ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 16 maggio 2019

Farisei.. quando mai..!?

Un’ebrea speciale, i farisei e una buona occasione persa da papa Francesco



“Malgrado i progressi nel lavoro storico sui farisei, la predicazione in tutto il mondo cristiano continua a raffigurare questi maestri ebrei come xenofobi, elitari, legalistici, amanti del denaro e ipocriti moralisti. Per giunta, in genere il termine ‘fariseo’ sottintende ‘ebreo’, giacché molti ebrei e cristiani considerano i farisei i precursori del giudaismo rabbinico. Pertanto, anche quando i cristiani utilizzano il termine ‘fariseo’ per denunciare il clericalismo in contesti ecclesiali, non fanno altro che rafforzare il pregiudizio nei confronti degli ebrei”.
Così Amy-Jill Levine, ebrea statunitense della Vanderbilt University, ha esordito nella conferenza da lei tenuta il 9 maggio a Roma alla Pontificia Università Gregoriana, in un convegno dedicato al tema “Gesù e i farisei. Un riesame multidisciplinare”.
Ma chi utilizza a tutto spiano il termine “fariseo” per denunciare “il clericalismo in contesti ecclesiali” se non papa Francesco in persona?

Il bello è che l’autrice di questa stoccata al papa fa parte da questo mese di maggio del nuovo comitato di direzione di “Donne Chiesa Mondo”, il supplemento mensile de “L’Osservatore Romano”, il giornale ufficiale della Santa Sede.
Chi è Amy-Jill Levine? L’ha raccontato lei stessa in una brillante nota autobiografica su “L’Osservatore Romano” del 5 maggio, in occasione di un precedente convegno anch’esso tenuto alla Gregoriana.
E il 9 maggio papa Francesco l’ha incontrata di persona, ricevendo i partecipanti al convegno sui farisei. Invece di leggere il discorso preparatogli da mani esperte per l’occasione, il papa ha preferito – e l’ha detto – “salutare uno ad uno tutti i partecipanti”.
Quel discorso – se letto – avrebbe consentito per la prima volta a Francesco di aggiustare pubblicamente il tiro nell’utilizzo che egli spesso fa del termine “fariseo”, per attaccare e squalificare come rigidi, ipocriti, egoisti, avidi, legulei, vanitosi i suoi oppositori dentro la Chiesa.
Agli ebrei ovviamente non è mai piaciuto questo utilizzo del termine “fariseo” da parte del papa. Al punto che Riccardo Di Segni, il rabbino capo di Roma, dopo un’udienza del 27 aprile 2015, disse di avere esposto le sue rimostranze e “spiegato il perché” a Francesco, che “prese atto delle mie osservazioni”.
Anche dopo, però, Francesco non ha mai cessato di brandire il fariseismo come arma contro i suoi oppositori, soprattutto nelle sue omelie mattutine a Santa Marta, come ad esempio, tra le più recenti, quelle del 16 ottobre e del 19 ottobre 2018.
Quando invece nel Nuovo Testamento non vi sono soltanto scontri polemici tra Gesù e i farisei. C’è l’apprezzamento per farisei di spicco come Gamaliele e Nicodemo. Ci sono i farisei che Gesù stesso dice “vicini al regno di Dio” per il primato da loro dato al comandamento dell’amore di Dio e del prossimo. C'è la fierezza con cui l'apostolo Paolo parla di sé come fariseo.
Tutto questo era ben spiegato nel discorso non letto da papa Francesco, assieme alla conseguente correzione dello stereotipo negativo tuttora associato ai farisei.
Ma tornando ad Amy-Jill Levine, ecco qui di seguito alcuni passaggi del suo autoritratto pubblicato su “L’Osservatore Romano” del 5 maggio. Una personalità da tenere d’occhio, la sua, visto il ruolo che ora svolge nel nuovo comitato di direzione di “Donne Chiesa Mondo”.
*
UN’EBREA CHE DA BAMBINA ANDAVA A MESSA
Sono un’ebrea che ha trascorso più di mezzo secolo a studiare il Nuovo Testamento. La mia situazione è diversa da quella dei cristiani che insegnano l’Antico Testamento: l’Antico Testamento è parte della Bibbia della Chiesa; il Nuovo Testamento non è una Scrittura della Sinagoga. […]
Non solo studio la Scrittura altrui, ma scrivo anche del Signore altrui. Questo è sia un immenso privilegio, sia un’immensa responsabilità. Anche se non rendo culto a Gesù, i suoi insegnamenti mi affascinano come studiosa e mi ispirano personalmente, come ebrea fedele alla mia tradizione.
Per spiegare come faccio e che cosa faccio, devo spiegare perché lo faccio, ovvero perché io, come ebrea, sin dall’infanzia lavoro nella vigna del Nuovo Testamento.
Mentre crescevo in un quartiere portoghese-cattolico agli inizi degli anni Sessanta, in Massachusetts, i miei amici mi portavano in chiesa. Assistere alla messa per me era come assistere alle funzioni in sinagoga: le persone erano sedute sui banchi mentre uomini in vesti lunghe parlavano una lingua – i sacerdoti in latino, i rabbini e i cantori in ebraico – che io non capivo del tutto. […]
I miei genitori mi dicevano che il cristianesimo – che significava la religione cattolica romana – era come l’ebraismo: adoravamo lo stesso Dio, Colui che ha creato i cieli e la terra; ci erano cari gli stessi libri, come la Genesi e Isaia; recitavamo i Salmi. Mi dissero anche che i cristiani seguivano Gesù, un ebreo. […]
Finalmente, da adolescente lessi il Nuovo Testamento. Lì […] compresi due fatti che hanno caratterizzato la mia vita accademica: primo, siamo noi a scegliere come leggere; secondo, il Nuovo Testamento è storia ebraica. […]
A guidare i miei studi sono dunque l’ermeneutica e la storia. […] Questo significa correggere gli stereotipi falsi e negativi degli ebrei che hanno alcuni cristiani. Se caratterizziamo male l’ebraismo giudeo, galileo e della diaspora, fraintendiamo anche Gesù e Paolo. La cattiva storia porta a cattiva teologia, e la cattiva teologia fa male a tutti.
Dobbiamo anche sradicare gli stereotipi falsi e negativi del cristianesimo che hanno alcuni ebrei. Occorre lavorare da entrambe le parti.
Come studiosa ebrea del Nuovo Testamento, sono interessata a come i Vangeli descrivono la tradizione ebraica e a come quella tradizione finisce per essere rappresentata dagli interpreti cristiani. Questo studio mi rende un’ebrea migliore: meglio informata sulla storia ebraica e più capace di correggere interpretazioni storicamente inaccurate e pastoralmente poco fedeli.
In primo luogo, i Vangeli sono una fonte straordinaria per la storia delle donne ebree. […] L’insegnamento comune secondo il quale Gesù respingeva un ebraismo misogino che opprimeva le donne è sbagliato. Le donne seguivano Gesù non perché erano oppresse dall’ebraismo; lo facevano per il suo messaggio del regno del cielo, le sue guarigioni e gli insegnamenti, la sua nuova famiglia dove tutti sono madre o fratello o sorella.
In secondo luogo, i Vangeli ci ricordano la diversità delle visioni ebraiche del I secolo, diversità confermata da fonti esterne come lo storico ebreo Giuseppe e il filosofo ebreo Filone, i rotoli del Mar Morto, gli pseudoepigrafi, perfino l’archeologia. In tali fonti troviamo punti di vista differenti su matrimonio e celibato, fato e libero arbitrio, cielo e inferi, risurrezione del corpo e immortalità dell’anima, adeguamento all’impero romano e resistenza contro lo stesso.
In terzo luogo, rispetto profondamente le istruzioni di Gesù su come intendere gli insegnamenti ricevuti da Mosè sul monte Sinai. Gesù non solo segue la Torah, ma ne intensifica gli insegnamenti. In aggiunta al comandamento contro l’assassinio, egli vieta l’ira; in aggiunta al comandamento contro l’adulterio, egli vieta la lussuria. Questi insegnamenti sono ciò che la tradizione rabbinica definisce “costruire una recinzione intorno alla Torah”, ovvero proteggerla dalle violazioni. […]
Anche quando Gesù pronuncia invettive contro altri ebrei, come in Matteo 23 con il suo ritornello “guai a voi, scribi e farisei”, a me suona molto ebraico. Sembra di sentire Amos e Geremia; sembra anche di sentire mia madre, che di tanto in tanto si lamentava delle decisioni prese dai capi della nostra sinagoga. Gli ebrei hanno avuto una lunga storia di “tochecha”, di rimprovero, basata su Levitico 19, 17: “Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai d’un peccato per lui”. Il verso successivo è il famoso “amerai il tuo prossimo come te stesso”. Tuttavia, mi sono anche resa conto che quando le parole di Gesù agli altri ebrei vengono estrapolate dal loro contesto storico e poste nel canone della Chiesa dei gentili, le parole agli ebrei diventano parole sugli ebrei, e il discorso profetico può sembrare antisemitismo. Per questo il contesto storico è importante.
In quarto luogo, amo le parabole. […] Le parabole di Gesù accusano e divertono, provocano e intrattengono: questa è la miglior forma di insegnamento, è una forma ebraica e Gesù la applica brillantemente. E per di più, le parabole mi aiutano a trovare nuove intuizioni riguardo alle mie Scritture. Il buon Samaritano attinge al Secondo libro delle Cronache 28; il figliol prodigo mi fa riconsiderare Caino, Ismaele ed Esaù.
In quinto luogo, i racconti di concepimenti miracolosi, della voce di Dio che discende dai cieli e della resurrezione sono di casa nell’ebraismo del primo secolo. In quel contesto, anche il magnifico prologo di Giovanni – “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” – è molto ebraico. Piuttosto che considerare gli insegnamenti cristologici come delle intrusioni pagane, noi ebrei dobbiamo riconoscere come questi insegnamenti avevano un senso per alcuni ebrei del I secolo.
Ma quello che aveva un senso per alcuni ebrei del I secolo, non lo ebbe più per gli ebrei di quattro secoli dopo. Le nostre tradizioni si sono allontanate man mano che gli ebrei e i cristiani hanno sviluppato le proprie pratiche e credenze. […] Va bene. Non raggiungeremo un accordo su tutto fino a quando non verrà – o, se preferite, ritornerà – il Messia. Ma fino ad allora, faremo bene ad ascoltare con le orecchie gli uni degli altri. Con l’apprendimento giunge la comprensione, e con la comprensione il rispetto.
Quando i cristiani leggono la Genesi o Isaia o i Salmi, vedono in quei testi cose che io come ebrea non vedo. Quando io leggo attraverso le lenti rabbiniche, negli stessi testi vedo cose che non vedono i miei amici cristiani

Settimo Cielo di Sandro Magister 16 mag

http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2019/05/16/un%E2%80%99ebrea-speciale-i-farisei-e-una-buona-occasione-persa-da-papa-francesco/



SPUTI, RABBIE E SPERANZE DI ISRAELE


Il colpevole, presto identificato, è Arik Lederman,  un architetto molto noto.  L’avvocato del sospettato  ha detto ai giornalisti che il suo cliente “era  stato allontanato dall’ambasciata polacca martedì dopo aver cercato di informarsi sulla restituzione”.
Ahimé, la Restituzione. Gli ebrei pretendono  dallo Stato polacco decine di miliardi come “restituzione” dei beni che furono loro tolti durante l’occupazione nazista della Polonia; e  la nota lobby ha  messo in atto tutta una campagna internazionale per dire che i polacchi furono all’atto pratico complici della Shoah  – a tal punto che il governo di Varsavia ha dovuto emanare una legge che vieta questo tipo di insinuazione come un delitto penale.  In compenso la nota lobby ha fatto varare dal Congresso Usa una legge – il JUST Act del 2017  –   che impegna il Dipartimento di Stato  a “riferire al Congresso sui progressi dei governi europei nel fornire restituzione e risarcimento ai sopravvissuti dell’Olocausto che persero le loro proprietà durante la guerra”.  L’ambasciatrice USA in Polonia, Gerogette Mosbacher (j) assilla e minaccia il governo polacco perché “restituisca”.  Un’attenzione speciale  della campagna  è dedicata alla Chiesa cattolica polacca, con articoli (pubblicati ad esempio sul New York Times) sulla presunta pedofilia dei sacerdoti della Polonia: secondo il giornale americano, tra  il 1990 e il 2018, 382 preti hanno abusato di  625  bambini. Come negli Stati Uniti,  l’opera di avvicinare le vittime e farle ricordare  degli abusi che avrebbero ricevuto negli anni dell’adolescenza, è organizzata da un’associazione “Non aver paura”, i cui avvocati sono “di una nazione che non posso nominare e perché sarei attaccato da tutte le  parti”; come s’è lasciato sfuggire il vescovo di Tarnow, Andrzej Jez, durante il  sermone pasquale. Secondo lui questa “nazione” è al centro della campagna diffamatoria contro la Chiesa. Ovviamente  il vescovo è stato attaccato da tutte le parti.


La baronessa  Deech nat a Fraenkel – https://jewishnews.timesofisrael.com/jewish-peer-claims-poland-is-squatting-on-property-of-3-million-shoah-victims/

Siccome l’appetito vien  mangiando, via via che la campagna mondiale anti-polacca diventa più vocale e aggressiva, anche le pretese della restituzione crescono al diapason. Da ultimo anche una pari inglese  – ma ebrea –  la “baronessa” Ruth Deech (nata Fraenkel)  è intervenuta con modi non proprio aristocratici, urlando che “la Polonia  occupa abusivamente  le proprietà di tre milioni di vittime dell’Olocausto  –  ed  è la più colpevole perché, unico paese dell’Europa moderna, si  rifiuta di istituire un sistema di risarcimento”.
Il tono, e il verbo usato  per indicare l’occupazione di beni ebraici (“squatting”) è volontariamente offensivo.
Ciò, ha strillato la Frankel,  “è un   ulteriore  esempio dell’atteggiamento sprezzante della Polonia verso lo stato di diritto e gli obblighi europei”, aggiungendo: “Il Parlamento europeo, il Congresso degli Stati Uniti e i parlamentari britannici   hanno sollecitato la Polonia a fare giustizia, finora senza risultati”.  Elenco molti istruttivo degli enti e potenze che questi hanno scatenato contro   la Polonia da cui pretendono non solo case e terreni (ormai da 50 anni abitati da polacchi), ma quadri, opere d’arte, gioielli, di tutto.   Adesso nella loro voglia di rivalsa  (e di soldi)   sono arrivate a sputare sull’ambasciatore del paese nemico.  In attesa della prossima puntata.

Un  false flag è abortito?

Lo sputo all’ambasciatore ha ovviamente provocato una protesta da parte del governo di Varsavia. Il capo del governo ha convocato l’ambasciatrice  israeliana a Varsavia, Anna Azari, alla quale ha detto che “la Polonia condanna con forza questa aggressione xenofoba. La violenza contro i diplomatici o qualsiasi altro cittadino non deve essere mai tollerata”.
L’episodio  va probabilmente inserito nell’atmosfera di  delirio collettivo che la comunità  degli eletti  prova, adesso che ritiene vicina la guerra all’Iran.
Domenica scorsa – mentre  gli Usa  mandavano la portaerei e bombardieri strategici  a minacciare l’Iran – nel Golfo persico sono avvenuti strani incidenti che hanno l’aria di un “false flag”  abortito.  Quattro  petroliere sono state vittime di un  “sabotaggio” mentre navigavano verso il Golfo Persico vicino a Fujairah, uno dei sette emirati che compongono gli Emirati Arabi Uniti (EAU), che si trova appena fuori dallo Stretto di Hormuz. Il governo di Fujairah inizialmente ha negato che qualsiasi “sabotaggio” abbia avuto luogo e ha sostenuto che le sue strutture portuali funzionavano normalmente –  smentendo l’ iraniano PressTV e il  libanese Mayadeen   che avevano riferito delle  “esplosioni” su navi non identificate nell’area.
Il ministero degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti ha successivamente confermato un incidente nell’area ma ha affermato che non si sono verificati feriti o sversamenti e in particolare non ha fornito dettagli sul numero o nazionalità delle navi coinvolte né sui gruppi responsabili del presunto attacco.
Passano ore, e  l’Arabia Saudita ha finalmente  affermato che le sue petroliere erano state colpite da tale atto di “sabotaggio” e che le petroliere  prese di mira si stavano avvicinando allo Stretto di Hormuz sulla rotta per caricare il petrolio destinato agli Stati Uniti. L’Arabia Saudita, come gli Emirati Arabi Uniti, non ha tuttavia incolpato  alcun paese per l’attacco. Una petroliera registrata in Norvegia ha subito danni allo scafo dopo aver colpito “un oggetto sconosciuto”, suggerendo potenzialmente che l’attacco è stato causato da un’esplosione di una mina. In particolare, gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia hanno tenuto un ” esercitazione  anti- mine ” nel Golfo Persico lo scorso mese e le notizie dei media occidentali hanno caratterizzato le mine di mare come ” attivo  militare preferito dell’Iran “.


I danni subiti dalla petroliera norvegese. Non abbastanza per attaccare l’Iran…























Mentre gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita non hanno incolpato alcun paese per l’attacco, gli Stati Uniti sono stati i primi a dare la colpa dopo che un gruppo di investigatori militari statunitensi ha affermato lunedì che i delegati iraniani o sostenuti dall’Iran erano responsabili. Tuttavia, altri funzionari statunitensi hanno dichiarato al New York Times che, mentre sospettavano il coinvolgimento dell’Iran, “non ci sono ancora prove definitive che colleghino l’Iran  agli attacchi denunciati”. Alla domanda su questa conclusione a cui sono arrivati ​​solo gli Stati Uniti, Il presidente Trump ha detto ai giornalisti che “sarà un grave problema per l’Iran se dovesse accadere qualcosa”.  L’Iran ha respinto ogni responsabilità per l’attacco e il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Abbas Mousavi, ha messo in guardia contro una “cospirazione orchestrata dai malvagi” e “l’avventurismo degli stranieri”.

“Israele è dalla parte di Dio”

Data questa strana sospensione, si può capire che un clima di tensione e di attesa  febbrile e fanatica abbia colto, come “état d’esprit collettivo”,  la parte messianica del popolo eletto. Domenica  l’ambasciatore americano in Israele, David Friedman (j ovviamente),  festeggiando  l’anniversario dello spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme, ha proclamato:  Israele   diventa ogni giorno più forte. Per due ragioni.  In primo luogo, ha detto, il rapporto tra i due paesi stava crescendo “sempre più forte e forte”. “E il secondo è che Israele ha un’arma segreta che non hanno  troppi paesi  –  “Israele è dalla parte di Dio, e non lo sottovalutiamo”.
David Friedman , l’ambasciatore USA in Sion, fa la sua dichiarazione sotto lo sguardo compiaciuto di Bibi.


David Friedman , l’ambasciatore USA in Sion, fa la sua dichiarazione sotto lo sguardo compiaciuto di Bibi.
https://www.maurizioblondet.it/sputi-rabbie-e-speranze-di-israele/

giovedì 16 maggio 2019

Tylko nie mów nikomu ("non dirlo a nessuno")

Segnaliamo ai nostri lettori un lungo documentario sui preti pedofili in Polonia, realizzato dal giornalista Tomasz Sekielski e intitolato Tylko nie mów nikomu ("non dirlo a nessuno"), disponibile da alcuni giorni su Youtube in polacco con sottotitoli in inglese.



Il documentario, che al momento ha superato i sedici milioni di visualizzazioni è stato finanziato da migliaia di libere donazioni (per un totale di 470.000 złoty, cioè circa 110mila euro). L'intento, come si può verificare guardandolo, non è un attacco alla Chiesa, come invece aveva insinuato qualche autore un paio di mesi fa in altra occasione.


Intanto - come dubitarne? - i Fratelli Maggiori non vedono l'ora di monetizzare tale scandalo. Citazione:
Come negli Stati Uniti, l’opera di avvicinare le vittime e farle ricordare degli abusi che avrebbero ricevuto negli anni dell’adolescenza, è organizzata da un’associazione “Non aver paura”, i cui avvocati sono “di una nazione che non posso nominare e perché sarei attaccato da tutte le parti”; come s’è lasciato sfuggire il vescovo di Tarnow, Andrzej Jez, durante il sermone pasquale. Secondo lui questa “nazione” è al centro della campagna diffamatoria contro la Chiesa. Ovviamente il vescovo è stato attaccato da tutte le parti.
https://www.maurizioblondet.it/sputi-rabbie-e-speranze-di-israele/

https://letturine.blogspot.com/2019/05/tylko-nie-mow-nikomu-non-dirlo-nessuno.html

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