Riprendo dal blog leonardolugaresi questa interessante spiegazione della preghiera del mattino che ci hanno insegnato da bambini e di come c’entri con l’attuale crisi da coronavirus. 
mattino 
Mi è stato chiesto di spiegare brevemente perché considero così importante dire subito al mattino, come primo nostro atto da svegli, la preghiera che ci hanno insegnato da bambini. (Ora, grazie al potente richiamo della peste, anch’io lo faccio proprio subito, al primo riemergere della coscienza; prima mi succedeva spesso di ricordarmene solo dopo un po’, lavandomi i denti o prendendo il caffé …).

Credevo di averne già parlato qui, ma non sono riuscito a ritrovare il pezzo (se mai l’ho scritto), quindi lo dico (o lo ridico) ora nel modo più conciso possibile.
Ti adoro mio Dio. La prima parola non è amore, ma adorazione. Eppure Amore è la definizione stessa di Dio (1 Gv 4, 8): dunque la prima parola non dovrebbe essere quella? No, perché “Ti adoro” dice innanzitutto la verità sul rapporto tra me e Dio. Mette, per così dire, ciascuno al proprio posto. Prende atto dell’infinita distanza, che l’amore divino colma, ma non annulla. “Chi sei Tu, Signore, e chi sono io” (Francesco d’Assisi). Senza il passo previo dell’adorazione, l’amore umano è esposto ad ogni equivoco, ad ogni riduzione, ad ogni “cattiva familiarità” di cui siamo capaci. Non a caso, infatti, è la parola più abusata del vocabolario. (I membri della comitiva dantesca sono già transitati dalle parti del canto V dell’Inferno e ne sanno abbastanza). Sì, Dio si è fatto prossimo a noi, incarnandosi e morendo in croce per noi. Si è fatto letteralmente mettere le mani addosso da alcuni di noi, durante la sua passione. Ma questo non significa che noi siamo autorizzati a “mettergli le mani addosso”, cioè a trattarlo con quella sorta di “familiarità impudente” ignara di ogni reverenza, che oggi talvolta viene addirittura propagandata da una certa pastorale. “Chi sei Tu, e chi sono io”: per questo è necessario che la prima parola sia: «Ti adoro».
E ti amo con tutto il cuore. Ora può venire l’amore, senza il quale l’adorazione potrebbe trasformarsi in soggezione da schiavi. E l’amore può essere solo «con tutto il cuore». Totalità ed esclusività gli appartengono essenzialmente. Non si può dire (a nessuno, non solo a Dio): “ti amo ma solo un po’”; oppure “ti amo, ma solo fino a domani (o fino al 2050, che fa lo stesso)”; oppure “ti amo, ma come amo tanti altri”. Questa pretesa, insita nell’amore, rende però evidente che noi non siamo capaci di corrispondervi. Nonostante questo (anzi, proprio per questo) è importante affermarla, davanti a Dio. “Ti amo con tutto il cuore”, almeno per quanto riguarda me, è solo una dichiarazione d’intenti. Sicuramente la smentirò mille volte nel corso della giornata. Quindi è vitale che la ripeta ogni mattina.
Ti ringrazio di avermi creato. Perché potevo benissimo non esserci, e invece ci sono. Non sono necessario, nel senso filosofico del termine (e il più delle volte neanche in quello comune). Ci sono perché mi hai voluto Tu. Grazie. Questo rendimento di grazie è già eucarestia, «culto spirituale» celebrato da ciascuno di noi (in forza del sacerdozio universale dei battezzati) quando ancora siamo nel letto, in pigiama.
Fatto cristiano. Perché non è per niente la stessa cosa essere cristiani o non esserlo. Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini, tutti sono sue creature (ad immagine e somiglianza di Lui), e tutti Lui ama, anche quelli che hanno solo la Pachamama o neppure quella … ma diventiamo suoi figli (di adozione) solo con il battesimo, grazie al quale siamo uniti al Figlio unigenito. E, di nuovo, essere stati fatti cristiani è un puro dono che abbiamo ricevuto, dato che tutti noi – salvo rarissime eccezioni – lo siamo diventati a nostra insaputa perché altri ci hanno prima fatto battezzare e poi educati alla fede. Non è scontato: fossimo nati, che ne so, in Pakistan o in Cina, molto probabilmente non saremmo cristiani. Ora, come si fa a non ringraziare tutte le mattine per una cosa così grande? (Io, per quanto mi riguarda, aggiungerei anche un piccolo ringraziamento marginale all’imperatore Costantino, che ne avrà fatte di cotte e di crude come tutti i potenti della terra, ma indirettamente ha concorso a far sì che io fossi battezzato).
E conservato in questa notte. Questo l’ho già spiegato qualche giorno fa (qui) quindi non ci spendo molte parole. Il realismo cristiano dice: “potevo benissimo morire questa notte. Invece prendo atto che hai deciso di tenermi ancora in vita e ti ringrazio, perché alla vita ci tengo”.
Ti offro tutte le azioni della giornata: fa’ che siano secondo la tua santa volontà. Come Dante ci spiegherà benissimo, nel nostro rapporto spaventosamente asimmetrico con Dio una sola cosa noi abbiamo da offrigli, una sola cosa a cui Egli tiene perché è la sola che non può (per Sua scelta) avere se non gliela diamo noi: la nostra libertà, cioè la nostra libera corrispondenza al Suo amore per noi. La forma naturale di espressione dell’amore è l’offerta. Cosa possiamo dunque offrirgli? «Tutte le azioni della giornata». Qui vale la stessa cosa detta sopra per «tutto il mio cuore»: quasi certamente il proposito del mattino sarà dimenticato volte nel corso della giornata, ma non importa. Importa invece molto dichiarare il criterio che vogliamo adottare per l’intero nostro modo di stare al mondo. Si noti che non ci proponiamo di compiere azioni buone, efficaci, intelligenti, adeguate alle circostanze e ai bisogni eccetera eccetera, ma solo azioni «che siano secondo la tua volontà». Questo è il giudizio cristiano. Qui è il fondamento del lavoro culturale, senza il quale il cristianesimo non ha dignità e non ha rilevanza nel mondo.
E per la maggiore tua gloriaOra diventa esplicito che tale cultura è “altra” rispetto a quella del mondo. Qui si palesa la “differenza cristiana”, e anche il carattere essenzialmente “anti-moderno” della fede cristiana (che non vuol dire che essa non sia attuale, anzi!). Perché noi abbiamo una cosa da dire, che oggi nessuno vuol sentire (e che anche la chiesa, purtroppo, dice poco, a bassa voce e quasi vergognandosene), perché non suona affatto bene alle orecchie nostre e dei nostri contemporanei,  tutti infatuati del culto dell’uomo: noi non siamo al mondo per noi stessi, ma per la gloria di Dio. A.M.D.G (Ad maiorem Dei gloriam) era il motto con cui i gesuiti entrarono nella modernità a combattere la loro battaglia … e se si guarda come sono finiti molti di loro c’è da immaliconirsi, ma questo in definitiva non conta: quel motto resta valido. Il catechismo di san Pio X (che è quello che abbiamo imparato noi da bambini) alla domanda: “perché Dio ci ha creato?” rispondeva in questo modo, che oggi molti troverebbero raggelante: «Dio ci ha creati per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita, e per goderlo poi nell’altra, in paradiso». Si dirà che noi dopo un secolo e più di progresso teologico  siamo in grado di spiegare la cosa molto meglio … però il concetto è giusto. E il “caso serio”, come direbbe Balthasar, rimane quello.
Preservami dal peccato e da ogni male. Si osservi l’ordine, che è gerarchico. La prima cosa da cui chiediamo di essere preservati è il peccato (non il coronavirus). La seconda è ogni male (compreso, e ora in primis, il coronavirus). Di nuovo è all’opera il giudizio cristiano, di nuovo pregando si fa cultura.
La tua grazia sia sempre con me e con tutti i miei cari. Qui la nostra preghierina del mattino sembra invece farsi minimalista, rispetto agli orizzonti globali a cui ci hanno assuefatto i media e anche tante cattedre, laiche o religiose. E i migranti? E le vittime delle guerre che anche adesso infuriano in varie e remote parti del mondo? E quelli che sono colpiti dalla carestia in terre lontante? Come sembra angusta la dimensione di questa richiesta finale! D’accordo, forse è figlia di un mondo in cui non c’era quasi niente di “tele-”, e ciò che era reale per la gente era anche vicino. È giusto prendere atto che per noi non è più così. Tuttavia c’è in essa anche una dimensione di sano realismo che possiede una sua perenne validità. La totalità, come anche sopra si accennava, a noi uomini è preclusa: possiamo attingervi solo vivendo con piena adesione il nostro particolare. C’è dunque un ordine, una proporzione, nei rapporti e nelle cose, di cui non dobbiamo vergognarci o colpevolizzarci. Anche questo ci rammenta, con durezza, l’attuale pestilenza: ognuno di noi è preoccupato, innanzitutto, della propria salute, poi subito dopo di quella dei suoi cari, poi di quelli che conosce personalmente, poi di quelli che abitano nella sua città, poi dei suoi connazionali, poi degli altri … Aver messo in discussione, anche teoricamente, questa logica di prossimità e averla a volte demonizzata come se fosse frutto dell’egoismo è una delle responsabilità gravi di una deriva ideologica oggi corrente anche tra di noi,  che ha meno a che fare con l’amore cristiano e più con una filantropia “stoicheggiante”.
Nella nostra preghierina del mattino non ci facciamo carico di imprese eroiche, su scala planetaria: chiediamo semplicemente la grazia per noi e per i nostri cari. Ciascuno faccia altrettanto per sé e per i suoi: di grazia ce n’è per tutti.
Di Sabino Paciolla|
https://www.sabinopaciolla.com/cosa-centra-il-coronavirus-con-la-preghiera-del-mattino-che-ci-hanno-insegnato-da-bambini/
La spada del dolore
nelle mani di San Giuseppe


Fuga in Egitto

Pubblicata dalla FSSPX il 14 marzo 2020


«Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo» (Mt. II, 13). Questo messaggio dell’Angelo, nel mezzo della notte, diversi mesi dopo la nascita del Bambino Gesù, fu un gran tormento per San Giuseppe.Questa novità mise fine alle gioie del Natale e divenne l’inizio del compimento della profezia di Simeone: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione, perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l’anima» (Lc. II, 34-35).

Maria, vittima tutta pura, non più che Cristo stesso, non poteva non sacrificarsi, immolarsi tutta sola. E serviva un sacrificatore, una persona che, per così dire, li portasse alla morte. Il Padre che invia il Suo Figlio Unico per essere sacrificato, invia San Giuseppe per trapassare il Cuore di Maria con questa dura novità. E’ così che ha inizio una lunga serie di sofferenze. San Giuseppe sapeva ciò che faceva, risvegliando Maria e il suo Bambino. Egli poteva già immaginare il dolore lancinante della spada che avrebbe dovuto conficcare nel suo Cuore Immacolato. San Giuseppe non poteva fare altrimenti, perché Dio gli aveva ordinato così con la voce dell’Angelo. Egli aveva il tempo contato perché gli uomini di Erode si sarebbero mossi all’alba.

Le pene e le sofferenze di un lungo viaggio aprivano la via alle innumerevoli difficoltà della vita e del lavoro in un paese straniero. La spada che Giuseppe aveva conficcato nel Cuore di Maria ritornava sempre a lui per mezzo di tutte queste innumerevoli contrarietà. La difficoltà di provvedere ai bisogni della sua sposa e del Bambino era per lui una pena quotidiana.
Le sofferenze che sopportavano nel trovarsi fuori dalla terra di Israele, pesavano quindi sulle loro anime così pure e sensibili. Per San Giuseppe si trattava di una ulteriore sofferenza. In verità, egli soffriva in compagnia di Gesù e di Maria e sopportava con loro i loro dolori. Sapeva chi serviva, e questo servizio, sebbene pieno di grandi sofferenze, era anche fonte di gioia e di pace.

Così deve essere per noi. Compagni di Gesù e Maria, anche noi conficchiamo questa spada di dolore nei loro cuori, non per il compimento di una profezia, ma per i nostri peccati e le nostre negligenze. Invece di lamentarci delle nostre contrarietà dovremmo reputarci felici e condividere con Gesù e Maria le sofferenze di questa terra, il rifiuto di cui sono stati oggetto, i peccati e le indifferenze che hanno incontrato.

Per imitare San Giuseppe, condividiamo volontariamente queste sofferenze, che sono di tre tipi:

1) Numerose sono le sofferenze che ci vengono da persone a noi vicine. Non lamentiamoci e portiamo questo fardello volontariamente.

2) Le sofferenze ci vengono anche dai nostri peccati e dalle nostre cadute. Non siamone sorpresi, ma portiamoli sapendo che è con la pazienza che salveremo le nostre anime.

3) Gli interessi e i desiderii di Dio devono essere i nostri, e Dio vuole la salvezza e la santificazione di tutti. Per questo, prendiamo atto dei peccati del mondo e portiamoli in una preghiera feconda e riparatrice per la salvezza delle anime.

San Giuseppe, testimone silenzioso delle sofferenze di Gesù e Maria, prega per noi. E noi, poveri peccatori, non cessiamo di gridare: Ave Maria.

http://www.unavox.it/Rubrica_spirituale_FSSPX/37_La_spada_del_dolore.html