DOMINE, UT VIDEAM! UNA RIFLESSIONE PER INIZIARE IL 2020 CON UN PO’ DI SPERANZA.
Domine, tu videam!
Lc XVIII, 41
Il cieco che non ha mai visto la luce non sa cosa siano i colori, così come il sordo che non ha mai udito un suono ha idea di cosa sia la musica o la voce di una persona cara. Ma anche chi vede non sa cosa significhi essere condannati alla cecità, privati della visione di un tramonto o della possibilità di guardare negli occhi l’amato; e chi sente non immagina il vuoto dell’assenza di una melodia, del canto degli uccelli, dello scorrere dell’acqua in un ruscello. E spesso accade che due persone non riescano a comunicare perché chi vede cerca invano di spiegare al cieco le tonalità che infiammano le foglie degli alberi in autunno, o al sordo quali meravigliosi accordi di una sinfonia suscitino sentimenti inesprimibili.
Similmente, chi non ha la grazia della Fede non può capire la luce sfolgorante ch’essa proietta nell’anima, né l’armonia sublime che unisce mirabilmente tutte le verità cattoliche. Ma anche chi ha la Fede difficilmente riesce a concepire le tenebre in cui brancola l’incredulo, il silenzio di morte che lo circonda. Anche in questo vi può essere incomunicabilità, quando chi considera la Fede una cosa che non necessita di spiegazione cerca di persuadere l’amico che la sua cecità spirituale, la sua sordità morale sono senza motivo e possono esser superate con un semplice ragionamento, quasi un colpo d’occhio dell’anima sulla realtà.
Eppure. Eppure chi vede può perder la vista in un incidente, chi sente può rimaner sordo, e scoprire quanto sia doloroso esser privati di quesi sensi che si consideravano quasi scontati, normali, dovuti. Tutte le azioni quotidiane diventano azioni complesse, alcune sono precluse, altre necessitano dell’aiuto altrui. Non ci sono più colori nella nostra vita, non c’è più autonomia nell’agire, tutto è buio e silenzio. Ci accorgiamo di cosa abbiamo perso solo nel momento in cui non ne disponiamo più. E pensiamo con rammarico che quell’alba, quel suono di campane, quella voce amica rimangono un ricordo destinato ad annebbiarsi col tempo, e che forse avremmo potuto impiegar meglio le nostre giornate nell’assaporare avidamente i chiaroscuri di un dipinto, i tratti del viso di nostra madre, la voce della bambina che gioca in cortile, il latrato lontano di un cane.
Anche chi assiste all’inesorabile accecamento del mondo che ha intorno, alla sordità spirituale dell’umanità, finisce per rimpiangere tanti piccoli, semplici gesti che sino ad allora riteneva ovvi, cose sui cui non c’era nemmeno bisogno di soffermarsi perché date per scontate. Penso a quando, da piccolo, mia madre usava bagnarmi gli occhi al suono delle campane il Sabato Santo - allora l’Exsultet risuonava di giorno - o quando si riceveva in casa il curato per la benedizione pasquale e gli si offriva un piccolo rinfresco; quando si allestiva il presepe nella vetrina del fornaio, o quando per l’Epifania noi bambini speravamo di non trovare pezzi di carbone nella calza, e ci si accontentava di un paio di caramelle, di un’automobilina di latta, di una trottola. Penso a quando si salutava per via le suore o i chierici con quel Sia lodato Gesù Cristo che distingueva i Cattolici dai comunisti e dai liberali; quando mio padre si inginocchiava scoprendosi il capo se incrociavamo un sacerdote che portava il Viatico a un moribondo. Penso al velo che mia madre e mia sorella mettevano per entrare in chiesa, anche solo per andare a dire un’Ave Maria mentre si andava a fare la spesa o a posare un fiore all’altare di Santa Rita. Penso al silenzio austero della radio il Venerdì Santo, alle rose colte dal giardino per gettarne i petali al passaggio del Santissimo il giovedì del Corpus Domini, ai drappi e ai tappeti messi ad ornare i balconi quando il Signore passava nel viale della chiesa. Penso alle corse in bicicletta per andare a servire ai Vespri, la domenica: quei Vespri di cui, ancor piccino, sapevo a memoria tutti i Salmi, e il turibolo che da ragazzetto porgevo al parroco al Tantum ergo. E la coda al confessionale il sabato e prima delle feste. Penso alla voce solenne di Pio XII, al suo sguardo ieratico e sereno, alla sua dignità non affettata, alla sua dolcezza coi fanciulli del Cardinale Ottaviani. Penso ai canti lontani delle monache dietro le grate, al profumo di cera dei banchi della sacristia, alle parole della Supplica alla Madonna di Pompei che mia nonna recitava tra sé. In questo giorno solennissimo dei vostri novelli trionfi... Penso all’immagine di Sant’Antonio Abate nel negozio del macellaio, col suo lumino acceso, o al quadro della Madonna di Fatima nel laboratorio della modista da cui accompagnavo mia madre. Penso al vestito bianco della Cresima, al nastro legato in fronte, ai santini della Comunione dei miei compagni, al foglietto del Precetto Pasquale. Penso alle suore cappellone negli ospedali, ai frati in sandali anche d’inverno, col sacco pieno di pane vecchio che il panettiere teneva da parte per loro. Alle Messe delle sei di mattina, quasi sempre di Requiem, cui assistevano scolari e studenti, commessi e signore, in silenzio, col Rosario in mano. Penso alla mia tonsura - Dominus pars haereditatis meae - e al rito con cui ho ricevuto gli Ordini Minori, al Prete assistente in piviale: Eminentissime Pater, postulat Sancta Mater Ecclesia... Alla tabella su cui era intimato silentium, alle Preces dicendae e alla meditazione quotidiana nel silenzio della cappella, al canto di Compieta, alla preghiera alla Madonna della Fiducia.
E mi vedo cieco, o temo di diventarlo, perché non vedo più le suore col soggolo, sempre in coppia e con lo sguardo chino, né il monsignore in calze paonazze che scendeva, circondato di chierici in saturnio, lo scalone del Seminario. Al loro posto, donnette coi capelli permanentati e omuncoli con la croce nascosta nel taschino. Non vedo quegli occhi sereni, quei sorrisi spontanei, quella compostezza educata, quella spensieratezza del fattorino che cantava mentre andava a fare le consegne, del muratore sull’impalcatura, del calzolaio nella sua bottega.
Mi sento sordo, o quantomeno non trovo più tutti quei suoni cari, quelle voci amate, quelle melodie tanto sublimi quanto normali per noi, a quel tempo. Musiche allegre, suoni familiari, una consuetudine col sacro che era tanto intimamente legato al nostro vivere quotidiano da non suscitare né stupore né imbarazzo. Ed anche il fabbro socialista, il libraio ebreo, il medico massone rispettavano e si adeguavano di buon grado ad un ordine sociale che rendeva i nostri giorni sereni ancorché faticosi, la nostra tavola lieta ancorché sobria. Perché tutto ruotava intorno a Cristo.
Sono passati tanti anni da quel tempo, che sembra oggi di vivere in un altro mondo. Non ce ne siamo accorti. Non ci siamo resi conto che qualcuno aveva deciso di barattare una civiltà millenaria con le sigarette americane e le radioline a transistor, con le minigonne e i jeans, e poi con il referendum sul divorzio, con gli attentati delle Brigate Rosse, con la legge sull’aborto. Ma questo baratto grottesco era mondano, era profano, non aveva toccato l’anima della Chiesa né tantomeno dei fedeli. La vera svendita fallimentare l’abbiamo vista col Concilio, coi cappelli da prete gettati al Tevere, e tutta questa fregola di compiacere il mondo, di mostrarsi moderni, di non dar l’idea di restare indietro. Via tutto, ed era ancora nulla: doveva ancora arrivare Bergoglio.
Come ha osservato acutamente Mons. Viganò nel suo ultimo intervento (qui), avvenne tutto «senza che la maggior parte di noi se ne accorgesse. Sì, perché il Vaticano Secondo ha aperto, oltre che il Vaso di Pandora, anche la Finestra di Overton, ed in maniera così graduale che non ci si è resi conto degli stravolgimenti messi in atto, dell’autentica natura delle riforme, delle loro drammatiche conseguenze, e neppure ci è venuto il sospetto di chi realmente si trovasse alla regia di quella gigantesca operazione sovversiva».
Il mondo - il nostro mondo, la nostra Patria, l’Italia che si gloriava d’essere cattolica apostolica e romana - si sta rendendo cieco e sordo. Non vuole vedere né sentire più Dio. E forse Dio non vuole vedere l’abisso in cui si sprofonda violando la Sua legge, non vuole sentire le sue bestemmie. E vi è chi spera che quel mondo sia finalmente distrutto, scomparso, estinto. Anzi se ne rallegra, perché la sola presenza di un Crocifisso o di un Bambinello nel presepe suscita scandalo, offende chi non crede, viola la libertà di religione. Quella libertà osannata sciaguratamente dal Concilio, e di cui oggi vediamo gli amari frutti, con le statue di Lucifero erette nelle piazze e i bambini immolati al Moloch pro-choice.
Ma in questo mondo di immagini e fantasmi, di strepito e rumore, di oscenità ed eresie, vi sono ciechi e sordi che iniziano a comprendere cosa hanno perduto, proprio come chi è stato privato della vista o dell’udito dopo aver visto e sentito. C’è chi capisce d’esser cieco e sordo, mentre prima non capiva di vedere e sentire, o forse non lo voleva fare. Ci sono sacerdoti che dinanzi allo squallore calvinista della liturgia riformata non riuscivano a compiere una scelta che oggi è invece inevitabile, e tornano - o iniziano ex novo - a celebrare i riti antichi e venerandi. Ci sono monache che, dinanzi alla persecuzione di figuri come Braz de Aviz, riscoprono lo spirito della Regola e si immolano per la Chiesa. Ci sono frati che si lasciano crocifiggere dai loro Superiori, come Cristo si lasciò angariare dai Sommi Sacerdoti del tempio. Ci sono fedeli che scoprono la vita cristiana proprio quando dal Soglio li si incita all’adulterio in nome del discernimento. Ci sono peccatori che comprendono l’eroismo del pentimento e della virtù proprio quando i Pastori legittimano il concubinato e la sodomia. Ci sono Cattolici tiepidi che si ritrovano a difendere l’onore di Dio davanti ad ecclesiastici che vilipendono la Vergine e adorano gli idoli. Professori muti e teologi finora silenti che denunciano pubblicamente le deviazioni dottrinali del Clero, giornalisti moderati che scrivono articoli in difesa della morale tradizionale, mentre orridi gesuiti inneggiano all’eresia e blandiscono l’immoralità. Ci sono giovani che scoprono la Sacra Scrittura e gli inestimabili tesori dei Santi Padri, mentre i Vescovi falsificano l’Antico e il Nuovo Testamento. Ci sono politici che imparano a difendere la Nazione e la sua Fede mentre da Santa Marta si ripete ad nauseam il mantra dell’accoglienza.
La Grazia ci tocca quando meno ce l’aspettiamo, come avvenne al cieco al passaggio di Nostro Signore.
Gli ultimi tempi che stiamo vivendo ci mostrano che nelle anime buone la Verità sgorga limpida e cristallina e che nelle anime corrotte l’inganno, la frode, la menzogna ch’esse propagano è la stessa che insinuò l’antico Serpente sin dal suo Non serviam e dalla caduta di Adamo ed Eva: sarete come dèi. Ma il peccato non è, nel senso che non attingendo alla Verità che è Dio, non possiede in sé l’essere, non può e non deve esistere, e come tale è destinato a scomparire quando la Provvidenza ci avrà fatto capire la nostra cecità e la nostra sordità. Quando ci accorgeremo di quanto siano vere le parole del Salvatore: «Sine me nihil potestis facere». Per questo, al cieco del Vangelo come ad ognuno di noi, Egli chiede: «Quid vis tu faciam tibi?», perché vuole che riconosciamo la nostra infermità e che Lo riconosciamo come nostro unico Medico.
In questi tempi di tribolazione vediamo il Male per quello che è, nella sua bruttezza, nella sua insopportabile arroganza, nella sua violenza verbale e fisica, nella sua inevitable carica eversiva e rivoluzionaria; ma proprio per questo – a differenza di altre epoche in cui la zizzania infestava il campo di Dio ma non aveva ancora soffocato la messe come avviene oggi – è proprio l’ostentazione del Male che ha aperto gli occhi a tanti fedeli, facendo loro comprendere l’inganno di cui erano stati oggetto.
Pensiamo a mons. Viganò: le sue parole di fuoco contro l’apostasia della setta bergogliana non si sarebbero mai potute udire solo dieci anni or sono, quando pure tutte le premesse di questa crisi erano state poste, ed anzi rimontavano ad una congiura di ben oltre cinquant’anni fa. E vien da dire: Viganò parla come Lefebvre. «Faccio e dico quello che mi è stato insegnato», afferma il Card. Burke. Parole che echeggiano il Tradidi quod et accepi di San Paolo. É vero: sono le stesse parole degli Apostoli, dei Santi Padri, dei Dottori della Chiesa, dei Papi dei secoli passati. Perché sempre uguale è la fonte cui attingono, sempre identica la Verità che li illumina, come sempre lo stesso è Dio, immutabile nel tempo. Ed anche quanti sinora non avevano compreso, oggi hanno la grazia di poter riacquistare la vista.
Agli stessi, maledetti errori di Satana sparsi attraverso i secoli opponiamo con fierezza la stessa, benedetta Verità di Dio, che ci ha promesso la vittoria finale. Ma prima di poter salutare quel giorno glorioso, tutti noi - tutti: Prelati, chierici, fedeli - gridiamo al Cielo: «Domine, ut videam!», perché finalmente cada il velo che ottenebra la nostra vista spirituale. «Domine, ut audiam!», perché si aprano le nostre orecchie alla voce di Cristo.
Questo il mio più sincero augurio a tutti voi, dal profondo del cuore.
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