Considerazioni prese dal libro di Papa Benedetto e del card. Robert Sarah “DAL PROFONDO DEL NOSTRO CUORE”
L’ultimo Sinodo sull’Amazzonia, anziché confermare nella fede, ha messo in discussione, purtroppo, molte delle verità fondamentali della Chiesa cattolica, tra cui il celibato sacerdotale. Forse nell’intento di rimediare allo scandalo offerto dagli stessi Sacerdoti cattolici che, anche se in minima parte, si sono fatti travolgere dalle miserie di questo mondo perdendo la consapevolezza della loro chiamata divina e offrendo ai media il pretesto per chiedere di introdurre nella vita sacramentale della Chiesa cattolica pericolose “scorciatoie” come soluzione di tutte le difficoltà.
Queste “scorciatoie” complesse e tenebrose che alcuni intraprendono per fuggire dalla “Via Maestra” voluta da Gesù, possono essere di vario genere, ma quasi tutte, fatalità, rischiano di scontrarsi contro una virtù che, pur non essendo la più importante, è il motore propulsore di tutte le altre: la virtù della castità, che tutti i cristiani devono vivere, a seconda del loro stato, in maniera parziale o totale: celibi, sposati, consacrati, vedovi. Infatti si può essere sposati ed essere casti, quando la coppia decide di condividere certi ideali cristiani impegnativi, e al contrario, si può essere celibi, ma senza essere casti, come purtroppo vediamo dal comportamento di certi preti gay che, pur vivendo il celibato, non fanno mistero di reclamare come diritto i loro rapporti sessuali con uno o più “compagni” pensando di poterli conciliare con l’esercizio del loro sacerdozio, come se fosse la normalità della vita cristiana.
E quei Prelati, o Vescovi o responsabili di comunità che esortano i preti gay con lezioni, incontri ecc. a continuare tranquillamente su questa strada gravemente peccaminosa purché rimangano “fedeli” ad un solo compagno (sic!) finiranno all’inferno, perché favoriscono comunque quel peccato di omosessualità che “grida vendetta al cospetto di Dio”: secondo il catechismo della Chiesa cattolica e secondo la tradizione plurimillenaria dell’Antico Testamento.
E anziché aiutare questi giovani preti a una vera conversione del cuore, sradicando totalmente dalla loro vita questo peccato della carne che è talmente ripugnante alla stessa natura che deve essere spesso accompagnato anche dall’uso di droghe, li convincono a perseverare in quel comportamento peccaminoso, pur sapendo che la Messa che celebrano costoro è sacrilega, anche se rimane valida per i fedeli, alle solite condizioni. Non abbiamo più nemmeno la Chiesa che fa da baluardo contro la perversione del mondo che avanza, anche se nutriamo la certezza che “Le porte degli Inferi non prevarranno mai!”
Pretendere di abolire il celibato sacerdotale, cioè aprire la strada del matrimonio anche per i sacerdoti, nell’utopica speranza di aumentare le vocazioni, è la soluzione peggiore del male, come se il matrimonio, che fa tremare perfino i laici per la responsabilità che comporta, fosse il rimedio contro tutti i mali e le tendenze, come se l’uomo sposato fosse “immunizzato” contro ogni caduta e vaccinato contro ogni difficoltà o tentazione.
Ipocrite si rivelano le aspettative di una vita onesta e fedele da adulti se non insegniamo ai ragazzi/e, a vivere e amare la virtù della castità, a dominare il proprio corpo, i propri istinti, non solo sessuali, fin dalla prima adolescenza, condizione indispensabile per mantenere l’integrità dell’intelletto e la bellezza dell’essere umano fatto a immagine e somiglianza di Dio, pronto ad assumersi le proprie responsabilità al momento di prendere decisioni importanti, quali il matrimonio, o la vita religiosa, o un impegno di lavoro, o di rinuncia davanti a difficoltà, a malattie, o all’arrivo inaspettato di un figlio ecc.
Senza questa lotta primaria contro le proprie tendenze o debolezze sessuali, il giovane sarà più facilmente dominato da una valanga di altri istinti che rischiano di travolgerlo, quali la lussuria, la collera, l’invidia, la gelosia, la vendetta, l’istigazione all’omicidio, al suicidio, o l’attaccamento al proprio io, al denaro, al potere, alle ambizioni sfrenate ecc.
Purtroppo dopo decenni di insegnamento “gender” nelle scuole, questi sono i giovani che ci ritroviamo adesso nelle famiglie, nei seminari, nelle parrocchie, nelle cattedre universitarie, nella polisportiva, nelle aziende ecc. Già deboli e bacati alla radice per colpa di certi poteri politici che comandano e che vogliono ridurli come burattini perché “la negazione delle differenze sessuali, generazionali e di ruoli, - afferma lo psichiatra prof. Gillieron di Losanna -, non può che sfociare in sintomi di psicosi e di perversione che aumentano e scoppiano con il passare degli anni”.
Per capire il valore e il significato del celibato sacerdotale, al di là di queste ed altre motivazioni pedagogiche basate essenzialmente sulla necessità per il prete di disporre della sua libertà per essere a disposizione del Vescovo, della parrocchia o missione o altro, non si potrà mai capire abbastanza l’impegno sacerdotale senza fare un salto di qualità verso una visione soprannaturale della vita e chiederci “Chi è veramente il sacerdote? Perché deve rimanere celibe?”
Nella mentalità mondana e materialista in cui versa adesso il mondo e anche buona parte degli uomini di Chiesa, si rischia di confondere la figura del sacerdote con quella di un bravo manager, o di un benefattore dell’umanità, o un abile amministratore dei beni o simile, tutto intento a risolvere problemi o questioni che, sia pure reali, riguardano più che altro la società civile, la politica e solo secondariamente, la società religiosa, la Chiesa cattolica Ma non è questo il compito primario e specifico che Gesù ha assegnato alla sua Chiesa, pur sapendo che nel mondo oltre il 90% delle opere di misericordia sono state realizzate dalla Chiesa cattolica che si è sempre occupata di guarire sia l’anima che il corpo. Ma l’anima, la Vita Eterna per la Chiesa deve avere il posto primario.
La figura e la funzione del sacerdote, cioè dell’uomo che, per volere di Dio, fa da intermediario tra il Cielo e la terra, tra Dio e l’uomo, è così sublime che da sempre è stata collegata nella Chiesa cattolica alla donazione totale di sé in una vita di consacrazione che trova nel celibato, cioè nella castità o verginità, la sua realizzazione concreta. Pensiamo ad esempio alle antiche Vestali nel Tempio di Venere che consacravano la loro verginità alla divinità, cioè il concetto di collegare il sacro con la donazione di sé nell’integrità totale del proprio corpo.
Infatti la realtà del celibato nella Chiesa cattolica è un patrimonio indiscutibile perché non è invenzione di qualche Papa, ma risale al periodo fondazionale, perché i primi dodici Apostoli, al momento della loro chiamata, come dice il Vangelo, “abbandonarono tutto”, cioè famiglia (di cui non si parla nel Vangelo, se non dell’episodio della suocera di Pietro che si pensa fosse vedovo), vale a dire genitori, fratelli, eventuale compagna, lavoro, interessi, amicizie, terra, ecc. per seguire Gesù liberi da ogni legame terreno e distaccati da tutto. Ascoltiamolo dalla voce autorevole della Chiesa.
Scrive San Paolo “Vorrei vedervi senza preoccupazioni. Chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore come possa piacere al Signore. Chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie e si trova diviso. Questo vi dico fratelli, il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi quelli che hanno moglie vivano come se non l’avessero, coloro che piangono come se non piangessero, e quelli che godono come se non godessero perché passa la scena di questo mondo”. (cfr. I Cor.7, 29-32).
Recita il Catechismo della Chiesa cattolica, n. 153-159 Compendio: “Questa chiamata così sublime, unica, esclusiva di un giovane al sacramento dell’Ordine sacro che configura il Sacerdote allo stesso Cristo ‘Ipse Christus’ conferendogli i suoi stessi poteri, esige una risposta particolare, consapevole e proporzionata al dono, basata sull’offerta totale di sé e della propria vita, un’offerta che comporta anche un sacrificio, una rinuncia concreta, quella all’amore coniugale in vista dell’Amore del Regno dei Cieli”.
Scrive Papa Benedetto nella prima parte del libro menzionato, a proposito del celibato sacerdotale: “Essi (gli Apostoli), lasciarono tutto e lo seguirono. Senza abbandono delle proprie cose non può esistere un sacerdozio. La chiamata a seguire Gesù non è possibile senza questo segno di libertà e di rinuncia a qualsiasi compromesso. Il nostro celibato è una proclamazione di fede, il nostro celibato è testimonianza, ossia martirio”.
Il card. Robert Sarah che nel libro menzionato offre una esposizione magistrale per sostenere la validità perenne del celibato sacerdotale, a pag. 103 scrive “Un sacerdote è un uomo che sta al posto di Dio, un uomo che è rivestito di tutti i poteri di Dio. Osservate la forza del sacerdote! La sua lingua fa di un pezzo di pane un “DIO”! Ora, questo miracolo non potrà realizzarsi se non nella misura in cui accettiamo di essere crocifissi con Cristo. Ciascuno di noi deve accettare di ripetere con San Paolo “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”.
Tutte espressioni forti, chiare, che escludono una vita mediocre per mettere in evidenza la necessità di un combattimento spirituale eroico contro sé stessi e le proprie inclinazioni per raggiungere questa meta esclusiva che alla fine si racchiude in poche parole “Vita di Comunione con Dio” fino al martirio, come ribadisce papa Benedetto.
Importanza degli studi nel Seminario.
Sta di fatto che per vivere le virtù cristiane, soprattutto per un giovane sacerdote, ci vuole esercizio, impegno, lotta ascetica contro i propri difetti, ma tutto questo esige una formazione robusta fin dal seminario, cioè un programma filosofico e teologico profondo, cattolico, in conformità con la dottrina della Chiesa, un piano di studi dove si forma, si forgia la personalità del candidato al sacerdozio. E alla base di tutto questo “castello” culturale, ci deve essere SEMPRE UNA “PERSONA” UMANA E DIVINA: GESU’, la conoscenza di Gesù, l’esperienza viva di Gesù, presupposto indispensabile per vivere anche eroicamente, fino al martirio.
Se in seminario non si arriva a conoscere Gesù Cristo nella sua verità storica, cattolica, teologica, ascetica, mistica, a poco o nulla servono tutti gli altri studi perché la cura della Ragione deve andare di pari passo con la Fede.
L’aver emarginato il grande San Tommaso per privilegiare correnti protestanti alla Karl Rhaner e peggio, lasciando ai seminaristi la possibilità di optare per l’uno o per l’altro teologo indistintamente, è un metodo didattico perdente, perché sforna solo dei diaconi o preti insicuri, dalla fede incerta, più sociale che spirituale, che si riflette poi sul comportamento morale. Il proporre cicli di studi alla “Kasper” dove nei suoi libri mette in dubbio la divinità di Gesù, ad esempio, non è certo un buon sistema per formare le nuove vocazioni all’amore di Dio e alla fedeltà.
Perché i giovani sono più esigenti con sé stessi di quello che pensiamo noi adulti: quelli dalla vera vocazione si sentono prima o poi delusi e immotivati e se ne vanno, mentre quelli “concilianti” restano, tranne le solite eccezioni che alla fine devono arrendersi anch’essi davanti a un programma ambiguo se non eretico imposto ormai con la forza.
E la prima virtù che traballa è proprio la castità, la virtù dei forti, se non trova una motivazione valida nella dottrina robusta, nella figura di Gesù, vero Dio e vero uomo che parla di Vita Eterna, di premio e di castigo per sempre, in una vita di preghiera e di ascetica intensa, forte, esigente, come è sempre stato il patrimonio della Chiesa fin dai primi secoli.
Sembra che il “pungolo della carne”, di cui parla anche San Paolo con molto realismo ma anche con la certezza di poterlo superare con la grazia di Dio, rappresenti un vero “banco di prova” per l’uomo e la donna che vogliono mantenersi fedeli a Dio durante il percorso della loro vita, soprattutto in una vita di consacrazione, così come fu un “banco di prova” per gli Angeli la scelta immediata di stare con Dio, al suo servizio, o contro di lui, all’inferno.
Il Sacerdozio è stato elevato da Cristo alla sublimità di Sacramento, quello dell’Ordine sacerdotale, come il matrimonio, (Battesimo, Cresima, Eucaristia, Confessione, Unzione dei malati, Ordine Sacro, Matrimonio), e se il Matrimonio è la fonte della vita umana, il Sacerdozio è la fonte della Vita divina. Pertanto scaturiscono entrambi da una sola fonte: L’AMORE che è unico perché proviene da Dio, ma il modo di viverlo su questa terra è diverso per ognuno di noi, a seconda del nostro “stato”, vale a dire della nostra scelta di vita.
Anche il sacerdote deve saper amare, altrimenti è un poveraccio! E quanto è meravigliosa l’esperienza dell’amore di Dio che riempie il cuore di gioia. Rinuncerà all’amore coniugale ma amerà con il cuore grande le persone che gli sono state affidate accogliendole con affetto, perdonandole, ascoltandole, cercando soluzioni per i loro problemi. E per dare amore, il sacerdote deve riceverlo da Gesù fonte viva del vero amore e per questo si fermerà a parlare con Lui ogni giorno qualche decina di minuti davanti al Tabernacolo per chiedere umilmente di mettere nel suo cuore questo amore puro di cui ha bisogno il mondo, attraverso di lui, del sacerdote.
Il Sacerdote, Ministro di Dio, “Alter Christus”, e non manager che deve essere a disposizione del Vescovo come una sentinella è a disposizione del Comandante per la salvezza di tutta la città;
Il Sacerdote, unico mediatore tra Dio e gli uomini! A cui Dio stesso ha dato il potere di far ‘scendere’ Gesù Cristo vivo e vero nell’Ostia consacrata durante la Celebrazione Eucaristica; a cui Dio stesso ha conferito il potere di perdonare perfino i peccati! Anche il sacerdote, consapevole della sua debolezza umana, andrà a trovare perdono sacramentale presso un altro sacerdote perché nessuno, neppure il Papa, può perdonare sé stesso direttamente con Dio. Nella Chiesa cattolica la dottrina ha sempre funzionato così perché così ha voluto nientemeno che Gesù Cristo, e chi vuole mettersi al posto di Gesù e cambiare ciò che lui ha voluto e stabilito, sarà annientato dal diavolo.
Per questo il sacerdote non può conoscere la solitudine, perché deve essere così occupato da non avere neppure il tempo di pensare a sé, anzi, il sacerdote bramerà un po’ di solitudine la sera ritirandosi nella sua stanza come refrigerio dopo essere stato “divorato” dalla gente tutto il giorno, dopo una giornata di catechesi, Messe, confessioni, visite ai malati, ai poveri, e soprattutto dopo aver dedicato alcune ore della sua giornata alla preghiera, Santa Messa quotidiana o più Messe, se occorre, alla recita del Breviario, del Santo Rosario e della meditazione davanti al Santissimo, come testimonia la vita di molti sacerdoti già santi o in concetto di santità.
Il celibato legato al sacerdozio in una vita di castità, o di verginità in vista del Regno dei Cieli che molti cristiani praticano da sempre, sull’esempio di Gesù e della Madonna, non è altro che un anticipo di quello che saremo tutti nella Vita Eterna perché non siamo stati creati per vivere in un rapporto di coppia, ma un eterno rapporto con Dio, personale, sull’esempio di Gesù, che ha vissuto pienamente la sua umanità nel celibato. E se questo può talvolta significare croce, è una croce che non opprime ma dà gioia in forza di quelle parole di Gesù “Coraggio, Il mio giogo è dolce e il mio carico leggero”.
ESEMPIO CONCRETO DI FEDELTA’ EROICA.
A completamento di queste considerazioni, credo opportuno aggiungere un episodio concreto di fedeltà eroica molto commovente e significativo accaduto da giovane a un sacerdote diocesano veronese “don Ferdinando Rancan”, salito al cielo nel 2017, in un momento particolarmente doloroso ma anche illuminante della sua vita che riassumo brevemente.
Entrato giovanissimo in Seminario durante la guerra in una vita di stenti e difficoltà, ma di grandi virtù eroiche, giunto alla vigilia della sua ordinazione sacerdotale all’età di 23 anni, si vide rifiutata dal Vescovo la tanto agognata meta, a motivo di alcune composizioni poetiche scritte dall’autore, e male interpretate dal Vescovo perché, secondo lui, di carattere troppo “esistenzialista”. D’altra parte, dopo una guerra terribile come la seconda guerra mondiale, quale poteva essere l’argomento delle poesie se non la visione di una città distrutta per la cattiveria degli uomini? Visione che, al limite, si sarebbe potuta rimediare con qualche rimprovero, esortazione ecc. o per lo meno con il rinvio della Ordinazione. Ma per quei tempi tutto questo appariva come una questione grave e insuperabile. “Io non ti ordinerò mai!” gli disse il Vescovo, intimando poi al Rettore di mandare via quanto prima dal seminario questo “personaggio”, davanti al volto ammutolito di tutti i presenti nell’aula magna.
“Personaggio” il seminarista Rancan, che oltretutto era stato nominato dal Rettore “prefetto” delle nuove vocazioni, vale a dire come “maestro dei novizi” per capirsi, tanto era esemplare la sua condotta. Lascio immaginare ai lettori il trauma che il povero seminarista dovette superare, tuttavia lo affrontò con vera fede e coraggio, senza inveire, senza protestare, senza difendersi, e qui sta la sua eroicità, nella certezza che tutto questo era permesso da Dio per un bene superiore, anche se a lui sconosciuto. E questo pensiero gli dava tanta pace interiore.
Gli fu consigliato di trasferirsi a Roma per continuare i suoi studi universitari ospite della parrocchia gestita dai sacerdoti del “Don Calabria”, santo veronese che aprì nuovi centri di apostolato anche a Roma. Fu così che il nostro autore passò a Roma, tra alterne vicende, ben tre anni, come in esilio, completamente solo. Nessuno si interessò più di lui, né il Rettore, né ancor meno il suo Vescovo, mentre sua madre a Verona custodiva in segreto questa sua sofferenza per il figlio, memore delle sue parole prima di partire per Roma: “Cara mamma. Non piangere, guarda che io diventerò prete!”.
Don Ferdinando perseverò con piena fedeltà al Signore, nonostante questo dolore segreto e lancinante nel cuore, ma con l’interiore certezza che AVREBBE CORONATO IL SUO SOGNO CON LA META DEL SACERDOZIO NELLA SUA DIOCESI, CON LO STESSO VESCOVO E NON ATTRAVERSO ALTRE SCORCIATOIE.
Occorreva una bella fede per perseverare nonostante il rifiuto del Vescovo, mentre avrebbe potuto pensare o di rivolgersi o al Vescovo di una città vicina per essere ordinato in fretta quasi a voler prendersi una rivincita sul suo Vescovo che lo aveva umiliato in quel modo plateale, pubblico, oppure, al limite, anche di rifarsi una vita trovandosi una ragazza per formarsi una famiglia, essendo anche un bel giovane, colto, raffinato e studiando all’università “Scienze biologiche” dove non mancavano brave studentesse orientate al matrimonio. Ferdinando invece, onde mettere subito le cose in chiaro e scoraggiare sin dall’inizio eventuali “avance” femminili, mai cessò di indossare l’abito talare che aveva in seminario, davanti al quale, almeno a quei tempi, si nutriva ancora molto rispetto. E fu così che la sua perseveranza e fedeltà nel buio della prova venne premiata.
In effetti lui tenne con molta discrezione ma costanza i contatti col suo Vescovo di Verona, Mons. Girolamo Cardinale, attraverso il suo segretario, soprattutto d’estate quando tornava a casa per le vacanze, tenendolo informato dei suoi studi, facendogli capire le sue vere intenzioni e cercando di sfatare un po’ alla volta, con infinita pazienza, tutti i malintesi sul suo conto. Fu così che nell’estate del 1952, dopo tre anni di esilio forzato, fu ricevuto personalmente dal suo Vescovo a Verona, si abbracciarono, si riconciliarono e il Vescovo lo rassicurò sulla sua ordinazione che avrebbe permesso l’anno prossimo, previa la conclusione degli ultimi esami di teologia, come avvenne.
Fu ordinato sacerdote il 29 giugno 1953. In realtà questo evento così singolare e anche traumatico fu permesso da Dio perché proprio a Roma don Ferdinando ebbe modo di conoscere il Fondatore dell’Opus Dei arrivato in Italia da pochi anni e la sua spiritualità che fece propria e trasmise anche ad altri, venendo a scoprire in tal modo il disegno misterioso di Dio che gioca con le sue creature nella realizzazione dei suoi disegni provvidenziali, anche se spesso dolorosi.
In questo periodo romano di abbandono, solitudine, buio e sofferenza interiore, diede sfogo a questo suo stato d’animo componendo delle poesie che sono di una bellezza straordinaria, premiate più volte da varie Giurie alle quali sono state inviate per un giudizio da persone amiche che le hanno ritenute valide, e che toccano il cuore per il loro crudo realismo permeato di fede profonda. Sono 43 composizioni, raccolte miracolosamente prima che andassero cestinate, e divise in tre gruppi: poesie del dolore, della speranza e della gioia. Ho scelto questa che riflette proprio la sua gioia ritrovata dopo il colloquio riconciliante avuto con il Vescovo.
31 LA TUA PACE È MIA
Tregnago – estate 1952
--------
Ecco i desideri son finiti
nel mio cuore,
ecco che solo tu ormai mi resti
Amore!
Vedi che lunga strada
mi hai tracciato
fra i sentieri che portano all’aurora!
Ora le pernici
non cercano più cibo
nei crepuscoli
e i ramarri sitibondi
hanno spento ogni arsura
sulle pietre.
Oh! Se avessi saputo,
cercandoti,
quanta luce nasconde la tua notte,
non avrei gridato tanto di paura!
Ora che la tua pace é mia,
e i tuoi silenzi
son diventati pascoli
per la mia fame,
ora che hai dato fuoco alla mia steppa
e hai bruciato ogni ricordo
della mia vecchia terra,
speranze e amori,
pane e felicità,
son gioie inutili per la mia vita
dove ormai tu solo resti,
Amore!
Tutto di me é finito
come un sogno
nel tuo infinito abbraccio
e ogni pietra é un canto di pietà
che tu mi hai dato
- dolcemente –
come un segreto dono
nel mio lungo sonno.
Ed ora le mie labbra
son fiori di asfodelo
tornati a ridere nella rugiada
e tu sei diventato luce d’acqua limpida,
Corpo profumato di Pane vergine
per la mia vita.
Felicità non cerco più,
fragili speranze di vana libertà
non voglio più,
perché son cosa tua
Signore,
perché son finiti i desideri
nel mio cuore,
e solo Tu mi resti
o mio infinito Amore!
L’unico, grande, autentico desiderio
è l’Amore;
perciò l’Amore
è libertà da ogni desiderio.
Tregnago – estate 1952
--------
Ecco i desideri son finiti
nel mio cuore,
ecco che solo tu ormai mi resti
Amore!
Vedi che lunga strada
mi hai tracciato
fra i sentieri che portano all’aurora!
Ora le pernici
non cercano più cibo
nei crepuscoli
e i ramarri sitibondi
hanno spento ogni arsura
sulle pietre.
Oh! Se avessi saputo,
cercandoti,
quanta luce nasconde la tua notte,
non avrei gridato tanto di paura!
Ora che la tua pace é mia,
e i tuoi silenzi
son diventati pascoli
per la mia fame,
ora che hai dato fuoco alla mia steppa
e hai bruciato ogni ricordo
della mia vecchia terra,
speranze e amori,
pane e felicità,
son gioie inutili per la mia vita
dove ormai tu solo resti,
Amore!
Tutto di me é finito
come un sogno
nel tuo infinito abbraccio
e ogni pietra é un canto di pietà
che tu mi hai dato
- dolcemente –
come un segreto dono
nel mio lungo sonno.
Ed ora le mie labbra
son fiori di asfodelo
tornati a ridere nella rugiada
e tu sei diventato luce d’acqua limpida,
Corpo profumato di Pane vergine
per la mia vita.
Felicità non cerco più,
fragili speranze di vana libertà
non voglio più,
perché son cosa tua
Signore,
perché son finiti i desideri
nel mio cuore,
e solo Tu mi resti
o mio infinito Amore!
L’unico, grande, autentico desiderio
è l’Amore;
perciò l’Amore
è libertà da ogni desiderio.
“ (…) L’impressione che questo linguaggio suscitò nel Vescovo fu estremamente negativa perché quelle composizioni gli sembrarono pervase da un pessimismo esistenzialista assai pericoloso, sintomo di una formazione e di una personalità distorte. Perciò, all’istante, egli prese la decisione di allontanarmi immediatamente e definitivamente dagli studi e dalla prospettiva del sacerdozio.
Non è facile per un estraneo rendersi conto quale trauma interiore può provocare un provvedimento così drastico e inaspettato. Ero a pochi passi dalla meta che avrebbe coronato anni di attesa e di sofferta preparazione, e vedevo svanire in un istante la realtà e il progetto che sarebbero diventati un tutt’uno con la mia vita, senza poter immaginare nessun’altra prospettiva e nessun possibile futuro. E’ come se un viandante che torna a casa, arrivato a pochi passi dalla meta, vedesse sprofondare davanti a sé la strada e scomparire tutto in un baratro.
L’unica cosa che seppi percepire in quel momento fu che tutto questo non poteva essere una fatalità assurda e senza senso, ma doveva nascondere l’azione misteriosa di Colui che tutto governa attraverso un dialogo, certamente oscuro ma vincente, tra il suo disegno divino e la libertà degli uomini. (…)
Furono anni di solitudine, vissuti sotto il peso del giudizio negativo degli uomini, in un ambiente umano dove prevaleva il sospetto e la diffidenza. Questo spiega perché le prime pagine di quel diario sono impregnate di sofferenza e di sconforto, con passaggi di amara tristezza. Tuttavia, quegli anni si rivelarono veramente provvidenziali per avvenimenti e incontri di fondamentale importanza per la mia vita. Fra tutti, fu determinante l’incontro con la straordinaria personalità umana e spirituale del beato Josemaria Escrivà, incontro che ha segnato profondamente la mia vita. Ne sono testimonianza le successive pagine del diario contrassegnate dai colori della speranza e della gioia. (…)
Questo diario raccoglie dunque alcuni colloqui intimi che rispecchiano gli stati d’animo di quel periodo; colloqui intimi e non soliloqui di carattere intimistico, perché dialoghi con Colui che è l’unico vero interlocutore della nostra coscienza. Interrogarsi sul significato del dolore e della sofferenza è come interrogarsi sul senso della vita, anzi sul significato della nostra stessa persona. Prima o poi tutti, credenti e non credenti, dobbiamo porci di fronte al nostro passato con l’umile intento di capirne il significato e scoprirne il senso, a volte oscuro e nascosto, convinti che la nostra vita è già essa stessa un valore, e ha valore al di là di tutti gli avvenimenti che ci possono accadere. Essa infatti non è governata da un destino cieco e incombente o da forze anonime e incontrollabili, ma da una Mano paternamente forte e amabile che sa scrivere pagine stupende anche con le lagrime e i sorrisi delle sue creature. E’ questa una strada che libera dall’angoscia perché libera dalla solitudine interiore.
Perciò, o eventuale gentile lettore, se sei credente, il pensiero che puoi ricavare da queste righe, è che Dio dialoga misteriosamente ma sovranamente con la libertà degli uomini e se permette in essi errori che possono causare sofferenza e dolore, lo fa per ricavare un bene più grande che si trasforma in una preziosa ricchezza per la nostra vita. Se poi non sei credente, queste pagine potranno suggerirti una strada perché la sofferenza e il dolore non diventino angoscia.
Sulla terra, infatti, non possiamo vivere soli e non c’è altro modo per vincere la solitudine che scendere nelle profondità più intime della nostra coscienza per incontrare Colui che è l’unica vera risposta alle inquietudini del cuore umano.
Don Ferdinando Rancan
(introduzione al libro di poesie “Fiori di melograno”)
(introduzione al libro di poesie “Fiori di melograno”)
di Patrizia Stella
Il libro, pubblicato in Francia dalle edizioni Fayard,
è stato tradotto e pubblicato in Italia dalle Edizioni Cantagalli
https://www.edizionicantagalli.com/shop/dal-profondo-del-nostro-cuore/
L'impaginazione e le immagini sono nostre
è stato tradotto e pubblicato in Italia dalle Edizioni Cantagalli
https://www.edizionicantagalli.com/shop/dal-profondo-del-nostro-cuore/
L'impaginazione e le immagini sono nostre
A Patrizia un sentito ringraziamento per questo approfondimento "appassionato e per la testimonianza di un sacerdote innamorato di Gesu.
RispondiEliminaCome laico sottolineo in particolare, proprio per vicende che sto vivendo, le considerazioni sulla castità che non è solo quella legata allo stato del sacerdozio ma anche quella che deve essere vissuta dai laici. Il problema della sessualità vissuta come appagamento dei propri istinti e non come un dono è proprio la porta maestra per dare sfogo ai sette vizi capitali di cui ciascuno di noi, a seguito del peccato originale, ne porta un segno che si tramanda di generazione in generazione. Peccato che questo argomento sia "passato di moda" e
che siano pochi i sacerdoti che ne parlino ai fedeli preferendo
parlare di argomeni di misericordismo che non sempre si conciliano con la vera natura umana delle persone.
Un credente non può mai legittimare il peccato. Dire il contrario non è essere santi. Chi crea e legittima il peccato,pensando di essere cristiano o credente,non può definirsi credente.Dire di santi o di altre cose,al fine di legittimare il peccato è soltanto un modo di scandalizzare e disorientare. Una cosa che vorrei aggiungere è che può essere sbagliato parlare soltanto di invidia. Un altro grande sbaglio è sicuramente l'arroganza o la superbia delle classi più agiate nei confronti delle classi sottostanti. Questo può manifestarsi sia da parte di ricchi modernisti che da parte di "credenti".
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