Il quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana si è esibito – e a più riprese – in un ridicolo balletto giornalistico per elogiare una delle più miserevoli, infondate e blasfeme interpretazioni del libro della Bibbia più commentato dai Padri e nel Medievo, ossia il Cantico dei Cantici.
Il quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana si è esibito – e a più riprese – in un ridicolo balletto giornalistico per elogiare una delle più miserevoli, infondate e blasfeme interpretazioni del libro della Bibbia più commentato dai Padri e nel Medievo, ossia il Cantico dei Cantici. E Roberto Benigni riderà – e giustamente – sotto i baffi, nel vedere quanta importanza si sia conferita al suo intervento, costruito ad arte su un nulla di contenuto. Praticamente fuffa, aria fritta, venduta come se provenisse da una sapienza divina.
Avvenire, con la firma dell'inviata a Sanremo, impaziente di mostrare al mondo di non essere inferiore a nessuno nell’apprezzamento della cultura contemporanea e nell’apertura della mente ai segni dei tempi, spara un articolo dal titolo : “Festival. Benigni a Sanremo recita il Cantico dei Cantici”, che è tutto una sottolineatura dei presunti “vertici della mistica” toccati dal comico toscano, il quale, per l’occasione, scrive, «rinuncia alla comicità e si presenta come “cantante” del nome della Bibbia». Addirittura. Mancava solo che all’Ariston si aprissero i cieli.
L’inviata di Avvenire, dopo tutta una serie di citazioni, la cui banalità non ha bisogno di commenti, non riesce a contenersi di fronte all’accorato intento pedagogico di Benigni: «Il messaggio di Benigni vuole coinvolgere le nuove generazioni “che parlano di sesso, guardano filmini erotici ma di amore non ne fanno più”». Già. Il problema non è che le nuove generazioni non si sposano, non si assumono la responsabilità della famiglia, on riescono a vivere il “per sempre”, non purificano l’eros mediante la virtù della castità. No, il problema è che non fanno più l’amore; magari con dieci, venti, trenta partner diversi, ma l’importante è che smettano di parlare e guardare e passino ai fatti. E infatti Benigni ha invitato i presenti all’Ariston ad una bella orgia comunitaria, orchestra inclusa, giusto per cominciare ad essere concreti. Ma questo dettaglio la Calvini ha deciso di ometterlo.
Insomma, per Avvenire c’è stato un grandissimo Benigni, che ha sorpassato per intensità e profondità quei barbosi commentatori come Origene e Bernardo, Gregorio di Nissa e Guglielmo di Saint-Thierry, che volevano coprire il messaggio carnale del Cantico, rivestendolo di simboli.
L’aver poi presentato il Cantico come la celebrazione di qualsiasi tipo di “amore”, incluso quello omosessuale, è stato secondo l'inviata solo una piccola licenza poetica, liquidata così: «Salvo prendersi una libertà “politicamente” corretta».
Qualcuno che si sia più o meno santamente surriscaldato dev’esserci stato ed evidentemente non dev’essersi tenuto per sé il dissenso. E così Avvenire ha cercato di correre ai ripari. Il titolo è stato ritoccato con un inciso (vedi qui): «Festival. Benigni a Sanremo recita (e un po’ tradisce…) il Cantico dei Cantici»; mentre alla libertà “politicamente” corretta, viene aggiunto: «Che finisce per tradire non solo la lettera ma il significato profondo del Libro biblico».
Le pezze però hanno finito per peggiorare la situazione; in Redazione non devono essersi accorti dell’incongruenza, perché non si capisce come si possa dire che Benigni abbia tradito solo un po’ il Cantico e poi affermare che ne ha sovvertito sia la lettera che il significato profondo…
Ma non basta l’online. Bisognava far danni anche sul cartaceo (8 febbraio 2020) con due articoli al femminile. Prima la teologa Rosanna Virgili e poi un’altra inviata a Sanremo, hanno effuso lacrime di gratitudine e commozione per il dono inatteso di Benigni: «Che gioia il Cantico dei Cantici a Sanremo! Grazie a Roberto Benigni che ha sorpreso e stupito il Festival», scrive la teologa. Felicità comprensibile nella prospettiva di chi ritiene che il Cantico dei Cantici, per il solo fatto di contenere voci del coro, assomiglia «ai testi delle canzoni in gara e anch’essi nascono in un ambiente popolare». La platea dell’Ariston e i “protagonisti” del festival sono infatti notoriamente uno spaccato rappresentativo dell’ ambiente popolare italiano... Quanto ai testi, un giorno avremo forse un Agostino del terzo millennio che ci spiegherà che il “Me ne frego” di Achille Lauro altro non è che un testo ispirato sull’impassibilità dei monaci del Monte Athos.
La teologa, dopo aver bruciato incenso al nuovo padre della Chiesa, tale Guido Ceronetti, parla del Cantico come fosse il Kamasutra, prendendosela con la Chiesa che ha «impedito per secoli l’accesso a questo piccolo libro».
E poi c’è l’inviata, quella del cartaceo, a magnificare tutte le stupidaggini di Benigni, che è riuscito nell’impresa di fare in modo che 40 minuti di testo biblico tenessero «incollati al video milioni di persone nel cuore di un Festival della canzone, in tarda notte. Un’operazione praticamente perfetta». Neanche papa Francesco poté mediaticamente tanto…
Onore a Benigni che ha riportato alla luce il testo nudo e crudo del Cantico, non quello edulcorato dalla Chiesa. Un esempio? La sua mano sinistra è sotto la mia testa, con la destra mi stringi nell’amplesso». Ma forse né Benigni né l'inviata sanno che la Chiesa, nell’Ufficio della Madonna in sabato del Breviario precedente alla riforma, tutte le settimana fa cantare un’antifona che suona così: «Laeva eius sub capite meo et dextera illius amplexabitur me». Poi è arrivata la riforma liturgica e l’ha tolta, dopo secoli e secoli in cui questo testo così tabù è stato cantato nei monasteri e pregato dai sacerdoti come il più adatto ad esprimere l’unione della Santissima Vergine con il Signore. Perché il senso del Cantico non è la celebrazione della concupiscenza carnale, ma lo svelamento del senso profondo dell’eros: quell’unione mistica con Dio, di cui il rapporto carnale è figura, peraltro deformata dopo il peccato originale. Esattamente l’opposto di quello che ha fatto Benigni.
E allora c’è poco da applaudire uno che ha sì portato un testo della Bibbia sul palcoscenico di Sanremo, ma non per purificare l’ambiente dalle immondezze che si sono viste in questi giorni, ma per imbrattarlo dello stesso fango.
Il miglior commento a questa totale resa del mondo cattolico, è quanto il grande teologo Louis Bouyer, un po’ scocciato e un po’ preoccupato da quello che vedeva attorno a sé, scrisse nel 1948, per mettere in guardia i cattolici da un atteggiamento pericolosamente remissivo di fronte alla modernità: «È un fatto che i cristiani di oggi non possono sopportare l’idea di avere dei nemici. Vorrebbero essere contro tutto ciò che è contro e a favore di tutto ciò che è a favore. Non c’è più modo, attualmente, di essere non credenti. Se pure vi ingegnaste a sgranare parole blasfeme, sarebbe tempo sprecato. Foste pure Nietzsche, Proudhon o perfino il marchese De Sade, trovereste di certo un ecclesiastico illuminato per scrivere un libro nel quale sareste amabilmente sollecitato, generosamente interpretato, accortamente assimilato».
Ma forse neanche Bouyer era riuscito ad immaginare tanta miseria.
Luisella Scrosati
https://lanuovabq.it/it/il-blasfemo-cantico-di-benigni-entusiasma-solo-avvenire
di Miguel Cuartero Samperi
Sanremo è Sanremo e Benigni è Benigni. Il suo lungo monologo sul palco dell’Ariston dedicato al Cantico dei Cantici, ha suscitato numerose polemiche a causa della personale rilettura e travisamento del testo sacro. Gli osservatori più acuti (come ad esempio Diego Fusaro e Tommaso Scandroglio su La Nuova Bussola Quotidiana) hanno visto nella desacralizzazione e nella derisione del cristianesimo una delle peculiarità di questa settantesima edizione del Festival. Dal siparietto iniziale di Fiorello travestito da prete che invita gli spettatori a scambiarsi un segno di pace, a Lauro che emula san Francesco, dal “Non sia fatta la tua volontà” di Tiziano Ferro a Zucchero che insegna che “Solo una sana e consapevole libidine salva il giovane dallo stress e dall’azione cattolica”. Per finire col bacio tra Fiorello e Ferro, seguito dalle pubbliche scuse al legittimo marito (sic!) del secondo.
Un attacco al sacro e alla trascendenza che è la cifra dell’intervento di Benigni che spoglia il Cantico dei Cantici di ogni riferimento a Dio e all’anima per convertirlo in un manifesto sessantottino di elogio dell’amore (omo)sessuale, novello Decameron boccacciesco. Una imbarazzante performance che tradisce le intenzioni di un comico di fama internazionale.
Tra le tante voci che si sono elevate in ambito cattolico contro questa vergognosa desacralizzazione della Parola di Dio, sorprende leggere alcuni endorsement d’eccellenza. In effetti che a qualcuno il Cantico di Benigni è piaciuto assai. È piaciuto ad esempio a uno studioso che ha collaborato col comico nella stesura del monologo: si tratta, niente meno, che del Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, biblista di fama internazionale e prolifico scrittore, il cardinale Gianfranco Ravasi che con orgoglio ha pubblicato su Twitter il ringraziamento di Benigni alla sua persona per i buoni consigli sul testo. Non si riesce a comprendere come si possa essere orgogliosi per aver contribuito a un tale indecente spettacolo, tra l’altro pieno di inesattezze dal punto di vista storico, biblico e interpretativo.
Un secondo incredibile applauso a Benigni arriva dalla Associazione Papaboys che non risparmia gli elogi: “Grazie Roberto Benigni. Questo è il tuo omaggio a Giovanni Paolo II che ti ha toccato il cuore”. Non sappiamo che film abbiano visto quelli di Papaboys, ma la cosa lascia a dir poco perplessi. Viene da domandarsi a quale “papa” appartengano questi “boys” che a dicembre hanno esplicitato il loro sostegno alle Sardine in vista delle elezioni regionali in Emilia Romagna (Sartoriboys?). Di certo pensare che Benigni, con il suo monologo, abbia voluto omaggiare Giovanni Paolo II è – ad essere buoni – fuorviante: una storpiatura dello storpiatore.
Un endorsement d’eccellenza nei confronti del Cantico Benigni lo si trova invece sulle colonne di Avvenire dove la biblista Rossanna Virgili afferma che: «L’idea di far conoscere e gustare il Cantico è stata davvero stupenda, appropriata, preziosa per un pubblico tanto vasto e popolare come quello del Sanremo in mondovisione». Un’idea che neanche la “licenza interpretativa” di Benigni può inficiare, nonostante abbia «tradotto, tradendolo, l’amore tra amato e amata in altri amori che sono lontani e fuori dal limpido orizzonte biblico». Noi, al contrario, temiamo che l’idea di Benigni non sia stata proprio così felice, l’idea di proporre la propria personalissima idea del mondo, dell’uomo e della sessualità strumentalizzando a questo fine la Sacra Scrittura e approfittando della propria popolarità per politicizzare il testo sacro. Dispiace che a non notarlo sia una nota biblista sul giornale dei vescovi. Giusto però far notare che sullo stesso giornale l’inviata a Sanremo Lucia Bellaspiga sottolinea con dispiacere la sottomissione di Benigni ai diktat del “politicamente corretto”.
Me per amore di verità e per carità cristiana verso il comico e verso i suoi più attenti ascoltatori vorremmo rispettosamente cercare di rispondere su un punto (tralasciando la questione, già largamente affrontata altrove, riguardante il senso, l’origine e l’interpretazione del Cantico dei Cantici). Benigni ha parlato di eternità, affermando che l’amore (concetto che lui identifica e scambia volentieri col “fare l’amore”) offre agli uomini la possibilità di divenire immortali.
Eternità. Sì Benigni, lei ha ragione, nel cuore dell’uomo c’è un profondo anelito, il desiderio di eternità. Nessuno vuole che i propri giorni finiscano; la paura della morte ci stringe, ci lega, al punto che spesso darci alla “pazza gioia” ci sembra una via percorribile per raggiungere l’illusione di allontanare la fine. Anche il sesso è una scappatoia, ci offre l’illusione dell’immortalità, per poi abbandonarci alla nostra pensante, ingombrante e caduca umanità dai giorni contati. Il libro della Sapienza ci mostra in maniera plastica questa dolorosa realtà:
Dicono gli empi sragionando: «La nostra vita è breve e triste; non c’è rimedio, quando l’uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi. Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati. La nostra esistenza è il passare di un’ombra e non c’è ritorno alla nostra morte, poiché il sigillo è posto e nessuno torna indietro. […] Su, godiamoci i beni presenti, facciamo uso delle creature con ardore giovanile! Inebriamoci di vino squisito e di profumi, non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera, coroniamoci di boccioli di rose prima che avvizziscano; nessuno di noi manchi alla nostra intemperanza. Lasciamo ovunque i segni della nostra gioia perché questo ci spetta, questa è la nostra parte» (Sap 1, 1-2. 6-9).
Così pensano coloro che non conoscono Dio. E cercano in ogni modo di scappare alla paura della morte. Ma – continua la Sapienza – «Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono» (Sap. 2, 23-24).
Siamo stati creati per l’immortalità ma viviamo circondati di morte. Solo l’incontro con Cristo, che è Via, Verità e Vita, può restituirci – a noi che viviamo da schiavi – la nostra dignità di Figli di Dio, coeredi di Cristo, destinati al cielo e non al cimitero. Non è dunque la sfrenatezza dei sensi (la chiami pure amore) e l’ebrezza dell’amore libero a donarci l’immortalità.
L’immortalità è un’altra cosa. Come afferma San Paolo nella lettera ai Romani: «liberati dal peccato e fatti servi di Dio, voi raccogliete il frutto che vi porta alla santificazione e come destino avete la vita eterna. Perché il salario del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore».
Ecco in cosa consiste l’immortalità. E questi versi del Cantico dei Cantici, che San Tommaso d’Aquino, sollecitato dai suoi compagni, commentò in punto di morte nella Abazia di Fossanova, la descrivono con densità poetica e profondità spirituale: «Ho cercato l’amato del mio cuore… quando lo trovai lo strinsi fortemente e non lo lascerò mai» (Cdc 3,4)
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