La vera fragilità è non accettare l’idea della morte. Coronavirus? Morire si deve guarda un po’ che strano destino! E' il peccato di Adamo ed Eva con l’enfasi della cultura scientista: viviamo in un eterno "Carnevale dei pazzi"
di Francesco Lamendola
È arrivato il coronavirus e ci siamo scoperti straordinariamente fragili, a tutti i livelli. Fragile la politica, fragile l’economia, fragile la scienza, fragile la comunicazione, fragile la sanità, fragile perfino Chiesa. Fragili le nostre certezze, le nostre sicurezze, tutti i nostri punti di riferimento. Abbiamo scoperto di essere nudi, quando ci credevamo ben vestiti e perfettamente equipaggiati; di essere quasi ciechi, quando credevamo di vederci benissimo; di essere forti, mentre siamo debolissimi; di essere preparati, mentre siamo impreparati; di essere avveduti, mentre siamo inconsistenti; di saper guardare al futuro, mentre non riusciamo a capire neanche il presente più immediato. Abbiamo fatto tutta una serie di scoperte amare e sconcertanti, e un giorno dovremo farne un bilancio e agire regolandoci di conseguenza.
Abbiamo scoperto quel che valgono i trattati, le alleanze, i pezzi di carta, e chi sono i nostri veri nemici, benché formalmente fossero e siano amici; e anche il fatto che praticamente non abbiamo dei veri amici, neppure uno, anzi il mondo è pieno di quelli che si rallegrano per le nostre disgrazie.
Coronavirus? Morire si deve, guarda un po’ che strano destino! E' il peccato di Adamo ed Eva con l’enfasi della cultura scientista: viviamo in un eterno "Carnevale dei pazzi"!
Abbiamo scoperto che è meglio, molto meglio far da sé, beninteso purché gli altri non ci facciano lo sgambetto: come è accaduto per quelle 750.000 mascherine acquistate in Cina da un’azienda di Sondrio e trattenute in Germania, dopo essere sbarcate nel porto di Rotterdam, perché il governo tedesco pensa che debbano servire a loro, ai superuomini germanici e non andare ai sotto-uomini latini, che pure le avevano già acquistate per conto proprio. Abbiamo pure scoperto che l’uscita della neopresidente della BCE, Christine Lagarde, che ci è costata un crollo di borsa del 17% dei titoli azionari, e una perdita secca dai 70 ai 100 miliardi di euro (sì, avete letto bene: miliardi, non milioni) non è stata per niente una gaffe, ma una mossa freddamente decisa in anticipo per affossare la nostra borsa, e resa ancor più semplice dal fatto che i nostri governanti, traditori, l’avevano lasciata aperta, in modo che il danno, per noi, fosse il più grande possibile. E abbiamo preso buona nota del fatto che il papa argentino, di origini piemontesi, non ha avuto una parola buona per il nostro popolo, non ha rivolto una benedizione all’Italia, né una preghiera, o una invocazione a Dio, ma ha seguitato a rintronarci gli orecchi con la sua inossidabile filastrocca sui migranti perfino nei giorni più bui, quando eravamo chiusi in casa e incerti del nostro destino.
È arrivato il coronavirus e ci siamo scoperti straordinariamente fragili, a tutti i livelli. Fragile la politica, fragile l’economia, fragile la scienza, fragile la comunicazione, fragile la sanità, fragile perfino Chiesa. Fragili le nostre certezze, le nostre sicurezze, tutti i nostri punti di riferimento!
La cosa più sorprendente, però, a nostro parere, è stata scoprire che eravamo impreparati sul piano morale e spirituale, per non dire di quello religioso. Scoprire che la sanità italiana dispone di appena tre posti letto ogni mille abitanti, contro gli otto della Germania, è stato scioccante, ma pur sempre legato a ragioni contingenti, di tipo puramente organizzativo; ma la cosa più scioccante è stato scoprire che non riuscivamo a farci una ragione di un fatto semplicissimo e di portata universale: che si può morire in qualsiasi momento. Nessuno ci ha promesso che camperemo almeno fino a novant’anni. Sì, le statistiche dicono questo, più o meno; l’enfasi della cultura scientista ci ha messo poi molto di suo, nel suggerirci l’idea folle, completamente folle, che alla morte non vale la pena di pensare, perché è un evento molto lontano, molto incerto e molto improbabile, mentre è vero l’esatto contrario: che il solo evento assolutamente certo che si staglia sul nostro orizzonte fin dal momento in cui apriamo gli occhi al mondo.
"Memento, homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris": ricordarti, uomo, che sei polvere ed in polvere ritornerai!
La Chiesa, che era la custode dei più alti valori spirituali del nostro popolo, per la semplice ragione che era stata lei ad insegnarglieli, custodiva anche questo senso della finitudine, della fragilità e della transitorietà dell’esperienza terrena: il Mercoledì delle Ceneri, secondo la vecchia liturgia, il sacerdote poneva un pugno di cenere sul capo dei fedeli e diceva loro: Memento, homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris: ricordarti, uomo, che sei polvere ed in polvere ritornerai. Poi c’è stata la riforma liturgica (massonica: grazie tante, arcivescovo Bugnini; grazie tante, “santità” Paolo VI), via il latino e via anche la formula di rito: adesso il sacerdote dice soltanto: Convertiti e credi al Vangelo, che è, sì, una frase evangelica, ma che in quel contesto, in quel momento del calendario liturgico, non solo non ha senso, ma si direbbe proprio che sia stata pensata e voluta precisamente per togliere il vero significato di quella ricorrenza: per far dimenticare all’uomo la sua mortalità. E così come la cultura moderna ha rimosso, un poco alla volta, il senso delle proprie radici, dell’appartenenza, dell’identità, e quindi la memoria e la prospettiva storica delle cose, tutto in nome di un eterno presente che è, guarda caso, il tempo ed il tempio dell’eterno consumismo, dell’eterno paese di Bengodi, dell’eterno Carnevale dei pazzi, così ha allontanato all’infinito la prospettiva della morte, suggerendoci, fra le righe, che il rimedio alla morte prima o poi verrà trovato. Abituati come siamo a ragionare (o a credere di ragionare) in termini sempre più quantitativi, e non qualitativi, abbiamo pensato, o creduto di pensare, che così come la scienza è stata capace di allungare i tempi della vita media, così, di allungamento in allungamento, un pezzettino alla volta, essa riuscirà anche a strappare alla morte il suo pungiglione e a regalarci la vita eterna, non di là, nell’incertissima dimensione del soprannaturale, ma quaggiù, nella concreta dimensione della natura. Diverremo immortali per merito nostro, con le nostre forze e a dispetto di Dio, che di ciò sarà terribilmente geloso: esattamente il peccato di Adamo ed Eva, sedotti dalla promessa del serpente che i loro occhi si sarebbero aperti alla conoscenza del bene e del male, e che essi sarebbero divenuti come Dio, senza più conoscere la morte.
La vera fragilità è non accettare l’idea della morte!
I nostri nonni non avevano questa mentalità. Per loro, morire bisogna: non ne erano particolarmente desiderosi, ma neppure terrorizzati. Forse perché vivevano con maggiore profondità, con maggiore serietà, con maggiore spirito di sacrificio e perfino con un sia pur minimo sforzo di santificazione: pensavano, cioè, che la vita ci è data per migliorarci, per progredire, per divenire, in prospettiva, santi. Non pensavano, in genere, di diventarlo: però sta di fatto che da quelle famiglie, numerose, cresciute nella fede cattolica, una fede vissuta, uscivano numerosi preti e suore, numerose anime sante, non poche delle quali hanno realmente realizzato l’ideale della santità, magari come missionari e missionarie in qualche lontana plaga dell’Africa o dell’Asia, prodigandosi – non a chiacchiere, come è di moda oggi – per gli ultimi, per i più bisognosi, anche per i lebbrosi o i colerosi o gli appestati, e non di radio sacrificando la loro vita per amore di Cristo e di quei poveri fratelli dimenticati da tutti. In ogni caso, i nostri nonni non si ritenevano eterni; non si ritenevano permanenti; non vedevano la vita terrena come la vita vera e definitiva, ma solo come un transito, una tappa del nostro pellegrinaggio. La devozione, la frequenza alla santa Mesa e ai Sacramenti, la penitenza, il digiuno, la recita quotidiana del Rosario, anche più volte al giorno, l’elemosina ai poveri, spesso togliendosi quasi il necessario, l’assistenza ai malati, a cominciare dai genitori, dai parenti, dai vicini, e da ultimo, ma non per ultimo, le visite al cimitero ai loro cari defunti, portandosi se possibile anche i figli e i nipotini, tutte queste cose facevano sì che l’idea della morte, la prospettiva della morte, la certezza della morte, fossero sempre presenti davanti a loro. E quel che si notava è che tale idea non li immalinconiva, semmai li rendeva più maturi, più consapevoli.
I nostri nonni non si ritenevano eterni, non vedevano la vita terrena come la vita vera e definitiva, ma solo come un transito, una tappa del nostro pellegrinaggio di cattolici. Ai nostri nonni, l’idea della morte non solo non li atterriva, ma appariva loro sotto una luce perfino amabile, perché avrebbe consentito loro di ricongiungersi con tutte le persone care, delle quali nutrivamo un’acuta nostalgia!
Il nonno che abbracciava i suoi nipotini, che raccontava loro delle storie, che costruiva per loro dei semplici giocattoli fatti in casa, col cartone lo spago, insegnando loro a sognare, a vedere con gli occhi della fantasia, sapeva di essere fortunato, o meglio sapeva di aver ricevuto una grazia da Dio: quella di vivere abbastanza da vederli crescere, almeno per qualche anno, cosa che non era scontata, né per se stessi, né per i bambini. La morte poteva bussare alla porta a qualsiasi età: era una presenza tutt’altro che insolita. Con tale abito mentale, con tale stato d’animo, si predisponevano anche all’ultimo viaggio: non con angoscia, né con disperazione, tanto meno con rabbia e con rancore. Avevano vissuto, tanto o poco, ma avevano vissuto; avevano fatto, nella vita, quel che c’è da fare: avevano lavorato onestamente, avevano messo su una casa (spesso con immensi sacrifici, dopo dieci o venti anni di lavoro all’estero) e una famiglia, cresciuto dei figli, benedetto i nipotini, e avevano cercato di non deviare dalla retta via, di non macchiarsi di colpe o di vergogne, di mantenersi puri davanti agli uomini e davanti a Dio.
Far dimenticare all’uomo la sua mortalità? E' l’enfasi della cultura scientista che ci suggerisce l’idea folle, che alla morte non vale la pena di pensare, essendo un evento molto lontano, molto incerto e molto improbabile, mentre è vero l’esatto contrario!
Dopo di che, erano pronti, o quanto meno erano preparati. Se Dio li lasciava al mondo ancora per qualche anno, bene; ma se li chiamava a sé, non per ciò si sarebbero strappati i capelli, specialmente se la loro moglie o il loro marito erano già morti, se erano già morti i loro genitori e i loro zii, e qualche volta anche alcuni figli: allora l’idea della morte non solo non li atterriva, ma appariva loro sotto una luce perfino amabile, perché avrebbe consentito loro di ricongiungersi con tutte le persone care, delle quali nutrivamo un’acuta nostalgia. Mano a mano che la cultura profana, inquinata dal consumismo e dagli stili di vita americaneggianti, si è discostata da questa visione del mondo, anche la società, la stampa, il cinema, la televisione, quando essa è arrivata, si son messi a diffondere un nuovo tipo di cultura, un nuovo atteggiamento verso la morte: un atteggiamento di rifiuto e di negazione. Oggi i bambini quasi non la vedono; in cimitero si va poco, e ci si va con spirito profano, scherzando e chiacchierando, senza ascoltare in rispettoso silenzio la voce dei morti; perfino i vedovi e le vedove di età avanzata fanno di tutto per non pensare mai alla morte, ma solamente a vivere, a vivere ancora, a ringiovanire, a levarsi i capricci che non si sono tolti prima, quand’erano giovani. Ed ecco le signore di settant’anni, fresche di vedovanza, cambiar pettinatura, tingersi i capelli di un altro colore, cambiare abbigliamento, indossare le magliette, i pantaloni e gli stivaletti, o magari le gonne corte, come non avevano mai fatto in vita loro, sottoporsi alle lampade, abbondare coi profumi, col rossetto sulle labbra e l’ombretto sugli occhi, partire in crociera, cercarsi un nuovo compagno di vita. Per carità: cose legittime, non c’è alcuna legge che le vieti. Ma è questo il modo di prepararsi alla morte? Con questo tardivo e ostinato attaccamento alla vita, protratto sino all’ultimo istante, quasi a sfidarla, quasi a scimmiottare la gioventù ormai trascorsa, ci si troverà poi sempre meno preparati, quando infine verrà l’ora.
L'ostinato attaccamento alla vita, protratto sino all’ultimo istante, quasi a sfidarla: è questo il modo di prepararsi alla morte?
La vera fragilità è non accettare l’idea della morte
di Francesco Lamendola
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IL VIRUS CHE INCEPPA LA MACCHINA NEOLIBERISTA - Francesco Carraro
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Il pericolo di una dittatura sanitaria
Dopo l’esperienza del virus, sappiamo che l’eventuale minaccia totalitaria che si annida nel futuro potrà essere una dittatura sanitaria. Dittatura globale e/o nazionale, giustificata da norme anticontagio. Vi invito a un viaggio letterario e forse un po’ profetico nel futuro globale, partendo dai nostri giorni.
Stiamo sperimentando sulla nostra pelle che nel nome della salute è possibile revocare la libertà, sospendere i diritti elementari e la democrazia, imporre senza se e senza ma norme restrittive, fino al coprifuoco. È possibile mettere un paese agli arresti domiciliari, isolare gli individui, impedire ogni possibile riunione di persone, decomporre la società in molecole, e tenerla insieme solo con le istruzioni a distanza del potere sanitario. Più magari un vago patriottismo ricreativo e consolatorio, da finestra o da balcone… Nessuno mette in discussione la profilassi e la prevenzione adottate, si può dissentire su singoli provvedimenti, su tempi, modi e aree di applicazione; ma nessuno vuol farsi obiettore di coscienza, renitente, se non ribelle, agli imperativi sanitari vigenti. E comunque tutti li accettiamo col sottinteso che si tratta di un periodo breve, transitorio, uno stato provvisorio d’eccezione. Ma se il rischio dovesse protrarsi, si potrebbe protrarre anche la quarantena e dunque la carcerazione preventiva di un popolo. Disperso, atomizzato, in tante cellule che devono osservare l’obbligo di restare separate (ecco come sterilizzare il populismo).
Del resto, anche un’esperienza breve ma traumatica lascia segni destinati a durare e modificare il nostro rapporto col potere, con la vita e con gli altri.
Il tema di fondo è antico quanto l’uomo e la politica. Il potere regge sulla paura, lo diceva Hobbes e in modi diversi Machiavelli. E lo dicevano gli antichi prima di loro. E la paura è sempre, alla fine, paura di morire. A volte si affronta e si addomestica quel timore attraverso due grandi rielaborazioni mitiche e sacrali: la visione eroica della vita o la visione religiosa ultraterrena. Se il modo in cui spendi la vita vale più della vita stessa, se l’aspettativa dell’Aldilà supera la difesa della pelle qui e ora, ad ogni costo, allora magari puoi scommettere fino in fondo. Se sei disposto a rischiare anche la vita hai una libertà che nessuno può toglierti. Ma se tutto è qui e non ci aspetta altro, né la gloria né l’eternità, allora la vita è l’assoluto e per lei siamo disposti a tutto, in balia di chiunque possa minacciarla o proteggerla. La libertà dalla paura ha anche una variante disperata: se vivi nella schiavitù e nella miseria più nera, se non hai nulla da perdere se non il tuo inferno quotidiano, allora forse sei disposto a mettere a repentaglio la tua incolumità e perfino la tua sopravvivenza. Ma se tutto sommato hai la tua casa e i tuoi minimi agi, la tua vita passabile, se non serena, allora no, la salvaguardia della salute è imperativo assoluto, e giustifica ogni rinuncia. E la nostra è una società salutista e in fondo benestante, che ha un solo, umanissimo e unanime imperativo, vivere più a lungo possibile e possibilmente bene. Di conseguenza davanti al terrore di contaminarsi e al rischio di morire, non c’è diritto, libertà, voto, opinione che tenga. Prima di tutto la salute. La voglia di sicurezza, fino a ieri esecrata, diventa una priorità assoluta. È la biopolitica.
Se riscrivessimo oggi 1984 o La Fattoria degli animali di George Orwell, Il mondo nuovo di Aldous Huxley o Il Padrone del Mondo di Robert Hugh Benson, se immaginassimo una distopia, cioè un’utopia negativa nel futuro, figureremmo un potere totalitario che usa la sanità, il contagio e la protezione dal contagio come la sua arma di dominazione assoluta. Magari non limitandosi a fronteggiare i casi di contagio ma procurandoli perfino, per esercitare poi il suo potere totalitario sulla società o su paesi che resistono alla sottomissione.
Stiamo parlando di letteratura e non di realtà storica, sappiamo distinguere tra i fatti e l’immaginazione, non ci lasciamo prendere da nessuna sindrome del complotto diabolico. Però la letteratura a volte enfatizza, figura, esprime alcune latenti ma reali preoccupazioni della gente e a volte – pur nella sua narrazione fantasiosa – coglie alcune inquietanti tendenze e costeggia perfino alcune profezie. Pensiamoci, pur mantenendo lo scarto tra la realtà e l’immaginazione.
Qualche giorno fa sottolineavo gli aspetti positivi della tremenda situazione che stiamo vivendo, la riscoperta di alcuni principi fino a ieri condannati: l’ordine e la disciplina, l’orgoglio nazionale e il senso della casa, solo per dirne alcuni. Ora sto sottolineando invece le controindicazioni inverse, gli effetti collaterali possibili di un terrore sanitario collettivo. Perché ogni scenario che si apre ha almeno due principali possibilità di sviluppo, oltreché di lettura, più un’infinità di varianti, gradi e sfumature.
Nel frattempo patisco come voi queste interminate giornate di prove tecniche di fine umanità, con le metropoli ridotte, come aveva scritto Eugenio Montale riferendosi a Milano, a “enorme conglomerato di eremiti”. Una sera ho passeggiato da solo a Roma tra le rovine della contemporaneità, ben più spettrali e desolanti delle rovine antiche. E mi ha fatto così male che non ci riproverei più, anche se avessi una dispensa speciale per farlo. Non puoi vivere se il mondo intorno è morto. Ma restiamo in attesa di resurrezione.
MV, La Verità 15 marzo 2020
VOX CLAMANTIS IN DESERTO
Vox clamantis in deserto
Le mie scuse prof. Bassetti, tutte le mie scuse...!
di Vittorio Sgarbi
Le mie scuse prof. Bassetti, tutte le mie scuse...! Il virologo genovese Bassetti del Partito trasversale della scienza, diffida il coraggioso critico d'arte? Ammirevole, il libero pensatore ferrarese, in questo deserto culturale e morale: si erge stoico, come un gigante tra i nani del "Pensiero Unico"!
Fonte: Vittorio Sgarbi del 16 Marzo 2020
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