Perché la lettera di Ratzinger ha fatto infuriare i progressisti
Il ritorno in campo di Joseph Ratzinger ha suscitato la consueta bufera. I progressisti continuano a odiarlo, mentre i conservatori provano ancora nostalgia
Joseph Ratzinger è tornato in campo dopo mesi di silenzio, ma i progressisti lo combattono come se fosse il primo giorno di pontificato.
Il ritorno in campo di Joseph Ratzinger ha suscitato la consueta bufera. I progressisti continuano a odiarlo, mentre i conservatori provano ancora nostalgia
Joseph Ratzinger è tornato in campo dopo mesi di silenzio, ma i progressisti lo combattono come se fosse il primo giorno di pontificato.
Benedetto XVI non è più papa, ma questo aspetto, che non è per nulla formale, sembra non rappresentare una condizione sufficiente per porre un freno al coro degli antiratzingeriani.
L'insieme di voci ostili che abbiamo imparato a conoscere bene tra il 2005 e il 2013 è tornato. Lo stesso coro laicista che ha costruito una narrativa falsa, basata sul presunto oscurantismo e sull'accostamento di definizioni poco consone, quali quella di "pastore tedesco". Basta una semplice occhiata ai commenti apparsi sulle piattaforme social poche ore dopo la pubblicazione degli appunti, per avere contezza di come molti commentatori - anche vicini ad ambienti vaticani - si siano allarmati per la mossa e per i contenuti del testo con cui il teologo tedesco ha indicato la strada per il ripristino della "credibilità" perduta dalla Chiesa cattolica.
Non è un neofita a dire la sua. Quando Benedetto XVI accusa il '68 di aver sdoganato gli abusi sessuali e la pedofilia in genere, parla da pontefice recordman per numero di sacerdoti "spretati" per violenze ai danni di minori e di adulti vulnerabili e da riformatore delle norme, in senso restrittivo, rigurdanti quei comportamenti. È stato lui, il "papa conservatore", a porre la questione a Giovanni Paolo II. Erano gli inizi del nuovo millennio ed era prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede. Joseph Ratzinger nelle 18 pagine si è riferito, poi, a una fase storica specifica: quella in cui, tanto gli ambienti ecclesiastici quanto la società civile, sono stati interessati per la prima volta da un'assoluta relativizzazione valoriale.
Il relativismo, da sempre, è l'avversario individuato dal pontefice emerito. Quello da sconfiggere nel caso esista un reale interesse a salvare l'Occidente e la civiltà occidentale. Il professore di Tubinga, ieri, si è rivolto al mondo, ma ha parlato soprattutto ai "suoi", cioè allaChiesa cattolica. Su Il Corriere della Sera si legge della sorpresa suscitata in Vaticanodall'uscita di queste diciotto pagine. Non sarebbe la prima volta che Joseph Ratzinger stupisce in termini di proceduralità. Qualcuno si ricorderà della vicenda della "lettera tagliata". Quella che ha portato alle dimissioni di monsignor Dario Edoardo Viganò. "Curioso paradosso - aveva scritto il teologo Andrea Grillo in quel frangente - : chi ha promesso solennemente di tacere, ha parlato senza prudenza. Chi invece per mestiere e ministero doveva parlare, e ha parlato chiaro, perché mai dovrebbe tacere?”. Ma queste, rispetto al contenuto della riflessione diffusa ieri, sono minuzie. Il punto più discusso, come evidenziato dal professor Massimo Fagioli sull'Huffington Post, è la collocazione temporale dell'inizio della decadenza dei costumi. Perché le tesi di Benedetto XVI arriverebbero a mettere in discussione la bontà del Concilio Vaticano II. A dire il vero, il papa emerito sembra aver accusato determinati ambienti specifici, quelli che hanno operato per un certo periodo di tempo in Germania e negli Stati Uniti, e non l'assetto complessivo post - conciliare, che lo stesso Joseph Ratzinger, da riformista qual è, ha contribuito a sviluppare.
Certo, in maniera diversa dal parere di papa Francesco, nell'analisi di Benedetto XVI non viene assegnato un ruolo preminente al "clericalismo". Gli abusi ai danni di minori, insomma, hanno per il teologo teutonico un'origine di carattere culturale e non rilevano solamente rispetto ai rapporti gerarchici tra consacrati. Il 68, nella visione dell'emerito, coincide con l'inizio della crisi delle vocazioni. I seminari - questo è uno degli aspetti del suo discorso - hanno fatto fronte a quella situazione, smettendo di fare selezione. Da questa prassi, poi, è derivata la "crisi" di credibilità. Sembra difficile che queste argomentazioni, come alcuni invece temono, possano essere utilizzate in modo strumentale contro il pontefice regnante. Benedetto XVI ha premesso di aver avuto una sorta di placet da parte di papa Bergoglio e della segreteria di Stato, ma non basta: Joseph Ratzinger - si legge o si deduce da quello che viene scritto in giro - deve tacere, perché non è più papa. Quasi come se qualcuno lo volesse fuori dal Vaticano.
Nel '68, prendendo una "direzione ostinata e contraria", Joseph Ratzinger scrisse Introduzione al Cristianesimo, che è un testo considerato, ancora oggi, tanto centrale quanto attuale in termini dottrinali. Il che ha rappresentato, considerando il fenomeno sociale dell'epoca, una scelta coraggiosa e restauratrice. Potrebbero sembrare le medesime motivazioni che hanno mosso l'emerito nel suo attacco al "collasso morale". C'è un punto, però, forse un po' sottovalutato, che pone Benedetto XVI in continuità con il papa argentino: l'appello volto a farla finita col garantismo più totalizzante. Quello che sembra aver permesso a tanti consacrati responsabili di abusi di farla franca.
“Tolleranza zero” addio. Ma la “trasparenza” è ancora di là da venire
Quello che gli attuali vertici della Chiesa non sono stati capaci di dire – prima, durante e dopo il summit in Vaticano del 21-24 febbraio sugli abusi sessuali compiuti da ministri consacrati – l’ha detto e scritto il “papa emerito” Benedetto XVI negli “appunti” che ha reso pubblici l’11 aprile, dopo averne informato il segretario di Stato cardinale Pietro Parolin e papa Francesco.
Joseph Ratzinger è andato alla radice dello scandalo: alla rivoluzione sessuale del ’68, al “collasso” della dottrina e della morale cattolica tra gli anni Sessanta e Ottanta, alla caduta della distinzione tra bene e male e tra verità e menzogna, al proliferare nei seminari di “club omosessuali”, all’imporsi di un “cosiddetto garantismo” che rendeva intoccabili chi giustificava tali novità compresa la stessa pedofilia, in ultima analisi a un allontanamento da quel Dio che è la ragione di vita della Chiesa e il senso d’orientamento di ogni uomo.
Da cui consegue, a giudizio di Ratzinger, che il compito della Chiesa di oggi è di ritrovare il coraggio di “parlare di Dio” e di “anteporre” Dio a tutto, di tornare a crederlo realmente presente nell’eucaristia invece che “declassarla a gesto cerimoniale”, di guardare alla Chiesa come piena di zizzania ma anche di buon grano, di santi, di martiri, da difendere dal discredito del Maligno, senza illudersi di rifarne da noi stessi una migliore, tutta politica, che “non può rappresentare alcuna speranza”.
È un’analisi che farà certamente discutere, questa di Ratzinger, visto com’è distante da ciò che si dice e si fa oggi ai vertici della Chiesa riguardo allo scandalo degli abusi sessuali, in un’ottica che è sostanzialmente giudiziale e che oscilla tra i due poli della “tolleranza zero” e del garantismo.
Un garantismo tutto diverso da quello – "cosiddetto" – richiamato da Ratzinger, perché riguarda piuttosto i diritti di difesa degli imputati, la presunzione di innocenza fino alla sentenza definitiva e la proporzionalità della pena, e che è utile misurare come viene impiegato oggi nei confronti di cardinali e arcivescovi implicati in abusi.
Concentrando l’analisi su quest’ultimo punto, ecco che cosa se ne può ricavare.
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Fino allo scorso autunno la formula “tolleranza zero” era una delle più ricorrenti nelle parole e negli scritti di papa Francesco, per dire come contrastare gli abusi sessuali del clero su vittime di minore età.
Ma da allora è scomparsa. Sparita nel documento finale del sinodo sui giovani; sparita nella successiva esortazione apostolica “Christus vivit”; sparita nei discorsi e documenti del summit sugli abusi tenuto in Vaticano dal 21 al 24 febbraio.
Anzi, all’inizio di quel summit Francesco distribuì ai convenuti 21 “punti di riflessione” scritti di suo pugno che con la “tolleranza zero” non andavano per niente d’accordo.
Il punto 14 ad esempio diceva:
“Occorre salvaguardare il principio di diritto naturale e canonico della presunzione di innocenza fino alla prova della colpevolezza dell’accusato.”.
E il punto 15:
“Osservare il tradizionale principio della proporzionalità della pena rispetto al delitto commesso. Deliberare che i sacerdoti e i vescovi colpevoli di abuso sessuale su minori abbandonino il ministero pubblico”.
I provvedimenti adottati in questi ultimi due mesi contro cinque cardinali e arcivescovi finiti sotto processo per abusi commessi o “coperti” confermano in pieno questo mutamento di linea.
Non c’è un provvedimento che sia uguale a un altro. E solo in un caso esso è consistito nella riduzione allo stato laicale del condannato, quando invece, in forza della “tolleranza zero”, questa sarebbe dovuta essere la sanzione da comminare a tutti, anche a chi abbia commesso un solo abuso su una sola vittima in anni lontani.
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Ad essere ridotto allo stato laicale, si sa, è stato soltanto l’ex cardinale Theodore McCarrick. Nessuno, invece, degli altri quattro sanzionati prima e dopo di lui.
Il cardinale australiano George Pell e il cardinale francese Philippe Barbarin, entrambi condannati dai tribunali secolari dei rispettivi paesi ed entrambi in attesa di un processo di appello, hanno avuto nel foro ecclesiastico un trattamento molto diverso, più pesante con Pell e più garantista con Barbarin, come Settimo Cielo ha documentato:
Ancora più indulgente è apparso il papa con il cardinale Ricardo Ezzati Andrello, del quale s’è limitato il 23 marzo ad accettare le dimissioni da arcivescovo di Santiago del Cile, il giorno dopo della sua chiamata a processo per occultamento di abusi.
E ancora diverso dai precedenti è stato il trattamento dell’ex arcivescovo di Agaña nell’isola di Guam, Anthony Sablan Apuron (nella foto), condannato in forma definitiva lo scorso 7 febbraio – con sentenza resa nota il 4 aprile dalla congregazione per la dottrina della fede – a scontare queste tre pene: “la privazione dell’ufficio; il divieto perpetuo di dimorare anche temporaneamente nell’arcidiocesi di Agaña; il divieto perpetuo di usare le insegne proprie dell’ufficio di vescovo”.
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Dal momento che l’isola di Guam, nel Pacifico, è territorio degli Stati Uniti, Apuron è il primo arcivescovo statunitense finora colpito da una condanna canonica definitiva per abusi sessuali, sei giorni prima di quel 13 febbraio in cui fu laicizzato McCarrick.
Ma appunto, a differenza di quest’ultimo, Apuron non è stato ridotto allo stato laicale, nonostante anche lui sia stato riconosciuto colpevole di “delitti contro il sesto comandamento con minori”. Continua a poter celebrare, sia pure lontano da Guam e senza portare le insegne episcopali.
E questo contrasta vistosamente con la “tolleranza zero” che è la parola d'ordine della Chiesa cattolica degli Stati Uniti a partire dalla “Carta di Dallas” del 2002, quando era presidente della conferenza episcopale proprio quel Wilton Gregory che papa Francesco ha promosso ad arcivescovo di Washington il giorno stesso della pubblicazione della mite condanna di Apuron.
Ma come si è giunti a questo epilogo?
In prima istanza, il caso di Apuron fu giudicato da una giuria presieduta dal cardinale Raymond L. Burke, canonista di chiara fama, anche lui statunitense ma molto attento alle garanzie da assicurare agli imputati, nominato a questo ruolo personalmente da papa Francesco.
Questo primo processo si concluse il 16 marzo 2018 con una condanna per abusi su minori e con la rimozione di Apuron da arcivescovo di Guam.
Apuron tuttavia ricorse in appello. E in Vaticano ripartì un nuovo processo canonico, questa volta presieduto personalmente da Francesco, stando a quanto da lui rivelato nella conferenza stampa del 26 agosto scorso, di ritorno dall’Irlanda:
“L’arcivescovo di Guam è ricorso in appello e io ho deciso – perché era un caso molto, molto complesso – di usare un diritto che ho io, di prendere su di me l’appello e non mandarlo al tribunale d’appello che fa il suo lavoro con tutti i preti, ma l’ho preso su di me. Ho fatto una commissione di canonisti che mi aiuti e mi hanno detto che, in breve, un mese al massimo, sarà fatta la ‘raccomandazione’ perché io faccia il giudizio. È un caso complicato, da una parte, ma non difficile, perché le evidenze sono chiarissime; dal lato delle evidenze, sono chiare. Ma non posso pre-giudicare. Aspetto il rapporto e poi giudicherò. Dico che le evidenze sono chiare perché sono quelle che hanno portato il primo tribunale alla condanna”.
E siamo alla sentenza di condanna definitiva del 7 febbraio di quest’anno. Contro la quale però Apuron continua a protestarsi innocente, vittima “di un gruppo di pressione che ha progettato di distruggere me” reclutando accusatori “persino dietro offerta di denaro”.
In effetti, un dettagliato reportage pubblicato il 20 settembre 2017 su “Vatican Insider” aveva dato una descrizione inquietante delle lotte di potere ai vertici dell’arcidiocesi di Agaña, prima e dopo l’avvio del processo contro Apuron, lotte non sopite ma divenute ancor più furibonde durante la fase di commissariamento dell’arcidiocesi affidato dal Vaticano all’allora segretario di “Propaganda Fide” Savio Hon Taifai e all’arcivescovo coadiutore Michael Jude Byrnes, oggi promosso titolare.
Che alcune delle accuse rivolte contro Apuron fossero inconsistenti l’aveva riscontrato anche la giuria presieduta dal cardinale Burke, che però aveva ritenuto provati un paio di delitti, con la conseguente condanna.
Resta tuttavia il fatto che dei due processi pochissimo è stato reso noto. E Apuron non aveva torto quando ha dichiarato, dopo la seconda e definitiva condanna, che “il segreto pontificio mi impedisce di difendere il mio buon nome in pubblico”.
Durante il summit del 21-24 febbraio diverse voci – tra cui quella del cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e membro del consiglio dei cardinali che coadiuvano Francesco nel governo della Chiesa universale – si sono levate ad invocare l’allentamento del segreto pontificio che preclude l’accesso agli atti dei processi canonici.
Ma nulla finora è cambiato, su questo. E se davvero si vogliono superare le ingiustificabili rigidità della “tolleranza zero” in nome dei diritti di difesa degli imputati e della proporzionalità delle pene, anche la tanto decantata “trasparenza” deve essere messa in pratica, con la pubblicazione non solo delle sentenze finali, ma anche del percorso che le ha prodotte.
Settimo Cielo
di Sandro Magister 12apr
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