Una acuta e tagliente riflessione di padre Robert P. Imbelli, un sacerdote della diocesi di New York, sull’ultima intervista riportata da Eugenio Scalfari, fondatore di La Repubblica, a Papa Francesco. 
È un articolo pubblicato su The Catholic Thing che vi propongo nella mia traduzione. 
Papa Francesco e Eugenio Scalfari
Papa Francesco e Eugenio Scalfari

A prima vista, può sembrare che il titolo di questo articolo si riferisca all’omonimo film, che ha raccolto numerosi elogi e critiche. È stato ampiamente riconosciuto che i due attori che ritraggono Benedetto e Francesco hanno dato spettacolo di alto livello. E’ stato anche ammesso, anche da parte di dichiarati partigiani di Papa Francesco, che la rappresentazione di Benedetto come calcolatore nella sua ricerca di diventare papa e neolitico nelle sue preoccupazioni teologiche è una caricatura. Ho visto il film, ma non ho intenzione di rivisitarlo qui.

Può sembrare, quindi, che il titolo si riferisca alla recente, molto discussa e, da alcuni, deplorata collaborazione tra il Cardinale Robert Sarah e Papa Benedetto emerito per la pubblicazione di un piccolo libro, Dal profondo dei nostri cuori: Il sacerdozio, il celibato e la crisi della Chiesa cattolicaLe questioni e le preoccupazioni sollevate da e sul libro sono reali e urgentiMa l’esistenza simultanea di due figure in bianco, entrambe trattate come “Santo Padre”, e la confusione che ne deriva non è la “malizia” che intendo qui.
Mi riferisco piuttosto all’ultimo tête à tête tra papa Francesco ed Eugenio Scalfari, il fondatore nonagenario e patriarca del quotidiano italiano di sinistra La Repubblica. Chi segue le audaci avventure dell’attuale papa sa che tra gli elementi problematici del suo pontificato c’è la serie di interviste che ha concesso al signor Scalfari, a partire da un periodo piuttosto precoce del suo mandato.
Scalfari, ateo dichiarato, ha comunque ricevuto in più occasioni un accesso privilegiato al Papa. Ha poi scritto degli incontri sul suo giornale, citando liberamente Francesco, pur ammettendo di non registrare le parole del papa e di non prendere appunti durante le loro conversazioni. Si limita a interrogare, ascoltare, rispondere e trasmettere – assecondando, per essere sicuri, una certa libertà creativa.
Il risultato di queste idiosincratiche procedure, se non irresponsabili, è che in diverse occasioni la Sala Stampa vaticana è stata costretta più volte a fare vaghe ritrattazioni delle opinioni piuttosto estreme attribuite a papa Francesco, come quella di mettere in discussione la divinità di Gesù di Nazareth. Scalfari ha riferito proprio lo scorso autunno che “Papa Francesco concepisce Cristo come Gesù di Nazareth, uomo, non Dio incarnato”. Quest’ultima affermazione alla fine ha evocato una più robusta smentita da parte di Paolo Ruffini, il laico che dirige il Dicastero Vaticano per le Comunicazioni. Ruffini ha insistito: “Il Santo Padre non ha mai detto quello che Scalfari ha scritto che ha detto. Pertanto, sia le osservazioni citate, sia la libera ricostruzione e interpretazione da parte del dottor Scalfari dei colloqui – che risalgono a più di due anni fa – non possono essere considerate un fedele resoconto di quanto detto dal papa”.
È, quindi, tanto più sconcertante, anzi, allarmante, che Papa Francesco continui a esercitare una “opzione privilegiata” per Scalfari, un uomo che si è dimostrato poco affidabile nella sua segnalazione. Questa opzione privilegiata è stata recentemente esposta in modo eclatante nel numero del 16 gennaio de La Repubblica, con tre pagine di rilievo dedicate all’ultimo colloquio tra i “due papi”: Francesco in rappresentanza della Chiesa cattolica ed Eugenio in rappresentanza della Sinistra laica. Il titolo suonava: “Francesco: Io, Ratzinger, e la Terra da salvare”, ma si potrebbe avere il diritto di leggerlo più semplicemente come “Francesco ed io”.
Scalfari si vanta del suo “intenso rapporto con il Santo Padre”. E poiché la collaborazione Sarah-Benedetto aveva appena fatto notizia, Scalfari assicura i suoi lettori della serenità di Francesco. Infatti, egli sostiene che Benedetto aveva comunicato a Francesco la sua piena “solidarietà” (tutta la sua solidarietà), insieme alla confessione che lui, Benedetto, non aveva “mai autorizzato” una paternità congiunta del libro (mai autorizzato un libro a doppia firma). Cito, naturalmente, le parole di Scalfari, anche se, presumibilmente, rappresentano ciò che lui ha tratto da Francesco.
Dopo aver amichevolmente rinunciato a tali spiacevoli inconvenienti, la conversazione passa poi a preoccupazioni più pressanti condivise dai due Pontefici. Può sembrare che io sia frivolo. Ma Francesco esorta il suo stimato amico a cessare l’appellativo troppo ultraterreno, Santità, (“Santità“) e a ricorrere al più terreno “Papa Francesco”, o semplicemente “Francesco”. Dopotutto, dichiara in modo convincente: “Siamo amici, no?” (Siamo amici, no?) D’ora in poi i due Papi saranno due ragazzi normali: Frank e Gene – magari condividendo anche pizza e birra come i loro omologhi di Netflix.
Liberati ora dalle ampollose inibizioni e dalle divisioni, i due galoppano attraverso una serie di questioni che darebbero tregua alle anime meno forti. Agostino sulla grazia e la predestinazione, che qualifica come “mistico” (Agostino e Ignazio di Loyola, no; Francesco d’Assisi, sì, dice Francesco); l’inafferrabile senso di sé, la sua libertà, la sua lotta tra il bene e il male.
Da lì si passa rapidamente all’immigrazione, al cambiamento climatico, a un bizzarro riferimento a Gesù come persona di “autorità”, che si manifesta nella sua coerenza di vita e nella sua testimonianza (coerenza e testimonianza). Si ha il senso vertiginoso, in questo circuito senza respiro delle Grandi Domande, di quello che un amico chiama “l’attraversare il Louvre con pattini a rotelle”.

Intervista di Scalfari a Papa Francesco il 16.01.2020
Intervista di Scalfari a Papa Francesco il 16.01.2020

Ma ciò che sembra davvero legare il papa laico e il papa ecclesiale è la funzione sociale e politica della religione: la sua capacità di far avanzare un’agenda. Perché altrimenti la persistente attenzione ad Eugenio da parte di Francesco? Perché altrimenti La Repubblica di Scalfari avrebbe dedicato così tanto spazio a un papa visto che ha disprezzato i suoi predecessori? Entrambi potrebbero abbracciarsi calorosamente, nel momento in cui si congedano l’uno dall’altro, nella certezza di un impegno comune “di aggiornare il nostro spirito collettivo alla società civile e moderna” (di aggiornare il nostro spirito collettivo alla società civile e moderna). Nessun accenno qui al pericolo che un “aggiornamento” conciliare possa degenerare in una capitolazione culturale.
Ogni lingua ha certe parole chiave a cui ci si rivolge così frequentemente da rivelare qualcosa della sua grammatica esistenziale. In italiano, una di queste parole è strumentalizzare – strumentalizzare, cooptare, usare per i propri scopi.
Da sei anni a questa parte, mi chiedo chi si avvale di chi in questo affascinante pas de de deux tra i due Papi. Sicuramente non si sta facendo “proselitismo”. Ma nemmeno si sta “evangelizzando”.
C’è invece una palpabile, piuttosto romantica interpretazione di Francesco d’Assisi da parte di entrambi. È il Francesco di Laudato si’, che ha avuto un rapporto mistico con la natura, anche con gli animali selvatici; che fece un lungo viaggio per incontrare il Sultano in un dialogo rispettoso; e che, secondo papa Francesco, come trasmesso da papa Eugenio, è morto in un prato con la mano sulla mano di Chiara (disteso su un prato con la mano sulla mano di Chiara). Franco Zeffirelli, chiama Santa Marta!
O c’è qualcosa di più del romanticismo italiano in gioco? Forse quella momentanea sgradevolezza di cui si parlava prima non è stata lasciata da parte. Forse è proprio questo che spinge la presente intervista, così in evidenza sulle pagine di Repubblica.
Dopotutto, la pressante questione della collaborazione Sarah-Benedetto riguarda il celibato sacerdotale. E la collaborazione Scalfari-Francesco – due uomini astuti nel creare immagine – ci lascia con l’immagine del povero uomo di Assisi, il diacono, morente mano nella mano con Chiara. E, ci assicurano solennemente, anche lei, non meno di lui, santa! L’ordinazione del vir probatus è segnalata in questa immagine appena dipinta e accuratamente realizzata? E, alla fine, quella della mulier probata? San Francesco e Santa Chiara, pregate per noi!
“Esagerato, Padre!”, alcuni potrebbero protestare. Ma io ho sempre preso papa Francesco sulla parola. Nella prima di quella che si è rivelata una serie interminabile di interviste, papa Francesco ha risposto a una domanda del direttore gesuita de La Civiltà Cattolica, Antonio Spadaro: “Chi è Jorge Mario Bergoglio? Il nuovo papa fa una pausa, riflette e confessa: “Sono un peccatore”. Poi, dopo averci riflettuto un po’ su, aggiunge in maniera un po’ spontanea: “forse posso dire di essere un po’ astuto… un po’ ingenuo”. (Un pò’ furbo…un pò’ ingenuo.)
Ora anche furbo è una di quelle espressioni italiane per eccellenza. I traduttori inglesi dell’intervista a Spadaro usano “astuto” come equivalente. Ma furbo suona anche un sottinteso di astuto e scaltro. Se si volesse dire di qualcuno in italiano, “è un operatore astuto”, probabilmente si direbbe: “è un furbo”.
Nel raccontare la genesi di quell’intervista inaugurale dell’agosto 2013, padre Spadaro afferma che il Papa aveva parlato della “sua grande difficoltà nel rilasciare interviste”. Infatti, Francesco preferiva “pensare con attenzione piuttosto che dare risposte immediate alle interviste”.
Fosse stato così, Santità; fosse stato così.
Robert P. Imbelli, sacerdote dell’arcidiocesi di New York, ha studiato a Roma durante gli anni del Concilio Vaticano II. Ha insegnato teologia al Saint Joseph’s Seminary, a Dunwoodie, alla Maryknoll School of Theology e al Boston College. È autore di Rekindling the Christic Imagination: Meditazioni teologiche sulla Nuova Evangelizzazione.
Di Sabino Paciolla