ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 12 luglio 2019

Un caro estinto..

Il principio di legalità si estingue nella Chiesa?



(Roberto de Mattei) Se Papa Francesco dovesse essere accusato di un crimine da qualche giudice, in qualsiasi parte del mondo, dovrebbe spogliarsi della sua carica di Sommo Pontefice della Chiesa cattolica e sottomettersi al giudizio di un tribunale. È questa la conseguenza logica e necessaria della clamorosa decisione con cui la Santa Sede ha privato dell’immunità diplomatica il nunzio apostolico in Francia, mons. Luigi Ventura, accusato di molestie sessuali. La Santa Sede avrebbe potuto dimettere il nunzio dal suo ufficio e, in attesa che la giustizia francese facesse il suo corso, avviare un’indagine canonica nei suoi confronti, anche a sua garanzia. Ma la decisione di consegnare il rappresentante pontificio nelle mani di un tribunale laico, fa saltare l’istituto dell’immunità diplomatica, espressione per eccellenza della sovranità della Chiesa e della sua libertà e indipendenza. Quella stessa immunità diplomatica, sia detto per inciso, che è stata invocata per proteggere i reati commessi in Italia dall’elemosiniere di Papa Francesco, il cardinale Konrad Krajewski.

Quanto accade si inserisce nel quadro di una preoccupante estinzione di ogni principio di legalità all’interno della Chiesa. Il diritto è coessenziale alla Chiesa, che ha una dimensione carismatica e una dimensione giuridica, inscindibilmente legate tra loro, come lo sono l’anima e il corpo. La dimensione giuridica della Chiesa è però ordinata al suo fine soprannaturale ed è al servizio della Verità. Se la Chiesa perde di vista il suo fine soprannaturale, diviene una struttura di potere e la forza della funzione ecclesiastica prevale su ciò che è vero e giusto. Questa concezione “funzionalista” della Chiesa è stata denunciata dal cardinale Gerhard Ludwig Müller,in una recente intervista ad Edward Pentin sul National Catholic Reporter. Il cardinale Müller ha affermato che la cosiddetta riforma della Curia di cui si discute in questi mesi, rischia di trasformare la Curia in un’istituzione in cui tutto il potere è concentrato nella segreteria di Stato, esautorando il collegio cardinalizio e le congregazioni competenti: «Stanno convertendo l’istituzione della Curia in una semplice burocrazia, nel solo funzionalismo e non in una istituzione ecclesiastica».
Un’espressione di questo funzionalismo è l’uso strumentale del diritto canonico, per sanzionare istituti religiosi e singoli sacerdoti che non sono disposti ad allinearsi al nuovo paradigma di papa Francesco. Nel caso delle comunità religiose l’intervento repressivo avviene in generale attraverso il commissariamento, a cui segue un decreto di soppressione o di completa riforma dell’istituto, senza darne adeguata motivazione e spesso espresso nella cosiddetta “forma specifica”, ovvero con l’approvazione pontificia, senza possibilità di ricorso. Questa procedura, che sta divenendo sempre più diffusa, non contribuisce certo a rasserenare gli animi all’interno di una situazione ecclesiale percorsa da forti tensioni. Anche ammettendo che si riscontrino umane deficienze in alcune comunità religiose, non sarebbe meglio correggerle, piuttosto che distruggerle? Cosa accadrà di giovani sacerdoti e seminaristi che hanno deciso di dedicare la loro vita alla Chiesa e vengono privati del loro carisma di riferimento? Quale misericordia si esercita nei loro confronti? Il caso dei Francescani dell’Immacolata fa scuola in questo senso.
Nel caso dei singoli sacerdoti, l’equivalente della soppressione è l’esclusione dallo stato giuridico clericale, cioè la cosiddetta riduzione allo stato laicale. Non bisogna confonderelo stato clericale, che si riferisce a una condizione giuridica, con l’ordine sacro, che indica una condizione sacramentale e imprime nell’anima del sacerdote un carattere indelebile. La perdita dello stato clericale è un provvedimento problematico, soprattutto per quanto riguarda i vescovi, successori degli apostoli. Molti vescovi nel corso della storia sono caduti in gravi peccati, scismi ed eresie. La Chiesa li ha spesso scomunicati, ma non li ha quasi mai ridotti allo stato laicale, proprio perché a causa dell’indelebilità della loro consacrazione episcopale. Oggi invece si procede con grande facilità alla riduzione allo stato laicale e spesso non attraverso un processo giudiziale, ma utilizzando il processo penale amministrativo introdotto dal nuovo codice del 1983. Nel processo amministrativo c’è un solo grado di giudizio, i poteri discrezionali dei giudici sono molto vasti e l’imputato, a cui talvolta non si concede neppure l’avvocato difensore, è privato dei diritti che gli attribuisce il processo giudiziario. Il prefetto della congregazione competente ha inoltre la possibilità, come nel caso dello scioglimento di un istituto, di richiedere un’approvazione papale in forma specifica che rende impossibile qualsiasi ricorso.
La conseguenza è una prassi giustizialista da parte dell’istituzione più garantista della storia, dimenticando le parole che Pio XII rivolgeva ai giuristi: «La funzione del diritto, la sua dignità e il sentimento di equità, naturale all’uomo, richiedono che l’azione punitiva, dall’inizio alla fine, sia fondata non sull’arbitrio e sulla passione, bensì sopra regole giuridiche chiare e fisse […].Qualora sia impossibile stabilire la colpevolezza con certezza morale si dovrà applicare il principio: “in dubio standum est pro reo”» (Discorso del 3 ottobre 1953 ai partecipanti al Congresso internazionale di Diritto penale, in AAS 45 (1953), pp. 735-737).
A differenza della scomunica, che rimanda all’idea di verità assolute detenute dalla Chiesa, la riduzione allo stato laicale è compresa più facilmente dal mondo, che concepisce la Chiesa come un’azienda, che può “licenziare” i suoi dipendenti, anche senza giusta ragione. Questa concezione funzionalistica dell’autorità vanifica la dimensione penitenziale della Chiesa. Imponendo preghiera e penitenza ai colpevoli, la Chiesa dimostrava di avere a cuore anzitutto le loro anime. Oggi, per compiacere il mondo, che esige punizioni esemplari, ci si disinteressa delle anime dei colpevoli, che vengono mandati a casa, senza che la Chiesa se ne prenda più cura. In un articolo diffuso dal Corriere della Sera l’11 aprile 2019, Benedetto XVI ha addebitato la causa del collasso morale della Chiesa al “garantismo”. Negli anni successivi al Sessantotto, anche nella Chiesa, «dovevano essere garantiti i diritti degli accusati, fino al punto di escludere una condanna». Il problema, in realtà, non è stato quello di un eccesso di garanzia per gli accusati, ma in un eccesso di tolleranza verso il loro crimini, alcuni dei quali, come l’omosessualità, hanno cessato di essere considerati tali fin dagli anni del Concilio Vaticano II, che è venuto prima della Rivoluzione del Sessantotto. Fu negli anni del Concilio e del post-concilio che penetrò nei seminari, nei collegi e nelle università cattoliche, una cultura relativista in cui l’omosessualità era considerata moralmente irrilevante e pacificamente tollerata. Benedetto XVI, che ha invocato “tolleranza zero” contro la pedofilia, non ha mai invocato “tolleranza zero” contro l’omosessualità, piegandosi, come il suo successore, alle leggi del mondo.
Nelle ultime settimane sono apparse nuove rivelazioni dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò, riguardanti gravi crimini contro la morale commessi dall’arcivescovo Edgar Peña Parra, scelto da papa Francesco come Sostituto presso la Segreteria di Stato. Perché le autorità ecclesiastiche, che erano al corrente da anni di queste accuse, non hanno mai avviato indagini, come non le hanno avviate per i crimini compiuti all’interno del pre-seminario Pio X, che forma i chierichetti per le cerimonie papali nella Basilica di San Pietro? Le autorità hanno il dovere di avviare un’indagine: un dovere irrinunciabile, dopo che le parole del coraggioso arcivescovo sono risuonate in tutto il mondo.
Un’altra domanda attende risposta. Il cardinale George Pell, da marzo scorso, è in isolamento nel carcere di massima sicurezza di Melbourne, in attesa di un nuovo giudizio, dopo essere stato condannato in primo grado. Perché le autorità ecclesiastiche lo privano di un processo canonico che ne stabilisca la colpevolezza o l’innocenza non davanti al mondo, ma davanti alla Chiesa? È scandaloso che il cardinale Pell sia in carcere e la Chiesa taccia, attendendo il giudizio del mondo e rifiutando di emettere un proprio giudizio, eventualmente in contrasto con quello del mondo.
Di cosa ha paura la Chiesa? Gesù Cristo non è venuto forse a vincere il mondo? Il diritto che dovrebbe essere strumento di verità è divenuto strumento di potere, da parte di chi oggi governa la Chiesa. Ma una Chiesa in cui si estingue il principio di legalità è una Chiesa senza Verità e una Chiesa senza Verità cessa di essere Chiesa. (Roberto de Mattei)

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