ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 4 marzo 2019

La dottrina della doppia verità

COME E' MORTA LA TEOLOGIA?


Dubbi ancora dubbi e sempre dubbi. La teologia inizia a morire con Guglielmo di Ockham: dal suo psicologismo passando per Karl Rahner, siamo arrivati al sociologismo della "Contro-chiesa" gnostica e apostatica dei nostri giorni 
di Francesco Lamendola  

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Ne abbiamo già parlato in diverse occasioni (cfr. l’articolo Le radici del modernismo in Guglielmo di Ockham, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia l’8/11/17), ma non ci stancheremo di ripeterlo: la deriva della teologia progressista e modernizzante comincia fin dal tardo Medioevo, con la figura del francescano inglese Guglielmo di Ockham (1280-1349), quasi contemporaneo di Dante, il quale per primo si è completamente scordato la semplice evidenza che la teologia è fatta per affiancare, illuminare e sostenere la fede, e non per metterla in crisi e prospettarle difficoltà insormontabili. Qualsiasi filosofo, prima di lui, lo sapeva bene e si sarebbe guardato dal mettersi su una tale strada; qualsiasi filosofo avrebbe considerato un cattivo uso della ragione il fatto di adoperarla non per collaborare con la fede, ma per esserle di scandalo. Lui, invece, no: fermo e sicuro nel suo atteggiamento, nelle sue posizioni, guarda con sovrano disprezzo tutto il tesoro che la teologia ha accumulato prima di lui, lo passa in rassegna e lo dichiara non più utilizzabile, superato, obsoleto, o, quanto meno, bisognoso di radicali riforme. Che cosa ci ricorda, un simile atteggiamento? È  esattamente lo stesso di Karl Rahner e degli altri teologi modernisti che sono riusciti ad esercitare un influsso decisivo sul Concilio Vaticano II e, con ciò, sulla vita della Chiesa cattolica, e perfino sulla sua dottrina.


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Il “rasoio di Ockham”? la “riduzione” proposta da Ockham è qualcosa di simile a una potatura talmente rozza e selvaggia, da provocare la morte di tutte le piante del giardino!

Per Ockham, noi non possiamo avere alcuna esperienza di Dio, perché noi abbiamo esperienza solo delle cose sensibili, e tutto il nostro sapere è frutto dell’esperienza. Il suo, quindi, è un empirismo radicale, anzi un vero e proprio sensismo; e affermando che di Dio non si può avere esperienza, egli non solo svaluta o ignora la via mistica, ma demolisce anche la via razionale che conduce, se non a Dio, quanto meno alla certezza della sua esistenza. Le cinque prove di san Tommaso d’Aquino? No, per Guglielmo di Ockham nessuna di esse fornisce una dimostrazione convincente della sua esistenza. Egli è veramente l’iniziatore del pensiero moderno, laddove afferma che la ragione e la fede sono due cose del tutto separate e distinte, e che non vi è possibile convergenza fra esse. Tutti gli sviluppi materialisti e irreligiosi del pensiero moderno sono contenuti, in nuce, in questa idea centrale. Un’idea che verrà sviluppata dai vari Cartesio, Locke, Hume, Kant, e che getta nel cestino della carta straccia secoli e secoli di riflessione teologica e metafisica, non solo cristiana, ma anche pagana, basti pensare a Platone e soprattutto a Plotino. Egli è anche il padre dello psicologismo e del soggettivismo, poiché sostiene che la conoscenza umana si basa sull’intuizione immediata e diretta degli enti, sicché non serve provare la loro esistenza, quando se ne ha esperienza diretta. Il conoscere, per lui, si riduce a un prendere atto di quello che c’è; ma quello che c‘è, in sostanza, si riduce a quel che possiamo esperire con i sensi. È evidente che ciò contrasta con le fondamenta stesse del sentimento religioso, oltre che della Rivelazione: forse che noi abbiamo avuto la conoscenza immediata e diretta dell’Incarnazione del Verbo, o della Santissima Trinità? Si direbbe che Ockham non si renda conto sino in fondo della portata devastante del suo modo d’impostare la relazione tra fede e ragione, anzi, che non si accorga neppure di quanto limitante e mortificante sia la sua idea di ragione. La ragione, in  ultima analisi, si riduce a psicologia, e più precisamente ad “accettazione” dei dati che i sensi inviano alla mente. Qui non c’è più alcuno spazio né per la metafisica, né, a ben guardare, per la teologia stessa: che ci sta a fare un teologo il quale, come san Tommaso (l’apostolo) crede solo a ciò che vede, e se non mette le dita nelle piaghe di Cristo, non crede alla sua Resurrezione? Evidentemente, in una simile prospettiva la teologia è diventata inutile, e se ne potrebbe fare benissimo a meno. Perché non compiere l’ultimo passo, allora, e non tagliare l’ultimo, esile filo che la tiene ancora in vita? Un residuo di pudore o una mancanza di coerenza, magari dovuta a poco nobili ragioni di ordine pratico?

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Le cinque prove di san Tommaso d’Aquino? No, per Guglielmo di Ockham nessuna di esse fornisce una dimostrazione convincente della sua esistenza!

Non vogliamo metterci a fare, a nostra volta, della psicologia: ci limitiamo a constatare il fatto. Un teologo il quale riduce la conoscenza a sensismo non è più un teologo, puramente e semplicemente: se avesse un po’ di coerenza, dovrebbe dichiarare finita le teologia e cambiare mestiere. Ma Guglielmo di Ockham non si limita a decostruire tutto l’edificio del soprasensibile, fa anche di più: inventa quel marchingegno infernale che è passata alla storia della filosofia come il “rasoio di Ockham”. La pluralità degli enti metafisici gli dà noia; non  arriva a dichiarare la svendita fallimentare di tutta la metafisica, però decide di attuare una ristrutturazione radicale, eliminandone quanti più enti possibili: merce avariata, buona per le teste dure e superstiziose dei monaci medievali. Ma cos’è il rasoio di Ockham, infine? Lo si può riassumere in queste due formule del nostro pensatore: Frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora, “si fa inutilmente con molto ciò che si può fare con poco”; e Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem, “gli enti non si devono moltiplicare senza necessità.” Siccome noi moderni siamo tutti nipotini di Guglielmo di Ockham e viviamo immersi nel clima antimetafisico e nell’orizzonte immanentistico che sono tipici della modernità, questi concetti ci paiono delle perle di saggezza e siamo portati a vedere nel loro autore, o almeno così ci hanno suggerito i nostri professori di liceo, un simpatico precursore del pensiero moderno (il che rappresenta, di per se stesso, un pregio e una credenziale di nobiltà); tanto che ci sembra quasi impossibile che lui solo vedesse una cosa tanto semplice ed evidente, mentre nessuno  prima di lui ne era stato capace. Tuttavia, se si assume il punto di vista della filosofia classica, compresi Platone e Aristotele, ci si accorge che la “riduzione” proposta da Ockham è qualcosa di simile a una potatura talmente rozza e selvaggia, da provocare la morte di tutte le piante del giardino. Il suo difetto fondamentale è di pretendere che la psicologia soggettiva possa riflettere l’ordine dell’universo. Se a me, singolo uomo, può sembrare una cosa utile non moltiplicare gli enti per non rendermi troppo difficile la comprensione del reale, chi mi dà il diritto d’inferire che il mondo segue il medesimo ordine dei miei pensieri, e che non contempla l’esistenza di enti non necessari? Ma chi stabilisce la necessità di un ente: l’uomo o Dio? Qui si va a toccare la radice irreligiosa della speculazione di Ockham, che egli peraltro sa ben dissimulare, forse perfino a se stesso. Infatti, è ben vero che il Nostro si premura di specificare che il suo “rasoio” si applica  solo alla ricerca speculativa e non all’universo creato da Dio: misera astuzia, che sa più di scappatoia formale che di coerenza logica. Siamo coerenti: se è inutile alla mente moltiplicare gli enti, è anche inutile a Dio crearli. Dire che non si devono moltiplicare gli enti, ma ciò solo sul piano concettuale e non sul piano ontologico, dopo aver ridotto la conoscenza ad esperienza, è un voler salvare capra e cavoli: una debolezza del pensiero, o un’ipocrisia. Se il reale è, per noi, solo ciò che di esso possiamo conoscere empiricamente e psicologicamente, ammettere che forse Dio ragiona in modo diverso, e consente l’esistenza di enti “necessari” che a noi, però, non sembrano tali, è mettere una foglia di fico sulla propria incredulità. Che cosa sia necessario, lo sa Dio; se pretende di deciderlo l’uomo, allora non solo la metafisica, ma anche la fede in Dio diventano inutili. Per salvare le apparenze, non resta che introdurre la dottrina della doppia verità, come sempre hanno fatto tutti gli eretici, dai seguaci di Averroè fino a Giordano Bruno e oltre: una cosa è quel che appare alla ragione umana, e un’altra cosa è la realtà in sé. Dopo Kant, degno successore di Ockham, non ci sarà più bisogno nemmeno di questa foglia di fico: la metafisica verrà messa fra parentesi e spostata in soffitta, dove non darà più fastidio a nessuno; e la filosofia sarà libera di procedere spedita, senza più anticaglie, remore e scrupoli di sorta nei confronti della Cosa in Sé – che, in ultima analisi, è l’Essere.

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Anche oggi domina la dottrina della doppia verità, come sempre hanno fatto tutti gli eretici, dai seguaci di Averroè fino a Giordano Bruno e oltre!

Ma sentiamo quel che dice Guglielmo di Ockham, direttamente dalla sua bocca (da: Quodlibeta, II, q. 1; I,, q. 1; traduzione in: A.A. V.V., Galassia filosofia, Firenze, Casa Editrice Bulgarini, 2015, vol. 1, pp. 653-654):
Affermo in primo luogo che non può essere dimostrato dalla ragione naturale che Dio è causa efficiente immediata di tutte le cose. Sia perché non può essere sufficientemente dimostrato che altre cause, ad esempio i corpi celesti, non siano sufficienti a spiegare i molti effetti, e che, quindi, non si ponga invano una causa efficiente IMMEDIATA di essi. Sia perché, se si potesse dimostrare  con la ragione naturale che Dio è causa efficiente  di tutte le cose, e non si potesse dimostrare con la ragione naturale che egli è causa efficiente di tutte le cose, e se non si potesse dimostrare con la ragione naturale che egli è causa parziale necessaria, o insufficiente, del tutto, si potrebbe con uguale facilità dimostrare, con la ragione naturale, che è causa sufficiente di tutto, e allora le altre cause efficienti sarebbero poste inutilmente.
In secondo luogo affermo che non può dimostrarsi con la ragione naturale che Dio è causa efficiente di alcun effetto, perché non può dimostrarsi in modo soddisfacente che esistono fenomeni effettibili che non siano quelli generabili e corruttibili le cui cause efficienti sono i corpi naturali inferiori e celesti; perché, non si può sufficientemente dimostrare che una qualunque sostanza separata o un qualunque corpo celeste è causato da una qualunque causa efficiente. Neppure si può dimostrativamente affermare che l’anima intellettiva (che è tutta in tutto, e tutta in ogni parte) sia causata da qualche efficiente, poiché non può dimostrarsi che tale anima si trova in noi. Da questo segue necessariamente che non si può dimostrare che Dio sia la causa MEDIATA di alcun effetto, perché se si potesse dimostrare che Dio è causa mediata di un effetto, si potrebbe dimostrare anche che è causa immediata di un altro nel genere della causa efficiente. Ma questa seconda tesi non si può dimostrare, perciò neppure la prima. Per cui si conclude che non può naturalmente dimostrarsi che Dio è causa efficiente totale o parziale di alcun effetto.
Taluni sostengono che è possibile perché – come detto nel libro XII della Metafisica (di Aristotele) – un solo mondo non può avere che un solo principe; ora, poiché si può dimostrare filosoficamente che c’è un mondo solo, come attesta Aristotele nel primo libro “Del cielo”, si può anche dimostrare filosoficamente che c’è un signore solo, ma tale Signore è Dio; dunque ecc.
Si può tuttavia opporre che un articolo di fede non è mai dimostrabile in modo evidente, e siccome la proposizione che vi è un solo Dio è un articolo di fede, quindi ecc. Accingendoci a risolvere tale questione, spiegherà innanzitutto che cosa si debba intendere con il termine “Dio”; risponderò, quindi, alla questione.
Quanto al primo punto dico che del termine “Dio” possiamo dare due diverse definizioni. La prima è questa: Dio qualcosa che supera ogni altra cosa diversa in eccellenza ed in perfezione. La seconda è questa: Dio è l’essere di cui non ne esiste uno migliore e più perfetto..
Quanto al secondo punto dico che, se prendiamo il termine “Dio” nella prima definizione, non possiamo dimostrare in via apodittica che esiste un solo Dio. La ragione è che non si può sapere in maniera evidente se Dio, inteso in tal modo, esista, e quindi non possiamo neppure sapere se Dio, inteso in tal senso, sia soltanto uno. La conseguenza è chiara. La premessa si dimostra così: la proposizione “Dio esiste” non è immediatamente evidente, poiché molti dubitano di essa; non si può neppure dedurre da premesse immediatamente evidenti, poiché ogni argomentazione implica qualcosa di dubbio o di accettare per fede; e non è neppur evidente per l’esperienza, come è chiaro.
Dico inoltre che se si potesse dimostrare in modo evidente l’esistenza di Dio – intendendo “Dio” nel senso indicato dalla prima definizione -, in tal caso si potrebbe anche dimostrare la sua unicità. Infatti, se esistessero due Dei A e B, A sarebbe, in base a quella definizione, un essere più perfetto di qualunque altro, e quindi anche più perfetto di B, e B meno perfetto di A. Nello stesso modo, tuttavia, anche B sarebbe, per definizione, più perfetto di A, e A di B; cosa che è evidentemente contraddittoria. Sicché, ove fosse possibile dimostrare in modo apodittico che Dio esiste nel senso della prima definizione, sarebbe pure possibile dimostrarne l’unicità.
In terzo luogo dico che non è dimostrabile l’unicità di Dio, se intendiamo Dio nel senso della seconda definizione. Però anche questa proposizione negativa – “non si può dimostrare con evidenza che esiste un solo Dio” – non può essere dimostrata a sua volta in modo apodittico; giacché è possibile dimostrare che l’unicità di Dio è indimostrabile solo confutando tutti gli argomenti contrari. Così come non è possibile dimostrare in modo apodittico che le stelle sono di numero pari, o che le persone divine sono tre. Né, tuttavia, si possono dimostrare in modo evidente le proposizioni negative: e cioè che non è possibile dimostrare che le stelle sono pari, e che in Dio vi sono tre Persone.
Dobbiamo però sapere che è possibile dimostrare l’esistenza di Dio se intendiamo “Dio” nel significato della seconda definizione. Altrimenti, infatti, si verificherebbe un processo all’infinito se tra tutti gli esseri ve ne fosse uno del quale non potesse darsene un altro anteriore o più perfetto. Da ciò, per altro, non consegue affatto che di tali esseri ne esista uno solo; noi lo teniamo solamente per fede.

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Oggi la teologia non è più il luogo delle risposte, ma delle domande senza risposta: del silenzio di Dio. Ai nuovi teologi piace ascoltare il suono della propria voce mentre formulano domande alle quali nessuno può rispondere: neanche Dio, visto che nessuno può averne conoscenza.

La teologia inizia a morire con Guglielmo di Ockham

di Francesco Lamendola
 continua su:

SANTITA': UNA FORMA DI IDIOZIA?

                                              
Dostoevskij e una domanda blasfema: la santità è una forma di “idiozia”? Era folle l’amore di Gesù per gli uomini quando Lui stesso aveva ammonito che non si devono regalare perle ai porci, perché non vogliono perle ma ghiande?
di Francesco Lamendola

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Se si volesse riassumere in una semplicissima formula la differenza, veramente abissale, che esiste fra l’etica moderna e l’etica cristiana (cristiana, non medievale: l’essenza del cristianesimo è sempre quella e non cambia col cambiare dei secoli) potremmo dire così: per l’etica moderna, di matrice razionalista e umanista, l’amore del prossimo, concepito su una base meccanicista e utilitarista, è solo uno slogan pubblicitario, a meno che coincida oggettivamente con l’interesse del soggetto in questione, nel quale caso è un amore condizionato e quindi “malato”; mentre per l’etica cristiana l’amore del prossimo, che ha la sua fonte, il suo sostegno e la sua garanzia nell’amore di Dio, è gratuito e tendenzialmente incondizionato, ma al tempo stesso è un amore profondamente  “sano”, cioè non legato a logiche di dominio o di convenienza.

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 Il cristiano prende a  modello Cristo; ma Cristo è un modello troppo alto: nessuno può avvicinarsi alla sua santità, e, se per assurdo lo potesse, ciò finirebbe per destabilizzare qualsiasi società.

L’amore del prossimo è il luogo più caratteristico ove si dispiega il modo di vita ispirato al modello della santità. È un modello cristiano, che non ha l’equivalente nell’etica laica nei secoli che vanno dall’umanesimo, all’illuminismo, al positivismo; e che altro è la santità, se non amore, amore gratuito, amore oblativo, offerto spontaneamente in nome di Dio, padre di tutti gli uomini? E che altro è un simile amore, date le caratteristiche della natura umana – la durezza, l’egoismo, l’avidità - se non follia? Dal punto di vista umano, infatti, è da folli amare in quel modo. Ciò significa che il cristianesimo, consapevole dei limiti oggettivi della condizione umana, fa perno sull’amore per Dio, e sulla grazia che viene da Dio, per oltrepassarli: perché solo uscendo dalla spirale perversa dell’amore egoistico di sé, si può sperare in un futuro nel quale si possa realizzare un giusto equilibrio fra il bene del singolo e quello della comunità. L’Europa ha avuto un’anima finché il cristianesimo è stato la sua anima; quando é nata e si è affermata la civiltà moderna, l’Europa ha perso la sua anima, perché ha completamente scordato il modello della santità, cioè il modello dell’amore eroico e disinteressato. Una cultura che non conosce questo tipo di amore, una cultura che conosce solo l’amore di possesso e d’interesse, è una non cultura, una contro-cultura: e tale è stata, e lo è divenuta sempre più, la cosiddetta cultura moderna. Si pensi alla letteratura, alle arti figurative, alla musica, al cinema della modernità: sono il luogo dell’amore egoistico, disordinato e autodistruttivo di se stessi; il luogo dove gli altri sono, per definizione – come dice Sartre – il nostro inferno. E se gli altri sono l’inferno, come è possibile amarli? Da ciò la caratteristica ambivalenza, per non dire la schizofrenia, della cultura moderna: tanto filantropica a parole, quanto ferocemente aggressiva nei fatti. Si osservino gli esponenti più tipici di questa cultura, i professori, sia di liceo, sia universitari: sono, al novanta per cento, mondialisti, europeisti, laicisti, immigrazionisti, relativisti, ambientalisti, pacifisti, progressisti e gay-friendly; considerano razzismo qualsiasi riserva sull’invasione quotidiana dell’Italia, e antisemitismo qualsiasi osservazione sul ruolo della grande finanza ebraica, e omofobia qualsiasi obiezione sulla diffusione dell’ideologia gender e negli asili e nelle scuole elementari. Però, nello stesso tempo, quando si trovano a faccia a faccia con chi non la pensa come loro, sono i più rabbiosi, rancorosi, vendicativi, intolleranti, spietati e totalitari: sempre pronti a querelare, a calunniare, a insultare, a denigrare, ad augurare la morte, a invocare sanzioni draconiane e memorabili. Tanto per stabilire una volta per tutte che indietro non si torna, che loro sono il bene e non si lasciano giudicare da nessuno, ma in compenso hanno il diritto di processare per direttissima chiunque altro. Loro sì, gli altri no. Perché? Perché loro sono la Coscienza Morale del Paese, anzi, del mondo: se non esistessero, bisognerebbe inventarli. Tutti gli altri sono superflui; loro sono indispensabili.

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La schizofrenia, della cultura moderna: tanto filantropica a parole, quanto ferocemente aggressiva nei fatti. Quando i loro esponenti si trovano a faccia a faccia con chi non la pensa come loro, sono i più rabbiosi e intolleranti: loro sono la Coscienza Morale del Paese, anzi, del mondo: se non esistessero, bisognerebbe inventarli. Tutti gli altri sono superflui; loro sono indispensabili!

Ma chi  il santo cristiano? È colui che si ispira, come unico modello, a Cristo. E chi è Cristo? È colui che ha amato senza misura, gratuitamente, totalmente. È chiaro che si tratta di un modello irraggiungibile. Di più: è chiaro che Gesù non pretende tanto dalla maggior parte degli uomini. Se milioni di persone volessero perseguire un simile modello di santità, tutto il corpo sociale si fermerebbe e imploderebbe. Tuttavia, e qui sta il punto, non esiste un tale “pericolo”, di fatto. Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti: Gesù conosce molto bene le debolezze della natura umana e sa che, arrivando al dunque, solo pochi, pochissimi, sono capaci di prenderlo a modello, caricarsi la propria croce sulle spalle, e seguirlo. Sa anche che è grazie al sacrificio di quei pochi che l’intera umanità può continuare a esistere, e che la maggioranza degli esseri umani può seguitare a disperdere follemente le proprie energie, il proprio tempo, le proprie sostanze. Quei pochi prendono si di sé tutto l‘amore e tutto il dolore del mondo, e rendono possibile la sopravvivenza del genere umano. Se la massa degli uomini continua ad esistere, è perché una piccola minoranza si sacrifica. A differenza di quel che pensano le filosofie politiche moderne, gli uomini non sono buoni per natura e non riuscirebbero a coabitare per ventiquattro ore senza saltarsi al collo gli uni degli altri, se non ci fossero quei coraggiosi, quei generosi che, prendendo a modello Gesù Cristo, l’Uomo dei Dolori, si sacrificano e si prendono sulle spalle la croce anche per loro. Quei cattolici progressisti e ottimisti secondo i quali il Vangelo è la religione della gioia e della pace, dovrebbero riflettere che sia la gioia, sia la pace, nel linguaggio cristiano assumono una tonalità che le distingue nettamente dai corrispondenti concetti laici. La gioia del cristiano non è la gioia del mondo, e la pace del cristiano non è la pace del mondo. Voler fare del cristianesimo, con la scusa dell’apertura e del dialogo, una religione che va d’amore e d’accordo con il mondo moderno, significa tradire il cristianesimo e uccidere lo spirito del Vangelo: cioè collaborare alla strategia che il diavolo persegue da sempre.

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 Solo uscendo dalla spirale perversa dell’amore egoistico di sé, si può sperare in un futuro nel quale si possa realizzare un giusto equilibrio fra il bene del singolo e quello della comunità.

La santità è una forma di “idiozia”?

di Francesco Lamendola
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