ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

domenica 15 marzo 2020

Dalle stelle alle stalle!?

Dall’inversione dei valori ai nuovi preti


Proporzionata o meno che sia la reazione, siamo di fronte ad una situazione di emergenza e i nostri sguardi si volgono di qua e di là alla ricerca di un punto di riferimento affidabile ed efficace. Abbiamo provato, ma non riusciamo a trovare qualcosa, o qualcuno, che ci spinga a fermarci: è tutto fluttuante; non un punto fermo, non una sensazione di stabilità; una certezza però: ubbidire a dei consigli che ci vengono imposti come ordini perentori, pena multe salate e perfino il carcere.
Se ci chiediamo: cosa sta succedendo? 

L’unica risposta che ci viene data è che c’è in giro una malattia che cerca di aggredirci, quindi avremmo il dovere di isolarci e di isolarla, allo scopo di sconfiggerla e di uscirne indetti. E tuttavia, nel giro di poche settimane siamo stati indotti quasi a cambiare la conduzione della nostra vita ordinaria; come ne usciremo, ammesso che scamperemo alla malattia? Illudersi che tutto tornerà come prima, come se niente fosse accaduto, è pura ingenuità: già “prima” si sentiva aleggiare un’aria malsana, figuriamoci dopo, con sulle spalle la paura e i controlli perfino delle persone appiedate che passano da un portone all’altro.

La prima cosa che è cambiata è il senso di sicurezza e di responsabilità: non siamo noi a decidere, ma le “autorità”. Quasi inavvertitamente ci siamo ritrovati in stato di tutela, e questo ha tutta l’aria di trasformarsi in qualcosa di stabile. L’epidemia farà il suo sfogo, finirà, ma resterà il nuovo rapporto fra pubblico e privato, col secondo sottoposto non poco al primo. Una volta si chiamava “bene comune”, da oggi in poi si chiamerà protezione forzata; una volta il bene comune era perseguito responsabilmente dai singoli sulla base di riconosciuti principi morali, da oggi verrà imposto per decreto emanato dopo aver consultato le commissioni scientifiche competenti, le quali sentenzieranno: la salute del corpo è il bene supremo.
E’ la seconda cosa che cambierà: la morale sostituita dalla scienza.
Il bello, o il brutto, è che “prima” esisteva un ente morale, seppure ultimamente indebolito al punto da poter essere soppiantato, da oggi esisterà una entità che prescinde da ogni morale, forte dell’esperimento fatto e del relativo adeguamento praticato da tutti noi.

Un’inversione dei valori? In realtà questa tendenza è in atto da tempo, ma da oggi ha assunto una veste di ufficialità. Quello che per i nostri padri era prioritario: la famiglia, la comunità, la religione, oggi appare secondario. La famiglia è quasi distrutta ed ha lasciato il posto all’individuo in preda ai propri istinti; la comunità ha perso il senso di appartenenza e dell’identità ed ha subíto una trasposizione nell’amalgama globalizzato e globalizzante; la religione è mutata in religiosità permeata da istanze naturaliste e circoscritte alla mera sopravvivenza.
Nel complesso non si vive più accompagnati da richiami interni ed esterni che trascendono il mero vivere quotidiano: quello che conta è vivere o, per meglio dire, sopravvivere. Una civiltà che si riconosceva per la sua peculiarità culturale e religiosa è scaduta in qualcosa che è sempre alla ricerca di non si sa bene che, e trova i suoi ideali in un quotidiano personalista ed egoistico.
L’esempio dell’ossequio dei preti alle ingiunzioni governative di chiudere le chiese per evitare il contagio della malattia è la riprova di tutto questo. E questo esempio basta a farci capire che si intravedere in un orizzonte non tanto lontano una nuova civiltà: una civiltà dove si farà di tutto per sostituire la vera Chiesa di Cristo con la falsa chiesa dell’Anticristo; una civiltà che dal punto di vista laico avrà i connotati del Nuovo Ordine Mondiale, i cui prodromi sono proprio le attuali ingiunzioni governative.



Per quanto sembri che l’uomo moderno abbia una qualche personale sicurezza, da un punto di vista individuale resta il fatto che ci si aspetta che nel buio brilli una luce per potersi orientare. Una volta questa luce era la chiesa del villaggio, aperta con la candela accesa sull’altare: si poteva pregare entrando o stando sulla porta e da lì si poteva anche scorgere un uomo vestito con un abito particolare: il prete; disposto a pregare lui per primo, a far pregare gli altri o ad amministrare la Confessione o la Comunione; in ogni caso si poteva stare certi che anche quel giorno il prete avrebbe celebrato la Santa Messa, cioè avrebbe richiesto a Dio di porgere l’orecchio alle preghiere degli uomini disorientati e intimoriti.

Questo ieri. E oggi? Oggi, che c’è un diffuso senso di timore e di insicurezza, è arrivata l’ingiunzione dell’autorità civile di chiudere le chiese per evitare assembramenti e possibili contagi. I preti non sono rimasti disorientati, ma si sono chiesti come fare per seguire l’ingiunzione civile; dalle diverse dichiarazioni appare chiaro che non abbiano risposto per prima all’ingiunzione di Dio di non far mancare la preghiera.
Peraltro, la preghiera che si rivolge a Dio è innanzi tutto quella che lo stesso Nostro Signore Gesù Cristo rivolge al Padre, e che solo secondariamente, per delega, viene recitata dal prete in vece Sua, per la salute terrena e celeste dei vivi e la consolazione dei morti. Questo significa che il prete non può decidere da sé di pregare o meno, ma deve farlo per suo dovere di stato e per tenere accesa la luce che brilla sulla via che in vario modo conduce a Dio; e deve farlo comunque, che ci sia o meno la presenza di fedeli, siano essi intorno all’altare o sparsi fuori dalla chiesa. E i fedeli, da parte loro, devono essere certi che il prete pregherà e celebrerà la Santa Messa tutti i giorni, per loro e per tutti, per i vivi e per i morti.
Se venisse meno tutto questo, verrebbe meno il collegamento con Dio, la “religio”, e cioè verrebbe meno la religione il cui centro è il culto: la Santa Messa, appunto.

Grazie a Dio, in forza del fatto che una sola Santa Messa raccoglie virtualmente tutti i fedeli e raccoglie tutta la Chiesa militante accomunandola alla Chiesa purgante e alla Chiesa trionfante, grazie a Dio i fedeli possono stare certi che il rapporto quotidiano con Dio non viene meno. Malattia o no, pestilenza o no, carestia o no, guerra o no, il collegamento con Dio è assicurato dal prete che rimane al suo posto, sull’altare, a compiere il suo dovere davanti a Dio e in nome di tutti gli uomini.
Ora, per fare questo è necessario che il prete abbia la piena consapevolezza della sua funzione, al di là della sua componente umana, abbia la piena consapevolezza del suo essere un sacer-dote, un portatore del sacro. Ma sembra proprio che oggi il prete moderno questa consapevolezza non ce l’abbia e si consideri piuttosto un funzionario umano che deve svolgere un compito terreno. Un dramma!
Un dramma che vede coinvolti e accomunati preti, vescovi e papi, per il semplice e devastante motivo che da cinquant’anni costoro si sono convinti che non si debba rendere primariamente culto a Dio, ma all’uomo, e ultimamente all’uomo e alla natura… dalle stelle alle stalle!

In questi ultimi cinquant’anni, grazie al lavoro svolto da tutti i vescovi nel Vaticano II, si è passati dalla religione di Dio alla religione dell’uomo; dagli occhi rivolti al cielo ai occhi rivolti alla terra; dalla mente e dal cuore rivolti alla vita del mondo che verrà, alla mente e al cuore rivolti alla vita del mondo di qua. Come se questa vita dovesse essere indefinita, incalcolabilmente continua, piuttosto che finita e palesemente breve e caduca.
In questi ultimi cinquant’anni, grazie alla predicazione dei papi che sono seguiti al Vaticano II, si è passati dal chiedersi dove andiamo all’essere certi di dove stiamo; e si è creduto che stiamo in terra per rimanerci, godendocela con un supposto crescendo della durata di vita che sembra voglia preludere ad una durata indefinita col superamento perfino della morte… basta dare tempo al tempo… e alla scienza!

E invece la realtà è che la vita è tale perché è preceduta dalla non vita e seguita dalla morte: si nasce solo per morire, e in questa vita occorre sempre pensare a prepararsi per il dopo morte, poiché a fronte della brevità della permanenza su questa terra sta la indefinita durata della più vera e reale esistenza fuori da questa terra: in un mondo di eterna luce. Guai a trascurare questa prospettiva, perché si corre il rischio di ritrovarsi dopo la morte in un culo di sacco dove l’unica luce è quella infuocata dell’uomo prigioniero di se stesso, divenuto infelice compagnia degli angeli decaduti che prima di lui hanno preferito l’abisso alla vetta, il pesante al leggero, il terreno al celeste: è il soggiorno infero, cioè sotterraneo, buio, privo di luce, di chi avendo vissuto in termini di autosufficienza, si ritrova rinchiuso nella prigione che si è preparata, convinto che fosse esaltante e che invece si ritrova a sperimentare con dolore che l’unica cosa che valeva la pena perseguire, la luce, rimarrà costantemente lontano da lui, e vicino a lui rimarrà solo l’amarezza e il rimpianto.

«Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. […] Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. […] E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna» (Mt. XXV, 34-46).

di
 Giovanni Servodio


III DOMENICA DI QUARESIMA
Come la Samaritana, assetati dell’acqua di Gesù

Nei giorni del coronavirus, sentiamo che anche la nostra fede è messa a dura prova. Perciò l’implorazione della Samaritana sgorga anche dalla nostra gola riarsa: «Signore, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete». La sensazione dell’impotenza di fronte alla minaccia del male ha due sbocchi possibili: allontanarsi dall’amore di Dio credendo di essere autosufficienti o ritornare più intensamente a Lui, meta tipica del cammino quaresimale.

“Il Signore è in mezzo a noi sì o no?” (Es 17, 7). La domanda, triste espressione della mormorazione di Israele nel deserto, insidia oggi anche i nostri cuori, le intelligenze e la compagine sociale, civile ed ecclesiale. Tormentati dall’incertezza e dallo smarrimento provocato dalla dilagante epidemia del Covid-19, sentiamo che anche la nostra fede è messa a dura prova e, ancor più, avvertiamo come insopprimibili il ricorso al Signore e la prospettiva del suo giudizio sui fatti della vita.

L’implorazione della Samaritana sgorga anche dalla nostra gola riarsa, “Signore, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua” (Gv 4, 15), ricordandoci l’antico e salutare rimprovero del Signore per bocca di Geremia: “Il mio popolo ha commesso due mali: ha abbandonato me, la sorgente d’acqua viva, e si è scavato delle cisterne, delle cisterne screpolate, che non tengono l’acqua” (Ger 2, 13).

La sensazione dell’impotenza di fronte alla minaccia del male costituisce un’autentica prova con due sbocchi possibili: rinnovare la fiducia in Dio e tornare più intensamente a Lui - meta tipica dell’itinerario quaresimale - oppure allontanarsi dal suo amore brandendo la pretesa dell’umana autosufficienza e negandone addirittura l’esistenza o perlomeno l’incidenza sulle circostanze della nostra storia.

È stata così la vicenda di Israele come anche l’avventura della donna di Samaria, che Gesù ha incontrato al pozzo di Sicar. Tanto Israele quanto la donna, come noi d’altronde, erano lacerati tra due evidenze: l’esperienza gioiosa delle meraviglie di Dio, intercettate dalla profonda nostalgia del cuore, e la drammaticità della situazione contingente.

Il Signore ci esorta alla fiducia perché “la speranza non delude” (Rm 5, 5), mentre noi siamo piuttosto portati ad innalzare barriere e muri di fronte all’accadimento della sua presenza e del suo abbraccio. La donna, schiacciata e stanca per il peso di una vita sfilacciata e per il tagliente giudizio sociale, è venuta al pozzo per attingere acqua in un’ora insolita, l’ora della fatica e della tentazione (i Padri del deserto parlano del demonio “meridiano”, che tenta il credente a disattendere le scelte buone fatte per Dio), e, al pozzo, finalmente trova il Salvatore; ma il cuore, indurito e disincantato, oppone resistenze tanto ostinate quanto banalmente pretestuose.

“So che deve venire il Messia: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa” (Gv 4, 25); mi viene spontaneo accostare l’affermazione della donna, giusta in se stessa, ma in replica alle parole di Gesù come una via di fuga, al famoso e bel racconto di Franz Kafka “Il Messaggio dell’Imperatore”, di cui offro un’ampia citazione:

«L’imperatore - così si dice - ha inviato a te, al singolo, all’umilissimo suddito, alla minuscola ombra sperduta nel più remoto cantuccio di fronte al sole imperiale, proprio a te l’imperatore ha mandato un messaggio dal suo letto di morte. Ha fatto inginocchiare il messaggero accanto al letto e gli ha bisbigliato il messaggio nell’orecchio; tanto gli stavi a cuore che s’era fatto ripetere, sempre all’orecchio, il messaggio. Con un cenno del capo ne ha confermato l’esattezza. E dinanzi a tutti coloro che erano accorsi per assistere al suo trapasso - tutte le pareti che ingombrano sono abbattute e sulle scalinate che si ergono in larghezza e in altezza stanno in cerchio i grandi dell’impero - dinanzi a tutti questi ha congedato il messaggero. Il messaggero s’è messo subito in cammino; un uomo robusto, instancabile; stendendo a volte un braccio, a volte l’altro fende la moltitudine; se incontra resistenza indica il petto dove c’è il segno del sole; egli avanza facilmente come nessun altro. Ma la moltitudine è enorme, le sue abitazioni non finiscono mai. Come volerebbe se potesse arrivare in aperta campagna e presto udresti il meraviglioso bussare dei suoi pugni al tuo uscio. Invece si affatica quasi senza scopo; si dibatte ancora lungo negli appartamenti del palazzo interno; non li supererà mai, e se anche ci riuscisse nulla sarebbe ancora raggiunto; dovrebbe lottare per scendere le scale, e se anche ci riuscisse nulla sarebbe ancora raggiunto; bisognerebbe attraversare i cortili, e dopo i cortili il secondo palazzo che racchiude il primo; altre scale, altri cortili; e un altro palazzo; e così via per millenni; e se riuscisse infine a sbucare fuori dal portone più esterno si troverebbe ancora davanti la capitale, il centro del mondo, ricoperta di tutti i suoi rifiuti. Nessuno può uscirne fuori e tanto meno col messaggio di un morto. Tu, però, stai alla tua finestra e lo sogni, quando scende la sera».

Il racconto rende efficacemente la sensazione di un travaglio affannato, riscattato, alla fine, da un’insopprimibile nostalgia. Così è l’affascinante cammino della fede: c’è la sete di Dio, che si manifesta nella concreta richiesta di Gesù alla donna “dammi da bere” (Gv 4, 7), e c’è la sete profonda del cuore umano torturato e inquieto per gli innumerevoli tentativi di tacitarlo con surrogati e false promesse.

“Va a chiamare tuo marito e ritorna qui” (Gv 4, 16); Gesù riesce ad aprire una breccia nella coscienza di quella donna, che proverà ancora maldestramente a sfuggire, non tanto con un banale espediente moralistico, quanto piuttosto con una domanda straordinariamente profonda. Quella donna rappresenta Israele, la Chiesa, l’umanità intera e ogni credente (non ha un nome perché ognuno può mettere il proprio), e a lei Gesù chiede di rendere conto di ciò che c’è di più prezioso nella vita: l’alleanza, evocata dalla simbologia nuziale.

La domanda conduce alla profondità del senso della vita: “di chi sei? a chi appartieni?”. Il quesito la inchioda e il sapere che quell’uomo tutto conosce di lei la rende immediatamente missionaria, testimone di un fatto che le esplode dentro: “Venite a vedere… che sia lui il Cristo?” (Gv 4, 29) e intanto “lascia la brocca” (cfr. Gv 4, 28)… potrebbe sembrare una dimenticanza, ma forse è qualcosa di più, come il liberarsi istintivo di una zavorra, di una schiavitù, di un mezzo che non è più risorsa od opportunità, di una sorta di catena invisibile.

La donna sente il suo cuore schiudersi alla fede di fronte ad un’evidenza che ancora resta misteriosa e indecifrabile: “(il Messia) sono io che parlo con te” (Gv 4, 26), parole che si illuminano con l’affermazione dell’apostolo Paolo: “a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5, 8).

Oggi per tutti, anche in questo tempo faticoso e oscuro, risuona il messaggio, di cui ogni cuore sente il fascino e il richiamo. Provvidenzialmente le disposizioni precauzionali a contrasto del contagio, così restrittive, estendono a molte più persone, magari anche inconsapevoli, il premuroso avvicinarsi di Dio: “Io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Os 2, 16). Per noi credenti è una Quaresima strana, penosa e carente di tutte le belle occasioni comunitarie per pregare insieme e vivere in condivisione i gesti dell’itinerario penitenziale, tuttavia è una Quaresima capace di raggiungere più persone, proprio come chiedevano i profeti: «Fu proclamato in Ninive questo decreto, per ordine del re e dei suoi grandi: “Uomini e animali, grandi e piccoli, non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua. Uomini e bestie si coprano di sacco e si invochi Dio con tutte le forze; ognuno si converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani. Chi sa che Dio non cambi, si impietosisca, deponga il suo ardente sdegno sì che noi non moriamo?”» (Gn 3, 7-9).

La solitudine, la privazione delle solite relazioni sociali, la vita più raccolta e intima nelle famiglie facciano risuonare nel silenzio, anche per chi non crede o non avrebbe fatto Quaresima, l’appello della grazia e lo Spirito del Signore conduca tutti noi a condividere lo sguardo fiducioso di Gesù: “Ecco io vi dico: alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura” (Gv 4, 35).

La nostra è sete di speranza e di fiducia, e soltanto il Signore ha l’acqua, anzi è sorgente: conceda a tutti di incontrarlo così, aprendo i nostri occhi per scorgere i teneri germogli di risurrezione, ancora intrappolati in un terreno arso dalla morte e che già si sgretola per l’irresistibile e nascosta forza della vita nuova.

Antonio Suetta*

* Vescovo di Ventimiglia-Sanremo


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