ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 17 marzo 2020

L’uomo che teme solo la morte

Curare il corpo senza curare lo spirito è morire due volte


Le campane rimangono mute se non si vuole parlare con Dio. Il profumo dell’incenso non sale al Cielo se non si vuole pregare. L’uomo che teme solo la morte del corpo non ha tempo per guardare in alto: così muore due volte. In questo periodo, nel quale più che lo strepitare del mondo atterrisce il silenzio di una chiesa senza una sola parola dal sapore eterno, offriamo ai nostri lettori quattro scritti di Cristina Campo in cui il suono delle campane e il profumo dell’incenso continuano a essere di casa.

Non è molto quello che possiamo fare per chi ci segue, ma è il segno di una convinzione che ci fa piacere condividere come il pane alla tavola dei poveri. In momenti difficili come quello attuale sembra che la nostra sopravvivenza dipenda dal sapere e dal progresso tecnologico della società occidentale, e forse è in parte anche vero. Ma la nostra vita dipende dalla capacità di evitare che tale sapere e tale progresso penetrino nel nostro cuore.
Se è veramente Cristo colui che sorregge il mondo e il nostro essere, allora tutto dipende dal fatto che continuino a esistere alcuni uomini che ci credono e vivono di conseguenza. Coloro a cui è toccata tale sorte devono comprendere che la lotta per la loro personale santificazione è quanto di più difficile si possa affrontare, ma è anche ciò che gode della più attenta e premurosa cura di Dio.
Anche se i nostri occhi troppo carnali non sono in grado di vederli, dobbiamo sapere che sono tra noi. Uniamoci alla loro preghiera.
Alessandro Gnocchi
La campana
La campana – il cui nome ha origine in quello di Campania felix – nacque, si pensa, per ispirazione di san Paolino, vescovo di Nola, che per primo avrebbe pensato di convocare i fedeli ai templi cristiani con uno strumento di solido bronzo anziché con le antiche raganelle.
Voce del tempio – per il popolo voce di Dio – la campana divenne mediatrice tra il cielo e la terra: strumento di lode e sollecitazione delle forze celesti e insieme oggetto esoreistico per eccellenza, le cui onde sonore creano e dilatano uno spazio privilegiato, spezzando le energie negative e i “tempestosi spiriti” che insidiano l’area del tempio e l’animo dei fedeli. È quindi naturale che la Chiesa cattolica abbia per secoli dedicato, battezzato, consacrato la campana con cura minuziosa e solenne, come una creatura vivente.
È noto che ad ogni campana è legata una nota musicale: un gruppo di campane forma quindi un armonioso concerto, che varia di chiesa in chiesa e si presta a illimitate varietà di combinazioni. È forse meno noto che ogni campana è dedicata al Redentore, alla Vergine o a un santo, e ne assume il nome: la Redenta, la Gloriosa, la Giovanna. Su ogni campana è un’iscrizione latina in onore di colui o colei al quale è votata, insieme con una formula di intercessione. Nelle comunità monastiche la grande campana chiama alla messa, la seconda ai Vespri, le minori alle diverse ore canoniche. Per le campane nuove è usato quasi sempre anche il bronzo delle antiche, cosicché si può dire che ogni campana sopravviva nell’altra, di generazione in generazione.
Sin dalla sua nascita nella fonderia, la campana è circondata di cerimonie. La stessa arte di fonditore di campane è tramandata per secoli nelle famiglie come una vocazione religiosa. “Mentre nell’immane calore del forno di fusione il bronzo si liquefa, formando un lago d’oro, viene offerto nella fonderia il Divino Sacrificio. Poi sulla massa incandescente discende la benedizione sacerdotale e infine, dopo le invocazioni litaniche alle tre Divine Persone, nel momento in cui viene invocata la Madre di Dio – Sancta Maria – il torrente di fuoco comincia a scorrere ed a riempire la grande forma sepolta nel terreno, accompagnato dal mormorio delle preghiere, recitate da tutti i fonditori” (da un’Omelia per la consacrazione di una campana).
Formata, liberata dalla sua cappa esterna e accuratamente rifinita, la campana è trasportata alla chiesa. Avanti che sia issata sul campanile viene sospesa in chiesa o all’aperto per esservi battezzata e consacrata dal vescovo con solenni orazioni ed esorcismi, le cui formule sono raccolte nel Pontificale romano.
Si recitano cinque salmi penitenziali; il pontefice, a capo scoperto, esorcizza l’acqua e il sale, mischiandoli in modum crucis con lunga orazione: per la loro virtù purificatrice, alla voce della campana che ne sarà aspersa, “recedano le forze insidiose, l’ombra degli spettri, l’incursione dei turbini, la percossa delle folgori, la ferita del tuono, la calamità delle tempeste, l’infestazione dei rettili e ogni tempestoso spirito”; alla sua dolce voce si levino nella Chiesa dei santi “il cantico nuovo, le modulazioni del salterio, la soavità dell’organo, la giocondità dei cembali”, e ne siano invitate “moltitudini d’Angeli”. La campana viene poi interamente lavata all’interno e all’esterno: inizia la lustrazione il vescovo con l’olivo o l’issopo, la proseguono i ministri; dopo, con un lino mondo, la si asterge.
Ora, al canto di tre salmi di lode, il pontefice, mitrato, segna la campana di una croce con l’Olio degli Infermi, ricordando, con altra solenne preghiera, le argentee trombe che Mosè prescrisse nel tempo della immolazione sacerdotale; così durante il Divino Sacrificio, alla voce della campana, segnata dal vessillo della croce, pieghino il ginocchio il cielo, la terra e gli inferni. Altre sette croci vengono poi tracciate con lo stesso Olio all’esterno della campana, quattro all’interno col Sacro Crisma. È questa la vera e propria consacrazione della campana, la cui formula è la seguente:
Sia santificata e consacrata, Signore, questa campana. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. In onore di san… Pace a te”. La segue una breve preghiera nella quale si impetra che essa spezzi le frecce dei nemici e l’impeto delle pietre, che il mare possa risponderle, come il Mar Rosso nell’interrogazione profetica, volgendo indietro le sue onde e che, per il Sacro Crisma e l’Olio Santo su di essa effusi, chiunque oda il suono della campana sia liberato da ogni tentazione e resti fermo nella fede cattolica.
Nel turibolo vengono poi messi l’incenso, il rimiamo e la mirra: lo si pone sotto la campana, che ne riceva interamente il profumato vapore, e si invoca che, a somiglianza del Cristo addormentato nella barca, lo Spirito Santo, ridestato dalla melodia soave come dalla cetra di Davide, discenda sul popolo in celeste rugiada.
Ora il diacono, parato di dalmatica bianca, legge il Vangelo di Marta e Maria – il Vangelo della preghiera contemplativa – che chiude la cerimonia della consacrazione della campana.
Dell’incenso
L’incenso, gomma odorifera in cristalli proveniente dall’Arabia, spesso mischiato a mirra, limiamo, cassia od altri aromi, fu usato nelle cerimonie liturgiche cristiane sin dal secolo IV.
Tra i molteplici significati dell’offerta d’incenso il più antico è forse il simbolo scritturale della preghiera che, a somiglianza della colonna profumata dell’incenso, si leva dalla terra verso il cielo al cospetto di Dio. Questo sacrificio di adorazione è palese nella chiesa bizantina, nelle funzioni dette dei Presantificati, nelle quali, durante il canto del Salmo 140 (“Salga a te la mia preghiera come incenso / l’elevazione delle mani come sacrificio vespertino”), il turibolo fumante viene deposto e lasciato sull’altare, mentre il sacerdote leva alte le mani.
L’offerta d’incenso all’imperatore, questo atto d’idolatria che costò al cristianesimo tanti martiri, fu presto tradotto anch’esso nei termini cristiani di omaggio all’Onnipotente. Ha questa origine l’incensazione liturgica dell’altare, del libro dei Vangeli, delle Oblate all’Offertorio e, ogni qualvolta sia esposto, del Santissimo Sacramento. I bizantini incensano
persino il velo del calice prima che questo ne venga ricoperto e tutti i paramenti del vescovo, via via che egli li indossa. Il tempio bizantino viene del resto incensato completamente, icona per icona, all’inizio e nel corso di molte cerimonie. Le persone dei celebranti e degli assistenti sono anch’esse incensate in entrambe le Chiese. Ai Vespri conventuali latini si incensa l’altare della Vergine al canto del Magnificat. Nelle antiche abbazie benedettine l’incensazione si ripeteva tre volte, a ogni Notturno dell’ora canonica di Mattutino.
L’interpretazione mistica tradizionale dà all’offerta dell’incenso ulteriori significati. Esso si brucia:
1) per rendere omaggio a Dio col distruggere una creatura in suo onore;
2) per imitare in terra ciò che gli Angeli fanno in cielo, dove san Giovanni li vide offrire a Dio molti incensi bruciati in turiboli d’oro;
3) per profumare lo spazio sacro in odore di soavità e allontanare ogni ricordo del mondo profano prima che vi discenda Iddio;
4) per insegnare ai fedeli a bruciare e consumare anch’essi la loro vita per la gloria di Dio e diffondere ovunque il buon odore del Cristo.
Se la Chiesa incensa, oltre al tempio e alle cose sacre, anche i vivi ed i morti, essa fa questo:
1) per onorare quei corpi che col Battesimo divennero membra del Cristo e templi dello Spirito Santo;
2) per rivolgere ai vivi, nel modello visibile, l’invito a far ascendere la loro mente a Dio;
3) per mostrare che, come i fedeli morti hanno già fatto olocausto della loro vita al Signore, così i viventi debbono farne olocausto ogni giorno nel servizio di Dio.
È noto infine che la presenza degli spiriti del male è segnalata o simboleggiata da sgradevole odore. L’incenso, fragrante e benedetto dal celebrante col segno della Croce, si oppone a questa presenza, creando un cerchio di benedizione e operando nel regno dell’olfatto quello stesso esorcismo che la
campana opera nel regno dell’udito, l’acqua benedetta in quello del tatto. Tale potere esoreistico è dimostrato dalla triplice incensazione circolare della salma nella cerimonia dell’assoluzione e in quella della sepoltura, e dichiarato esplicitamente da papa Innocenzo III in De sacrificio missae: “Fumus incensi valere creditur ad effugando daemones”.
Monaci alle icone
Macario l’ipodiacono, trecce attorte sull’incolpevole nuca,
si rotola a piè delle icone come un cucciolo d’oro.
L’igùmeno Isacco, inflessibilmente orizzontale la barba,
depone a terra la vita dinanzi all’azzurra Madre.
Con tre piccoli, costernati segni di croce,
Ireneo bacia tremando tre luoghi della salvifica scena.
Ma il giovane Gregorio? Con mani che mai fu più pura
la vergine betulla, circonda come il volto più amato,
più inconsolabilmente amato la Divina Veronica;
e il lentissimo bacio a occhi chiusi, dopo il lunghissimo sguardo,
non è più bacio a un’icone non è più bacio a un’icone.
Missa Romana
I
Più inerme del giglio nel luminoso sudario
sale il Calvario teologale penetra nel roveto crepitante dei millenni
si occulta nell’odorosa nube della lingua.
Curvato da terribili venti bacia sacre piaghe in silenzio
eleva e mostra pure palme trapassate mendica pace
tra pollice e indice tende un filo sull’abisso del Verbo.
Dagli ossami dei martiri tritume di gaudio cresce
la radice di Jesse sboccia nel calice rovente e nella bianca luna
crociata di sangue e stendardo che sorgendo gli fiacca i ginocchi.
Sulla pietra angolare ci spezza la morte
la eleva all’orizzonte delle lacrime la posa
con materno terrore su stimmate di labbra a medicare la vita.
Intorno al pasto mortale tra i lembi del Dio sibilano serpenti
addentano il corporale ai quattro angoli del conopeo
si arrotolano i fogli dei cieli crepe saettano nei pilastri.
Ossessi alla porta nel profumo di peste mimano
e vendono con lazzi agli infermi e deformi
della probatica vasca la sua soave maschera di suppliziato.
II
Falconiere del Cielo sulla cui mano alzata
piomba l’eterno Predatore avido di prigione…
III
Dove va questo Agnello che ai vergini è dato seguire ovunque vada
dove va questo Agnello stante diritto e ucciso
sul libro dei segnati ab origine mundi?

Non si può nascere ma si può restare innocenti.
Dove va questo Agnello che a noi gli ucciditori
non è dato seguire coi segnati né fuggire
ma singhiozzando soavemente concepire
nel buio grembo della mente usque ad consummationem mundi?
Non si può nascere ma si può morire innocenti.
I testi sono tratti da Sotto falso nome e La tigre assenza, editi da Adelphi
a cura di Alessandro Gnocchi 16 Marzo, 2020

LE METAMORFOSI

                                                 
    Chi saprà interpretare l’ultima metamorfosi della nostra esausta civilizzazione globalitaria determinata dal grande (forse) contagio da virus Covid19? L’uomo occidentale è un insetto che scopre l’orrore di sé e non sa capacitarsi 
di Roberto Pecchioli  

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Gregor Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo. E’ l’incipit di uno dei romanzi capitali del Novecento, Le Metamorfosi di Franz Kafka. Chissà che cosa scriverà chi saprà interpretare l’ultima metamorfosi, fulminea, della nostra esausta civilizzazione globalitaria, determinata dal grande (forse) contagio da virus Covid 19. Ci viene un mente una lettura del liceo, imposta da un inflessibile professore di inglese. Si trattava di una pièce teatrale, Volpone, di Ben Jonson. Il protagonista, un po’ George Soros e un po’ Paperon De’ Paperoni, iniziava la giornata dando “salute al nuovo giorno, e subito dopo al mio oro! Apri il sacrario, che possa vedere il mio santo.” Il Volpone globalista, liberale, libertario e liberista, teso a distruggere muri per allargare l’impero dell’avere, vive una singolare metamorfosi al tempo del virus, delle città chiuse e della grande paura.
Scriveva Ennio Flaiano che nel medioevo l'uomo era abitante di due città: quella terrena e quella celeste. Quella terrena non era perfetta, quella celeste sì. Era inutile cercare la realizzazione di se stessi nella città terrena, poiché quella pienezza l'uomo poteva trovarla, dopo una vita proba, nella città di Dio. La Raison, la civiltà industriale che ne derivò, abolì la città celeste. All'uomo restava di realizzarsi nella città terrena, trovare in vita la felicità promessa dopo la vita. Da qui la filosofia del successo, del libero amore, del perseguimento della felicità e del benessere. L'uomo non vuole più soffrire in questa città terrena, né rinunciare a nulla. Ma la civiltà del benessere porta con sé l'infelicità, poiché propone all'uomo i simulacri da raggiungere e riduce ogni conquista in termini materiali, quindi deperibili.

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La metamorfosi prodotta dall’impatto del contagio – qualcosa che ritenevamo di avere estirpato, cancellato per sempre dall’orizzone - fa ripensare al ruolo fondamentale dell’arte, specie della narrativa, in cui uomini o donne geniali riescono a trarre da un evento, una situazione, una storia, lezioni universali. E’ il caso di Frankenstein di Mary Shelley, in cui un essere creato per errore dalla scienza incarna il male soprattutto perché ferito dalla solitudine, dalla condizione di creatura non amata, che desta paura e, in qualche modo, produce metamorfosi in chi incontra.

La paura immediata di oggi riguarda la vita, la salute, ma la seconda, quella della grande metamorfosi temuta, è figlia della riduzione di tutto a benessere, anzi ben-avere. L’orgoglioso dominatore dell’universo, convinto di controllare tutto, prevedere tutto, risolvere tutto attraverso la scienza e la tecnica, è pervaso da un orrore ben più grande di quello del progenitore medievale che vedeva nelle pestilenze e nelle carestie la mano di Dio e si preparava a rendere conto di se stesso. Quasi tutto è oggi perduto: l’uomo occidentale è un insetto che scopre l’orrore di sé e non sa capacitarsi. Persino la religione tace e ripete stanche raccomandazioni igieniche. L’uomo è solo la sua carne, estrema difesa la mascherina. Uno degli ultimi pensatori cristiani, Soren Kierkegaard, in Timore e tremore, rammentava il misterioso rapporto tra Dio e uomo, fede e ragione, trascendenza e volontà. “Se l’uomo non avesse una coscienza eterna, se al fondo d’ogni cosa ci fosse una potenza selvaggia e ribollente che produce ogni cosa, il grande e il futile, nel turbine d’oscure passioni; se il vuoto senza fondo, che nulla può colmare, si nascondesse sotto le cose, che cosa sarebbe la vita, se non disperazione?”.
Tralasciamo allora le ipotesi sulle cause del virus, sulla follia di aver sacrificato ogni cosa alla ragione economica e torniamo ai fondamentali, all’inaspettata metamorfosi che ci ha colto dopo i sogni sulla diafana, esilissima nuvoletta rosa che ci avevano convinto di abitare. Ancora Ennio Flaiano: viviamo con i piedi fortemente poggiati sulle nuvole. Che fare, dunque, oltre ad attendere sul divano l’evolversi del contagio e rimpiangere i bei tempi in cui si poteva prendere un caffè al bar? Nessuno lo sa, ma se ciò che viviamo non ci convince che siamo sulla strada sbagliata, non sappiamo davvero che cosa potrà trarci dall’abisso, politico, esistenziale, di civiltà a cui ci richiama la moderata pestilenza postmoderna chiamata corona virus.
Intanto siamo- non solo noi italiani- nelle mani peggiori per affrontare il nemico invisibile, indifferente a ponti, frontiere aperte o chiuse.  Ci chiedono comportamenti esemplari, dopo aver sparso per decenni libertà astratta, divieto dei divieti, soggettivismo assoluto. Una popolazione educata da secoli all’egoismo e all’individualismo, diventati leggi nell’ultimo devastante mezzo secolo, dovrebbe, con un’ulteriore metamorfosi, offrire un comportamento generoso, altruista, civicamente ineccepibile. Tutto sommato, la gente comune sta dando prova di maggiore serietà delle sue èlites. Certo, dà fastidio l’infantilismo da generazione fiocchi di neve delle lenzuola e dei cartelli che vediamo sulle vetrine chiuse e sui davanzali: “andràtuttobene”, preceduto dal cancelletto che è d’obbligo chiamare hashtag. No, non sta andando tutto bene e non sappiamo come finirà. Impegnarsi sempre, illudersi mai, tanto meno credere che il nostro contributo sia mettere alla finestra farseschi arcobaleni. E’ imbarazzante la guerra di simboli che osserviamo uscendo di casa con aria da cospiratori per comprare pane e disinfettanti.

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Quasi tutto è oggi perduto: l’uomo occidentale è un insetto che scopre l’orrore di sé e non sa capacitarsi. Persino la religione tace e ripete stanche raccomandazioni igieniche!

Chi brandisce l’arcobaleno e chi il tricolore contro il virus indifferente. Anche il Covid 19 ha una destra e una sinistra, identitari contro cosmopoliti, ma in fondo l’arcobaleno è per molti l’immagine naturale che è sempre stato: il simbolo fisico del ritorno del bel tempo, la quiete dopo la tempesta. Non sarà facile che vada tutto bene con gli ospedali tagliati sull’altare dell’austerità, i farmaci non specifici e una gestione politica imbarazzante. Non è tutta colpa loro: l’incompetenza dei governanti è riflesso dell’incompetenza nostra, che è riflesso dell’incompetenza dei governanti. Nessun gioco di parole: solo la causalità “circolare” di ciò che accade. La qualità dei maestri è lo specchio del sistema educativo, a sua volta espressione del livello dei maestri.
Vale altrettanto per le mode e le preferenze del pubblico. Tempo fa ascoltammo un esperto di televisione sostenere che la qualità della programmazione dipende da quella degli spettatori. Se mettete davanti allo schermo un pubblico che vuole musica classica e spazi culturali raffinati, ve la daranno in un paio di settimane. Se pretendono porno o spazzatura, anche. C’è una parte di verità, ma è il potere dello spettacolo e dell’intrattenimento a determinare le preferenze, dirigere i gusti di massa. Avanza un’incapacità “discorsiva”. Non sappiamo che cosa pensare di ciò che avviene attorno e dentro di noi. Pensiamo, ci esprimiamo con concetti inventati tanto tempo fa, inservibili, che si mantengono grazie a scivolamenti di significato che permettono la loro sopravvivenza al prezzo di gravi confusioni.
Capita con categorie essenziali come Stato, nazione, sovranità, mercato, denaro, valore economico, capitalismo, femminismo, genere, identità, rappresentanza, volontà popolare. Appaiono concetti nuovi, come democrazia illiberale, intelligenza artificiale, governance. Non ci sono più idee chiare, nette; le decisioni non possono che risultare erratiche, parziali, sbagliate. Pare evidente che il nostro concetto di libertà è inadeguato di fronte alle emergenze e non solo. La Cina, da cui tutto è partito – il come è tutto da chiarire- aspira a diventare una superpotenza non solo econonica, ma culturale. Ci dicono con i fatti di ritenere il loro concetto di potere e organizzazione sociale superiore al nostro. Credono con forza che ci siamo sbagliati a porre un’idea astratta di libertà- assenza di limiti, soggettivismo, liberazione dai vincoli- in cima alla scala dei valori. Loro, tornati confuciani dopo la tormenta maoista, affermano che l’armonia e la giustizia sono principi superiori.
L’ Occidente ha perso la potenza filosofica per obiettare e, concretamente, per reggere l’urto di un imprevisto tanto lontano dai canoni mentali correnti. E sì che abbiamo sempre conosciuto guerre, carestie, pandemie. L’obliterazione del passato ci lascia nudi anche sotto il profilo della capacità di reazione. Andrà tutto bene, ecco ciò che riusciamo a dire, un sintagma privo di significato da film americani. Almeno adesso sappiamo di essere vulnerabili: modelli matematici, algoritmi e istogrammi non risolvono né spiegano. Tornano ad essere ciò che sono: rappresentazioni, non realtà e tanto meno chiavi interpretative. Viviamo, anche nei decreti di emergenza, l’era del corto respiro, del breve termine. Del resto, ci siamo consegnati economicamante alla Cina convinti che avrebbe sbrigato il nostro lavoro sporco, faticoso: potevamo sederci sugli allori.

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L'uomo non vuole più soffrire in questa città terrena, né rinunciare a nulla. Ma la civiltà del benessere porta con sé l'infelicità, poiché propone all'uomo i simulacri da raggiungere e riduce ogni conquista in termini materiali, quindi deperibili. 

Errore fatale in economia e geopolitica; poi, a destraci dal sonno narcotico, è arrivato un virus, l’imprevisto invisibile, per il quale non c’è altro rimedio che chiudere porte e finestre, rifugiarci dietro le mura una volta di casa, disinfettarci e sperare, senza neppure il conforto della preghiera, ridicolo rimedio premoderno. Non cambieremo facilmente, se non per istinto. I popoli apprendono con lentezza, la speranza è che impongano di mettere da parte il mercato e tornare al vecchio, caro Stato. Non si risolverà nulla, passata l’onda d’urto del virus - quando passerà e con enormi costi, umani, civili ed economici- senza piani di lungo periodo, obiettivi comuni che rimettano al centro la comune appartenenza, la scommessa sul nostro futuro.
Seduti sul divano, restiamo sbigottiti da un sistema che permette di uscire con i cani, per i loro bisogni, ma non con i bambini. Le poche persone che si avventurano nel parco vicino a casa con i loro piccoli sfidano stupide multe. Quante contraddizioni nel migliore dei mondi possibili, anzi nell’unico, quello scoperto dopo millenni di oscurità. La maggiore disgrazia, tuttavia, è l’erosione dell’istituzione elementare, primaria, della vita comune: la casa, il luogo del nucleo familiare in cui, ci ingiungono e ci persuadono gli “influencer”, dobbiamo restare per tenere lontano il nemico senza volto. Ridotta a luogo di riposo, “location” del nostro letto, sito in cui custodire gli effetti personali, ha perduto il suo valore di spazio sacro di vita in comune. Non si tratta, ovvio, della famiglia antica, elemento della civiltà costituita come unità di filiazione, come mostrò, sconfiggendo il positivismo, Fustel de Coulanges nella fondamentale opera La città antica.
Non resta in piedi neppure quella scheggia che fu la famiglia “nucleare”, borghese. Già era un concetto residuale, aberrante, destinato a concludersi con l’abolizione tout court della famiglia per cui tanto hanno lottato libertari e rivoluzionari d’argilla. E’ il gioco dell’ideologia del nostro tempo, l’evidenza illusoria condivisa dalla massa, (dis)adattata a nuove modalità di vita: il liberalismo politico ed economico, corretto dal veleno del progressismo culturale il cui ultimo travestimento di scena è il neoliberismo. Il liberalismo classico vietava l’artiglio distruttivo dello Stato e del Mercato in nome della comunità. Per Ortega, il liberalismo era la dottrina che poneva limiti all’ingerenza dello Stato. Il neoliberismo è un democratismo sulfureo, abilmente mascherato, che nega ogni limite all’ingerenza del mercato divenuto potere usando ed abusando dello Stato, suo servitore, orientato alla demolizione scientifica di ogni legame antropologico e alla edificazione di una massa di individui senza natura né costituzione.
Atomi solitari e iperattivi ai quali si impone adesso di stare fermi, chiudersi in casa, nel silenzio irreale di cene “monoporzione” o nella incomunicabilità di piccoli gruppi umani che continuiamo, per abitudine, incapacità semantica o paura della verità, a chiamare famiglia. Saremo impermeabili al nuovo e con limitate capacità di immaginazione, ma siamo convinti che l’unica via d’uscita sia la marcia indietro per tornare poi a riprendere velocità. Ma non adesso: è l’ora di meditare e cambiare direzione. Radicalmente, dare le spalle all’orizzonte vuoto, al gran deserto a cui ci conduce la post modernità post liberale (tutto è post, manierismo, superfetazione, nell’Occidente contemporaneo) dell’individuo sostanziale e perfetto; ritornare, altrettanto radicalmente, alla strada dalla quale venimmo.

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L’ Occidente ha perso la potenza filosofica per obiettare e, concretamente, per reggere l’urto di un imprevisto tanto lontano dai canoni mentali correnti. E sì che abbiamo sempre conosciuto guerre, carestie, pandemie!

Il paesaggio non potrà essere lo stesso, la storia non è reversibile, non si rivolta come i cappotti di una volta. E’ tanto poco reversibile la storia che sarà necessaria una rivoluzione reattiva, antiliberale e antimoderna, una rivoluzione comunitaria, in nome della vita, del principio immutabile che la volontà di uno non sia indipendente, svincolata, indifferente alla volontà degli altri. Bisogna restaurare le condizioni di esistenza, lavoro e consumo condiviso, conviviale, vicinale: uniti perché prossimi. No alla distanza a cui ci costringe l’emergenza, ma adiacenti, circostanti. Nessun paradiso idilliaco e pieno di armonia, non “#andràtuttobene”, giacché nulla di ciò che edifica l’uomo è perfetto, ma non sarà l’inferno postindustruiale della pandemia commerciale. Le mascherine di oggi nascondono i volti uguali di uomini e donne di cera, contagiati dal ben-avere.
Il mondo deve ripensare la globalizzazione se non vuole ricadere nelle conseguenze imprevedibili di cui siamo testimoni e protagonisti atterriti. Il sociologo Ulrich Beck la chiamò società del rischio, con l’avvertimento che le tradizionali coordinate che segnavano le frontiere dell’insicurezza e delle disuguaglianze intollerabili – basate su strutture e gruppi sociali omogenei- sono state alterate profondamente dai processi di individualizzazione, di frammentazione familiare e sociale determinati dalla globalizzazione e dalla rivoluzione tecnologica. Questo scenario continuerà se non si farà nulla, se si continuerà a ragionare a breve termine, pensando alla più vicina trimestrale di cassa, a guadagnare un po’ di tempo prima della prossima emergenza.
E’ singolare che l’opera estrema di Beck, morto nel 2015, sia intitolata Le metamorfosi del mondo. Come Gregor Samsa nel romanzo di Kafka, diventato insetto non più capace di muoversi ed interagire con il mondo circostante, anche noi vaghiamo confusi senza capire. La distinzione cruciale è tra cambiamento e metamorfosi: il cambiamento riguarda un elemento, mentre il resto rimane inviariato. La metamorfosi ribalta, sradica tutte le strutture della società moderna, mette in gioco l’intero essere nel mondo; ciò che pareva inconcepibile accade all’improvviso, diventando evento globale.
La metamorfosi prodotta dall’impatto del contagio – qualcosa che ritenevamo di avere estirpato, cancellato per sempre dall’orizzone - fa ripensare al ruolo fondamentale dell’arte, specie della narrativa, in cui uomini o donne geniali riescono a trarre da un evento, una situazione, una storia, lezioni universali. E’ il caso di Frankenstein di Mary Shelley, in cui un essere creato per errore dalla scienza incarna il male soprattutto perché ferito dalla solitudine, dalla condizione di creatura non amata, che desta paura e, in qualche modo, produce metamorfosi in chi incontra. E’ ancor più il senso di un romanzo che in queste settimane conosce nuova fortuna, La peste di Albert Camus. La vicenda di una città, l’algerina Orano ancora provincia francese, chiusa al mondo perché teatro di una terribile epidemia, scuote la coscienza per la sua verosimiglianza. La prima reazione è la negazione, poi subentra una strana convinzione: non durerà. Infine la peste diventa affare di tutti, l’economia si ferma, ciascuno si rintana in un esilio domestico.

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Il mondo deve ripensare la globalizzazione se non vuole ricadere nelle conseguenze imprevedibili di cui siamo testimoni e protagonisti atterriti!

Ci stiamo arrivando e, come nel romanzo, la gente smette di fare programmi, ognuno diventa ciò che è davvero. I generosi lottano per gli altri, i pusillanimi esibiscono senza vergogna il loro egoismo, i furbastri cercano di approfittare della situazione. Camus conclude che per combattere la nuova piaga, essenziale è la “decenza”, ossia mantenere il rispetto di sé e del prossimo, riuscire, in qualche modo, a tenere le distanze, soprattutto dalla parte peggiore di noi stessi. Oggi è decenza rispettare le indicazioni delle autorità pur se non abbiamo fiducia in loro, mantenere la calma e compiere il nostro dovere, come la sentinella di Pompei che, nonostante il devastante terremoto, non abbandonò il posto. Decenza, tuttavia, è anche esigere verità, qualunque sia. La verità rende liberi, ammonisce il Vangelo di Giovanni.
Per quella decenza, per quel senso morale personale e comunitario, occorre espellere la ragione che ha accecato la modernità e tornare all’amor fati. Scrive Marcello Veneziani: “il destino è pensato come un crudele gendarme che strappa alla vita e inchioda a una sorte. In realtà il destino radica l'essere nell'avvenire, dà senso all'accadere, connette l'esistenza a un disegno e a una persistenza. Essere è avere un destino. Oggi viviamo in un deserto di senso gremito di accessori. Abbiamo tutto, meno il senso della vita. E per la prima volta avvertiamo un cortocircuito di spazio e tempo, che produce insieme sradicamento, cioè perdita irreparabile di un luogo percepito come casa e rifugio, e attimismo, cioè scomparsa del passato e del futuro nel gorgo del presente. Liberarci dal destino non ci ha restituito la libertà e il senno, ci ha lasciati in balìa del caso, un tiranno ancor più cieco e più folle. (…) Sul piano pratico è accettare la vita, i propri limiti e le proprie responsabilità, non distruggersi per essere altro e altrove, è amore metafisico per la realtà. Amor fati è la serenità degli inquieti.”
Anche in mezzo ai divieti, alle maschere, ai pericoli, alle menzogne di un potere, esso sì, davvero indecente.
LE METAMORFOSI
di Roberto Pecchioli


IL VERO VACCINO
Morire pronti, è di questo che abbiamo bisogno

Si sente dire che chi domanda che si tornino a celebrare le Messe, chi si reca in chiesa, cercando magari un sacerdote a cui chiedere confessione ed Eucarestia, è un egoista. Eppure, pensando a noi, alle persone care o più a rischio, ciò che fa più paura non è la morte ma il lasciare questo mondo terrorizzati e senza essere preparati. La morte non deve diventare un tabù per la Chiesa: di questa abbiamo bisogno di sentir parlare e della speranza nella vita eterna.

Mentre si discute se sia giusto o meno escludere il popolo dei fedeli cattolici dalla partecipazione al Sacrificio Eucaristico, mentre alcuni religiosi, sacerdoti e vescovi si apprestano a fare compagnia ai fedeli tramite i social, mentre girano video sul significato del castigo (Dio castiga o meno?) o sulla paura, con diverse riflessioni teologiche. Mentre si sostiene che la Comunione oggi la stiamo vivendo anche se in un’altra forma (e speriamo che a furia di dirlo non ci abituiamo a pensare che ricevere o meno il corpo di Cristo sia lo stesso o che la Messa in tv e quella reale siano in fondo non troppo diverse). Mentre ognuno manda il suo messaggio, mentre si invita la gente a rimanere a casa per prudenza e perché alla Chiesa interessa giustamente anche la salute del corpo, sorge spontanea una domanda: ma quello di cui si deve curare più di tutto la Chiesa non è la salute dell’anima?

La gente è chiusa in casa e il rischio è che, sempre più dipendente ed istruita come non mai ad utilizzare le nuove tecnologie sostituendole ai contatti reali (non sarà facile tornare indieto), passi la giornata fra due atteggiamenti: il terrore dovuto al bombardamento mediatico sulle morti da Covid-19 e il fuggire il pensiero della morte anche tramite video e visualizzazione di messaggi di ogni tipo (sms, Facebook, Whatsapp) che cercando di far credere che "tutto andrà bene" rischiano di farci evadere. Infatti, pensando alla realtà drammatica in cui siamo immersi nessuna di queste due posizioni è adeguata. Nessuna delle due aiuta davvero ad affrontare la crisi. La Chiesa, infatti, che non è mai stata né pessimista (o vi chiudete in casa o morirete tutti) né ottimista (se state in casa non morirete) è chiamata più che mai ad essere realista. Ossia ad aiutare tutti a guardare al fatto della morte e a prepararsi ad essa.

Il realismo, infatti, aiuta ad aiutare. Pensando, ad esempio, ai morti di questi giorni, per cui in alcuni ospedali mancano persino i sacchi in cui avvolgere i loro corpi (non è dovunque così, sia chiaro), fa più paura che non la morte il fatto che la gente perda la vita senza il conforto dei propri cari e soprattutto senza sacramenti (dicono che mancano i dispositivi di sicurezza per far entrare i sacerdoti nei reparti di terapiaintensiva…) né funerali. Viene quindi da domandarsi come la Chiesa possa affrontare la situazione proprio dal punto di vista di queste anime (che pensare alla salute pubblica è compito dello Stato). Magari aiutando medici ed infermieri a capire che tipo di supporto spirituale possono dare ai malati o ricordano a chi teme la morte quello che Gesù disse a Marta: «Chi crede in me, anche se muore, vivrà; anzi chi vive e crede in me non morirà mai». Perciò, oltre che cercare di rimandare la morte, un cristiano dovrebbe soprattutto preoccuparsi, se dovesse toccare a lui o a qualcuno dei suoi cari, di arrivare pronto a quel momento che ci spaventa ma che tocca tutti.

Si sente dire, anche fra credenti, che chi domanda che si tornino a celebrare le Messe, chi si reca in chiesa o ad adorare il Santissimo, cercando magari un sacerdote a cui chiedere la confessione e l’Eucarestia (con le dovute precauzioni come le distanze di sicurezza o le mascherine), è un egoista. Si afferma che ora la carità cristiana si esercita stando in casa per mettere in sicurezza i nostri cari (anche se le Chiese sono aperte e lo Stato ha vietato solo gli assembramenti). Eppure, pensando proprio alle persone più a rischio, per loro e per noi ciò che bisognerebbe maggiormente temere in questo momento non è la morte (che volenti o nolenti può colpirli e che prima o poi ci colpirà tutti), bensì il lasciare questo mondo terrorizzati.

E allora, se da una parte si cerca di tutelare le persone più fragili, evitando troppe visite, consigliando loro di farsi una passeggiata ma da soli (che fa bene all’umore e quindi al sistema immunitario), di recarsi in chiesa, di munirsi di mascherine, di lavarsi le mani etc., ma comunque di vivere, perché si può ridurre il rischio della morte ma non a zero (vivere è andare verso la morte), non si può non desiderare che ci sia qualcuno che li prepari. Che incontrino, magari fra gli scranni delle chiese (alcune sono completamente abbandonate), sacerdoti disposti a confessarli (ripetiamo, per non essere fraintesi, ad un metro di distanza), a mostrare loro il volto del Padre, ad invitarli a perdonare i torti subiti, a riconciliarsi con Dio e gli uomini, o a dare loro la Comunione. Anche perché le misure strettisime scelte dal governo non fanno che alimentare la paura, il sospetto e quindi le tensioni fra la gente (è emblematico che si parli di altruismo nel tutelare gli anziani, mentre c'è già chi ne ha denunciati alcuni perché si sono fermati a chiacchierare).

Abbiamo bisogno, come ha scritto Costanza Miriano, di essere richiamati più che mai ai sacramenti e ai novissimi, al senso della sofferenza. Alla misericordia di Dio, al pentimento dei peccati, a come sono morti i santi. Mai come ora la morte non deve diventare un tabù per la Chiesa. È di questa che abbiamo bisogno di sentir parlare, di questa e della speranza della vita eterna. Viene in mente a questo proposito quello che raccontò il medico della serva di Dio Chiara Corbella poco prima che morisse: «In quella Messa celebrata all’una di notte…facciamo la comunione… A questo punto la sento (Chiara, ndr) dire: “Ahhh… Mo’ posso anche vomitare!”. Io, che ero più angosciato di tutti per questo vomito, capisco. Era arrivato il vero Medico: Chiara aveva fatto la Comunione…Il Medico di Chiara era solo uno, era Nostro Signore. Lei voleva solo quello. «Ahhh… Adesso posso anche vomitare, posso anche tossire, posso anche morire. Non mi importa niente”». Chiara è morta ricordando a tutti che tutti faremo la stessa fine. E lo ha fatto perché, grazie alla compagnia costante di un frate che non le ha mai mentito sull’eventualità del decesso, voleva dirci che si può salire al cielo così, in pace nell'andare a Dio.

Non è questo che in fondo desideriamo, più che di scampare la morte? Se tutti i defunti da coronavirus fossero stati preparati a morire così, non saremmo tutti meno impauriti di fronte ai decessi di questi giorni? E forse persino disposti a rischiare un po’ di più, anziché cercare di illuderci che smettendo di vivere avremo scampato la morte? Non sarebbe questa la vera vittoria contro il virus? Non è questa l'unica partita che la Chiesa, oggi più che mai, può giocare e vincere in un'ora così grave per cui l'uomo è più disposto ad ascoltare?

Benedetta Frigerio

   

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