trovarono ricette le forze anti-cattoliche.
Il terzo racconto, intitolato “Una principessa racconta” è incentrato sui ricordi della già menzionata donna Maria Cristina dei principi Giustiniani Bandini. Siamo già negli anni Cinquanta, regnante Pio XII. Pierre Engel, un alsaziano residente a Ginevra, si reca a farle visita. Vuol sapere tutto della sua esperienza di “attivista” cattolica al servizio della fede contro la superstizione modernista. I ricordi dell’anziana principessa che aveva accesso alla Curia pontificia e aveva goduto della stima di quattro Pontefici, sono una miniera alla quale attingere per comprendere ciò che è accaduto. Il congedo fu toccante: “Non sono gli uomini – disse la principessa -, ma è la Grazia che converte. È questa grazia che io vorrei abbondasse sulla nostra città”.
La principessa Maria Cristina Giustiniani Bandini è una personalità oggi ignorata a cui de Mattei ha voluto rendere omaggio. Le fonti sono soprattutto le carte e i ricordi personali della nobildonna, conservati nell’Archivio della Casa Generalizia dei Domenicani a Santa Sabina a Roma.
Il messaggio di questa toccante ed intrigante Trilogia non è difficile da cogliere. È un “appello”, ancorché formulato in maniera inusuale, al cuore ed alle menti di chi oggi vive con trepidazione il destino verso cui sembra incamminata la Chiesa di Roma. La tentazione di dilapidare il patrimonio storico e religioso di due millenni cristiani si è affacciato in tempi non sospetti. Eppure c’è stato chi si è opposto e la sua azione è arrivata fino a noi, come un foglio ingiallito in una bottiglia vagante tra i flutti. De Mattei l’ha raccolta, con lo spirito del militante che ha deciso di non sottrarsi alla vocazione che ha seguito fin da giovanissimo, l’ha aperta e ce l’ha raccontata alla sua maniera: con l’efficacia e la levità di un narratore, ma anche dello studioso integerrimo, fedele alla verità, che ha messo il suo ingegno al servizio della storia.
La lettura di Trilogia romana mi ha fatto venire in mente il romanzo di Brian MooreCattolici che Lindau ha riproposto (pp.95, €12). Lo scrittore ci porta su una piccola isola al largo della costa irlandese dove una comunità monastica dell’Ordine albanesiano, conserva la “fede dei padri”, osservando le regole millenarie e continuando a celebrare la Messa secondo il rito tridentino. In una Chiesa smarrita, attira fedeli, diventa un “caso” internazionale, radio e televisioni raggiungono il monastero per capire. Diventa un luogo di “culto” mediatico. Il monastero suscita le perplessità e poi la riprovazione delle gerarchie post-conciliari.
L’Ordine, con il suo padre generale, si ribella, invia un “inquisitore” che da un lato si lascia sedurre, sia pure lievemente, dal mondo che i monaci hanno preservato; dall’altro non può che sollecitare la fine di quelle pratiche scontrandosi con la comunità, ma nello stesso tempo favorendo la spoliazione dei dubbi del Padre Abate sulla sua stessa fede. Le vicende e l’epilogo sono rocambolesche. Mistero e suspence s’intrecciano, ma ciò che è palese non può essere nascosto: l’incerto abate china la testa ed i monaci con lui davanti all’altare. La forza della preghiera vince su tutto. Le parole del Padre Nostro riecheggiano nella navata e nei loro cuori. Avrebbero anche vinto i burocrati della fede, ma questa rimaneva integra in chi ad essa si era votato.
Una lezione per i cristiani in un mondo post-cristiano? Potrebbe essere. E ci è d’aiuto a comprenderlo il magnifico libro di Rod DreherL’opzione Benedetto (San Paolo, pp.350, € 25), nel quale lo scrittore americano che avanza l’ipotesi secondo la quale in questo modo, per tanti versi simile a quello che vide la fine dell’Impero Romano con l’arrivo dei barbari, l’esempio di San Benedetto da Norcia, che abbandonò Roma per conservare la propria innocenza davanti alla corruzione ed alla dissolutezza dei costumi, sarebbe da seguire, sia pure in altre forme. “Leggete questo libro – ha osservato Dreher – e imparate dalle persone che incontrerete, e lasciatevi ispirare dalla testimonianza della vita dei monaci. Lasciate che vi parlino tutte al cuore e alla mente, poi attivatevi localmente per rafforzare voi stessi, la vostra famiglia, la vostra Chiesa, la vostra scuola, la vostra comunità”.
Un programma tutt’altro che utopistico. Basta non ascoltare gli incantatori di serpenti, come fecero, oltre un secolo fa i protagonisti della Trilogia di Roberto de Mattei il cui “conservatorismo cristiano” mi pare che sostenga nei fatti, con azioni concrete, lo spirito dei monaci di Muck richiamati da Moore e l’ambizione “riformatrice”, nello spirito benedettino, avanzata da Dreher. Per i cattolici c’è un avvenire.

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