Tradizione, scrittura ed eresia. Un chiarimento
L’argomento del giorno... beh non so se sia proprio l’argomento del giorno, ma certamente è una cosa che fa discutere e merita attenzione. Perfino l’americana Breitbart l’ha riportato: 19 accademici cattolici, tra cui Aidan Nichols OP, teologo di spicco nel mondo di lingua inglese, hanno inviato una lettera aperta ai vescovi, perché prendano atto del fatto che il Papa si è reso reo del crimine canonico di eresia. Interessante questione. Commentavamo con un mio amico americano l’andazzo delle cose in questo pazzo pazzo pazzo mondo, e lui mi ha ricordato come da loro “is the Pope catholic?” fosse usato quale esempio proverbiale di domanda dell’ovvio, del tipo “è bagnata l’acqua?”. L’ha ricordato, perché la riposta non appare più così ovvia, neanche a chi non è nemmeno cristiano, ma solo un ebreo simpatizzante cristiano come nel caso del mio amico: Francesco non la conta giusta. È eretico? Di primo acchito posso solo dire, per quel che vale, che se il Cristianesimo fosse quello che lui predica a me non interesserebbe. Che non è una risposta, non tanto per l’irrilevanza di una mia opinione personale, ma perché lo stesso discrimine di ortodossia ed eresia su cui potrei basarla è diventato problematico.
Chiamiamo eretico chi non ritiene vere cose che la Chiesa insegna da credere, in altre parole, chi non aderisce agli insegnamenti della Chiesa – chiamasi dottrina cristiana – nella loro cattolica integrità. Qua si pone la questione di quale sia la dottrina cristiana, e prima ancora quale importanza abbia una sua precisa definizione (con la Congregazione per la dottrina della fede che presiede ad essa). Tanti, e parrebbe perfino il capo vicario della Chiesa, si comportano come quei fedeli ai quali sant’Agostino riteneva necessario rispondere in apertura del suo De doctrina cristiana, che ritenevano non esserci bisogno di tante elucubrazioni intellettuali, poiché basta in fondo aderire a Cristo. Molto bene, ma se poi spostiamo la domanda e chiediamo chi sia Cristo? Che cosa ci diranno? “Dei Verbum”, risponde il documento del Vaticano II sulla divina rivelazione con le due parole che gli danno il titolo, proclamando Cristo appunto l’unica fonte della rivelazione, di contro al documento preparatorio che parlava di “fonti” della rivelazione.
Si è voluto in questo modo porre termine nella “Dei Verbum” alla controversia che per secoli ha opposto i protestanti, per i quali sola fonte di conoscenza per noi della rivelazione è la Scrittura, e i cattolici, per i quali invece la tradizione è tanto normativa quanto la Scritture, proclamando che in fondo, nel loro riferirsi a Cristo, esse “formano in certo qual modo una cosa sola”. In certo qual modo: l’espressione tipica di chi vuole affermare qualcosa, ma non sa come. In nessun modo tradizione e scrittura possono formare una cosa sola: i concetti sono diversi e vanno mantenuti di conseguenza distinti. Semmai li vogliamo riportare a unità, è nel primo dei due termini: genericamente parlando, la parola può farsi tradizione, orale o scritta, e anche se il riferimento resta lo stesso le due non si confondono.
Mentre si veniva definendo il canone delle scritture neotestamentarie, si definiva anche la dottrina cristiana, per il magistero degli apostoli, testimoni immediati del passaggio di Gesù Cristo nel mondo, e dei loro più prossimi successori; quando poi la trasmissione eminentemente orale nella vita della comunità dei loro insegnamenti si prolungherà nei secoli e nei millenni, quel magistero si eserciterà anche attraverso la lettura degli scritti in cui la prima traditio era stata fissata, lettura autoritativa per la sua continua aderenza alla dottrina cristiana, ovvero agli insegnamenti che all’inizio erano entrati in quegli scritti e che avevano poi determinato il modo di intenderli. Invece l’irenismo che pervade i documenti del Concilio (per un desiderio di riconciliazione con il mondo circostante improntato a un ottimismo non so quanto ingenuo o smaliziato, per non dire colpevole), ha portato ad appiattire la tradizione sulla scrittura, una posizione cripto protestante che in ambito cattolico lascia il magistero tendenzialmente svincolato dalle letture tramandate: arbitro di dottrina, può far mostra di fastidio verso chi di dottrina vorrebbe discutere.
Il discrimine di ortodossia ed eresia è diventato così incerto. Inutile è perciò accusare il Papa regnante di eresia in nome del tradizionale insegnamento della Chiesa, magari richiamandosi al Concilio di Trento come fanno gli autori della lettera ai vescovi. Senza essere mai esplicitamente detto nei suoi documenti, il Vaticano II rappresenta infatti l’anti Trento, o almeno si presta a essere preso come tale. Fu anzi salutato ad esempio da un Marie Dominique Chenue, guardando molto più indietro, come la fine dell’era costantiniana – o diciamo pure la fine della cristianità, di una società cioè che si identifica come cristiana perché trova negli insegnamenti della Chiesa la propria cultura, costringendo anche i regnanti secolari a prenderne atto.
Per capire che cosa questo significhi, bisogna però tenere presente che per chi la vive la cultura non è una tra le tante possibili concezioni del mondo, ma è semplicemente la conoscenza che ha della realtà a cui tutti gli uomini prendono parte: ogni cultura rappresenta in questo senso una pretesa di cattolicità. Nel confronto delle diverse tradizioni di sapere a cui ci obbliga l’estendersi planetario delle comunicazioni ognuno si ritrova quindi a dover affermare e difendere la valenza universale della propria tradizione. Se la Chiesa non fa questo, la fine della cristianità rischia di rappresentare la sua stessa fine. La sua difesa però, prima che alle armi (cosa comunque da non escludere), è affidata al logos. Il “logos fatto carne” è infatti – ci ricordava Benedetto XVI a Ratisbona – ciò che il Cristianesimo annuncia. Nel logos dunque, va trovato anche il discrimine di ortodossia ed eresia: un insegnamento che mantiene viva la capacità di ragionare è ortodosso, un insegnamento invece in cui quella capacità viene meno, è eretico.
Chiamiamo eretico chi non ritiene vere cose che la Chiesa insegna da credere, in altre parole, chi non aderisce agli insegnamenti della Chiesa – chiamasi dottrina cristiana – nella loro cattolica integrità. Qua si pone la questione di quale sia la dottrina cristiana, e prima ancora quale importanza abbia una sua precisa definizione (con la Congregazione per la dottrina della fede che presiede ad essa). Tanti, e parrebbe perfino il capo vicario della Chiesa, si comportano come quei fedeli ai quali sant’Agostino riteneva necessario rispondere in apertura del suo De doctrina cristiana, che ritenevano non esserci bisogno di tante elucubrazioni intellettuali, poiché basta in fondo aderire a Cristo. Molto bene, ma se poi spostiamo la domanda e chiediamo chi sia Cristo? Che cosa ci diranno? “Dei Verbum”, risponde il documento del Vaticano II sulla divina rivelazione con le due parole che gli danno il titolo, proclamando Cristo appunto l’unica fonte della rivelazione, di contro al documento preparatorio che parlava di “fonti” della rivelazione.
Si è voluto in questo modo porre termine nella “Dei Verbum” alla controversia che per secoli ha opposto i protestanti, per i quali sola fonte di conoscenza per noi della rivelazione è la Scrittura, e i cattolici, per i quali invece la tradizione è tanto normativa quanto la Scritture, proclamando che in fondo, nel loro riferirsi a Cristo, esse “formano in certo qual modo una cosa sola”. In certo qual modo: l’espressione tipica di chi vuole affermare qualcosa, ma non sa come. In nessun modo tradizione e scrittura possono formare una cosa sola: i concetti sono diversi e vanno mantenuti di conseguenza distinti. Semmai li vogliamo riportare a unità, è nel primo dei due termini: genericamente parlando, la parola può farsi tradizione, orale o scritta, e anche se il riferimento resta lo stesso le due non si confondono.
Mentre si veniva definendo il canone delle scritture neotestamentarie, si definiva anche la dottrina cristiana, per il magistero degli apostoli, testimoni immediati del passaggio di Gesù Cristo nel mondo, e dei loro più prossimi successori; quando poi la trasmissione eminentemente orale nella vita della comunità dei loro insegnamenti si prolungherà nei secoli e nei millenni, quel magistero si eserciterà anche attraverso la lettura degli scritti in cui la prima traditio era stata fissata, lettura autoritativa per la sua continua aderenza alla dottrina cristiana, ovvero agli insegnamenti che all’inizio erano entrati in quegli scritti e che avevano poi determinato il modo di intenderli. Invece l’irenismo che pervade i documenti del Concilio (per un desiderio di riconciliazione con il mondo circostante improntato a un ottimismo non so quanto ingenuo o smaliziato, per non dire colpevole), ha portato ad appiattire la tradizione sulla scrittura, una posizione cripto protestante che in ambito cattolico lascia il magistero tendenzialmente svincolato dalle letture tramandate: arbitro di dottrina, può far mostra di fastidio verso chi di dottrina vorrebbe discutere.
Il discrimine di ortodossia ed eresia è diventato così incerto. Inutile è perciò accusare il Papa regnante di eresia in nome del tradizionale insegnamento della Chiesa, magari richiamandosi al Concilio di Trento come fanno gli autori della lettera ai vescovi. Senza essere mai esplicitamente detto nei suoi documenti, il Vaticano II rappresenta infatti l’anti Trento, o almeno si presta a essere preso come tale. Fu anzi salutato ad esempio da un Marie Dominique Chenue, guardando molto più indietro, come la fine dell’era costantiniana – o diciamo pure la fine della cristianità, di una società cioè che si identifica come cristiana perché trova negli insegnamenti della Chiesa la propria cultura, costringendo anche i regnanti secolari a prenderne atto.
Per capire che cosa questo significhi, bisogna però tenere presente che per chi la vive la cultura non è una tra le tante possibili concezioni del mondo, ma è semplicemente la conoscenza che ha della realtà a cui tutti gli uomini prendono parte: ogni cultura rappresenta in questo senso una pretesa di cattolicità. Nel confronto delle diverse tradizioni di sapere a cui ci obbliga l’estendersi planetario delle comunicazioni ognuno si ritrova quindi a dover affermare e difendere la valenza universale della propria tradizione. Se la Chiesa non fa questo, la fine della cristianità rischia di rappresentare la sua stessa fine. La sua difesa però, prima che alle armi (cosa comunque da non escludere), è affidata al logos. Il “logos fatto carne” è infatti – ci ricordava Benedetto XVI a Ratisbona – ciò che il Cristianesimo annuncia. Nel logos dunque, va trovato anche il discrimine di ortodossia ed eresia: un insegnamento che mantiene viva la capacità di ragionare è ortodosso, un insegnamento invece in cui quella capacità viene meno, è eretico.
di Giorgio Salzano
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.