Il sinodo dell’Amazzonia è passato agli archivi, ma lo “scandalo” che ne ha accompagnato il cammino è lontano dall’essere sanato.
A generare questo “segno di contraddizione” è stato lo stesso papa Francesco, dapprima, il 4 ottobre nei giardini vaticani, assistendo a prostrazioni davanti ad oggetti di culto non identificati tra i quali la statuetta lignea di una donna nuda e gravida portata in processione il giorno successivo dentro la basilica di San Pietro, e in secondo luogo, il 25 ottobre nell’aula sinodale, identificando la statuetta come una Pachamama, col nome cioè di una divinità incaica, e nello stesso tempo negando “intenzioni idolatriche”, fino a ipotizzarne di nuovo “l’esposizione durante la santa messa di chiusura del sinodo”.
Tra questi due atti, nelle tre settimane di durata del sinodo, i massimi responsabili dell’informazione vaticana si sono sempre rifiutati di dare risposta alle ripetute richieste di chiarimento da parte della stampa internazionale, mentre in una vicina chiesa quelle statuette continuavano ad essere oggetto di culto, salvo nei giorni in cui furono sottratte e gettate nel fiume Tevere da un giovane cattolico austriaco infiammato da zelo anti-idolatra.
Dopo il sinodo la polemica è proseguita, anche tra vescovi e cardinali, con alcuni molto critici e altri invece, come il vescovo austro-brasiliano Erwin Kräutler, che addirittura hanno auspicato l’inclusione di Pachamama nella liturgia cattolica.
Fino a che papa Francesco è intervenuto di nuovo, verosimilmente con l’intenzione di chiudere la disputa, senza farvi esplicito riferimento ma dedicando un’intera udienza pubblica in piazza San Pietro proprio allo “straordinario esempio di inculturazione del messaggio di fede” compiuto dall’apostolo Paolo ad Atene, non “aggredendo gli adoratori di idoli, ma facendosi ‘pontefice’, costruttore di ponti”.
L’udienza è stata quella di mercoledì 6 novembre:
> Catechesi sugli Atti degli Apostoli - n. 15
> Catechesi sugli Atti degli Apostoli - n. 15
Il punto chiave del discorso di Paolo ad Atene, evidenziato dal papa, è quello in cui l’apostolo richiama l’attenzione degli astanti su un altare della città dedicato a “un dio ignoto”, per poi dire: “Colui che, senza conoscerlo, voi adorate, io ve lo annuncio”.
Ma è proprio questa la contraddizione non risolta dal sinodo dell’Amazzonia e dalla vicenda della Pachamama: tra l’irrilevanza, se non l’assenza, dell’annuncio cristiano e l’enfasi scriteriata data invece alla cultura e alla religiosità pagane, senza esercitare su di queste il necessario giudizio – “krisis” – al fine del loro retto uso – “chrêsis” –, sull’esempio dello stesso Paolo e poi dei Padri della Chiesa, alle prese con l’idolatria dell’epoca.
C’è un insigne studioso, Christian Gnilka, 83 anni, amico di Joseph Ratzinger, che su questo argomento ha scritto un’opera capitale: “Chrêsis. Il metodo dei Padri della Chiesa nei rapporti con la cultura antica. Il concetto del retto uso”, edita nella sua ultima stesura a Basilea nel 2012 e per ora disponibile solo in lingua tedesca ma presto tradotta in Italia dalla Morcelliana.
Ma può essere altrettanto istruttivo il convegno tenuto a Bologna lo scorso maggio su “Un metodo per il dialogo fra le culture. La ‘chrêsis’ patristica”, i cui atti saranno pubblicati anch’essi da Morcelliana.
Questo che segue è un estratto molto abbreviato dell’avvincente relazione tenuta in quel convegno dal professor Leonardo Lugaresi – un patrologo che i lettori di Settimo Cielo hanno già apprezzato per alcuni suoi precedenti contributi – proprio sul comportamento di Paolo ad Atene, come narrato dagli Atti degli Apostoli e commentato dai Padri della Chiesa.
Buona lettura! (Con un pensiero ad Amazzonia e dintorni).
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L'azione di Paolo all'Areopago come modello di esercizio della “krisis” cristiana
di Leonardo Lugaresi
Il primo punto su cui concentrare l'attenzione è la dedica “a un dio ignoto” che Paolo afferma di aver visto iscritta sulla piattaforma di un altare di Atene, e da cui prende l'avvio il suo discorso kerygmatico ai filosofi pagani della città.
Nella mentalità religiosa politeistica dell’epoca, il significato di tale dedica doveva essere molto diverso da quello che Paolo le attribuisce. Come ogni sistema religioso, anche il politeismo greco-romano, se vuole gestire il rapporto con il divino – che in fin dei conti è la ragion d'essere di ogni religione – deve comprenderlo. Il divino – in quanto per definizione sovra-umano – è però non comprensibile da parte dell'uomo. E allora il modo politeistico di risolvere questo problema è di cercare di reggere l'urto della sovrabbondanza divina attraverso la moltiplicazione seriale delle denominazioni divine e delle relative pratiche di culto. Per questo l'inclusività è una sua caratteristica essenziale, senza la quale esso fallisce e muore. Nel suo sforzo di mappare l'intero mondo divino, tuttavia, il politeismo è comunque costretto ad ammettere di non conoscere tutti i nomi degli dèi. Di qui un'ansia che induce il devoto ad aggiungere appunto l'invocazione a un “dio ignoto” per essere sicuro di non aver lasciato fuori nessuno.
Ora, ciò che Paolo fa raccogliendo questo appello che viene dal cuore del paganesimo – e dando, in prima battuta, l'impressione di valorizzarlo – è precisamente cambiarne profondamente il senso e denunciare il fallimento di tale linea di condotta religiosa.
Se infatti la titolatura “dio ignoto” altro non è che il sostitutivo di un ulteriore nome divino, all'uomo religioso resterebbe sempre il dubbio che vi possa essere ancora un'altra forma di espressione del divino che quell’etichetta non copre. Mettere nel conto un'incognita “n” non basta al politeismo per risolvere la sua equazione teologica, stante l'ipotesi, sempre incombente, che le manifestazioni del divino possano invece essere “n + 1”.
Bisogna allora che “dio ignoto” significhi molto di più. Non semplicemente “un” dio ignoto ma “il” Dio ignoto, cioè il vero Dio. Quel Dio ignoto che il politeismo non è in grado di afferrare e che invece Paolo proclama di essere venuto a rivelare.
Occorre dunque che la radicale eccedenza del divino rispetto al modo in cui la religione politeistica lo pensa sia da essa riconosciuta. Ed è precisamente in questo riconoscimento del limite il pre-requisito che solo può aprire gli interlocutori di Paolo a un vero ascolto del suo messaggio, vincendo la facile tentazione di ridurlo a un “annunziatore di divinità straniere”, da trattare secondo la logica inclusiva del sistema religioso vigente, cioè con una cooptazione nel pantheon.
La “krisis” cristiana qui esercitata da Paolo – separando un elemento del politeismo dal suo contesto, approfondendolo, e ricollocandolo su un altro piano di verità – si configura dunque come un incontro che, entrando dentro quell'ambiente culturale, dall'interno lo mette in discussione e lo giudica. Essa agisce come una spada che taglia e destruttura il sistema con cui si confronta, costringendo coloro che ne sono artefici, fruitori e difensori a mettere in crisi le proprie certezze.
Questo vaglio, o se si vuole questa purificazione, è la necessaria premessa per una “chrêsis”, per un retto uso di tutti quegli elementi della cultura pagana di cui i cristiani riconoscono il valore.
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Il secondo aspetto del racconto di Atti 17, 16-34 che occorre sottolineare è che però anche Paolo compie una revisione critica del suo atteggiamento iniziale. In altre parole, la “krisis” opera anche su di lui.
Il testo dice infatti che l'apostolo “fremeva di sdegno nel suo spirito vedendo che la città era piena di idoli”. Si presti attenzione: questa sua violenta reazione non è appena psicologica bensì culturale, nel senso che corrisponde in pieno a un codice di comportamento che un pio fariseo come Paolo ha perfettamente interiorizzato. È la risposta unica e necessaria che deve essere data da un seguace del vero Dio di fronte all'idolatria, alla quale si risponde solo con lo sdegno e la condanna. Ma questa è già “krisis”? No, perché non si tratta di un giudizio che entra e separa e quindi spacca, bensì di un giudizio che resta fuori e rifiuta in blocco. Su questa base, evidentemente, non è possibile alcuna “chrêsis”.
Il racconto però prosegue dicendo che Paolo non solo “discuteva frattanto nella sinagoga con i giudei e gli adoratori” – il che pare del tutto coerente con la sdegnata ripulsa dell'idolatria pagana di cui sopra – ma anche “nell'agorà, giorno dopo giorno, con quelli che incontrava”, e questo invece risulta tutt'altro che scontato.
Non mi soffermo sull'implicita, ma riconoscibilissima “allure” socratica che l'autore di Atti imprime a questo punto al suo personaggio, comunemente riconosciuta dai commentatori come una delle chiavi di lettura dell'intero episodio. Mi limito a mettere in evidenza che sta proprio qui – nella scelta paolina di parlare con chiunque nello spazio pubblico, senza rinchiudersi, a causa dell'iniziale giudizio di condanna dell'empietà riconosciuta come tratto caratterizzante della città, entro il recinto di una relazione esclusiva con i giudei e con i timorati di Dio – il presupposto imprescindibile della “krisis” e della “chrêsis” che egli poi mette in atto e la ragione del carattere di riflessività che tale processo inevitabilmente assume.
Decidendo infatti di entrare in dialogo con chiunque incontra, Paolo deve necessariamente dare credito anche agli idolatri, prendere sul serio la loro posizione, e su questo mutato atteggiamento si fonda il tentativo di entrare nel loro campo e di far propria, anche se in modo profondamente critico, la loro istanza religiosa.
Il valore paradigmatico dell'azione missionaria di Paolo ad Atene e la portata critica e autocritica del suo discorso, in ordine alla possibilità di fondare una “chrêsis”, un retto uso persino della religione pagana, saranno pienamente compresi dall'esegesi dei Padri della Chiesa.
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I precedenti scritti – lettere e saggi – del professor Lugaresi in Settimo Cielo e in www.chiesa:
> Sul proselitismo che tanto allarma Bergoglio (23.5.2019)
> Teatrante, getta la maschera! (20.2.2011)
E sulle forme odierne di politeismo:
> Il nuovo politeismo e i suoi idoli tentatori (9.12.2010)
Settimo Cielo
di Sandro Magister 13 nov
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