Il cardinale Gerhard Müller, già prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha scritto una piccola riflessione spirituale sulla situazione mondiale dallo scoppio della crisi del coronavirus. Essa è stata tradotta in inglese da Maike Hickson e pubblicata su Lifesitenews.
Eccola nella mia traduzione in italiano.
Credi in Dio nei tempi di crisi
Il pericoloso coronavirus si è diffuso e ha preso il sopravvento in quasi tutto il mondo. Non esiste ancora un vaccino che possa prevenire la diffusione della malattia contagiosa e curare le persone colpite.
I leader politici stanno prendendo tutte le misure a loro disposizione per proteggere la popolazione. Limitano la vita pubblica e invitano le persone ad evitare, ove possibile, il contatto sociale. Gli scienziati dei laboratori stanno lavorando intensamente per trovare un antidoto a questa malattia insidiosa, che ha già causato migliaia di vittime.
Anche se la situazione non è certamente paragonabile ai pericoli e ai disordini della guerra, l’esperienza dell’impotenza è simile. Nessuno sa se e quando lo colpirà o se le persone a lui vicine saranno in pericolo. Come in tempi di peste e colera, di raccolti falliti e carestie, sentiamo di nuovo i limiti di ciò che è possibile. Tutti lo sanno: le possibilità di proteggersi dall’infezione sono limitate. Non c’è garanzia che non mi riguardi, tra tutte le persone. Ci sediamo a casa e passiamo il tempo. Molti di noi si annoiano e non hanno la possibilità di fare attività sul lavoro e nel tempo libero.
Ma quando siamo rigettati su noi stessi in questo modo, c’è anche la possibilità di riflettere su ciò che è importante senza che la nostra attenzione sia distratta dalle molte distrazioni della vita moderna.
Il credente sa che la nostra vita è nelle mani di Dio. Non abbiamo una casa permanente sulla terra. Dopo la nostra morte, dobbiamo rispondere davanti al Seggio del Giudizio di Dio per le nostre azioni e per tutto il corso della vita. Ma possiamo contare sulla misericordia di Dio nella vita e nella morte, solo se ci raccomandiamo ad essa.
Anche se facciamo tutto ciò che è umanamente possibile in medicina e usiamo la ragione che Dio ci ha dato per ottimizzare le condizioni di vita umane, raggiungiamo comunque i limiti delle nostre possibilità. Non sappiamo quando, ma sappiamo che l’ora dell’addio da questo mondo verrà.
L’apostolo Paolo ha davanti ai suoi occhi tutta la miseria dell’umanità quando scrive alla giovane comunità cristiana di Roma: “Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi. La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.”. (Romani 8,18-21).
Poniamo ora, durante la Quaresima prima della Pasqua, tutta la nostra speranza in Dio. Suo Figlio è il Servo di Dio, come profetizzato nell’Antico Testamento, che “portava le nostre malattie e sopportava i nostri dolori”. E così confessiamo di Gesù: “Per le sue ferite siamo guariti” (Isaia 53,4seq).
Usiamo il tempo a casa per riflettere: Chi sono io? Come posso servire la comunità con i miei talenti nella vita? Amo Dio con tutto il mio cuore e con tutta la mia anima e amo il mio prossimo come me stesso? Ripongo la mia speranza solo in Gesù Cristo, nella vita e nella morte?
Prima della Sua sofferenza e della Sua morte sulla croce, Nostro Signore confortò i Suoi discepoli nella paura e nella confusione con le parole: “Nel mondo avrete tribolazione; ma fatevi coraggio, io ho vinto il mondo” (Giovanni 16,33).
di Card. Gerhard L. Müller
Di Sabino Paciolla
di Brunella Rosano
Diario di una giornata al tempo del “coronavirus”.
Non c’è tanta differenza tra i giorni che scorrono ormai dal 9 marzo, giorno in cui sono scattate le ormai famose, se non famigerate, “restrizioni”. La quotidianità fatta di gesti ed abitudini semplici, ma che scandivano i giorni della settimana è andata a farsi benedire. La mattina, augurando la buona giornata ai figli tramite WhatsApp, ho preso l’abitudine di augurare non il generico “buona giornata”, ma il “buon lunedì….martedì….” il giorno che iniziamo a vivere. Ringraziando il Signore per questo nuovo giorno, che forse A.C., ante coronavirus, (l’acronimo non cambia!), davamo un po’ per scontato.
Adesso i giorni scorrono pressoché tutti uguali. Le uscite sono limitate alle cose urgenti, quindi, da bravi sabaudi obbedienti, usciamo per le spese alimentari e per andare in chiesa, debitamente attrezzati con mascherina “artigianale” e, qualche volta, anche i guanti.
Sveglia al mattino, caffè e collegamento con la pagina Facebook delle Monache dell’Adorazione Eucaristica per le lodi e la messa, grazie agli strumenti tecnologici di cui disponiamo che ci permettono di sentirci vicini nell’assistere al Sacrificio Eucaristico almeno virtualmente, dato che sono state soppresse tutte le “cerimonie liturgiche”, messe comprese.
Finita la messa andiamo (mio marito ed io) in Parrocchia.
I sacerdoti della nostra “unità pastorale” (ora si chiama così l’unificazione di più parrocchie) hanno deciso l’esposizione del Santissimo dalle 7 di mattina alle 18. Dopo di che la chiesa chiude ed i nostri sacerdoti celebrano la messa che, da alcuni giorni, viene trasmessa tramite Facebook. Gesù in chiesa c’è sempre: è casa sua, ma l’Esposizione ce lo rende più vicino, più percepibile ed “adorabile”. Sono lì, davanti all’Ostia illuminata che calamita il mio sguardo. Non posso fare a meno di guardarla. E’ più facile chiedere la Sua pietà per tutti i peccati personali e “sociali” che abbiamo combinato in questi ultimi anni (divorzio, aborto, ideologia gender…..Teniamo presente che hanno sospeso tutti gli interventi, ad eccezione di quelli salvavita, e solo chi è in attesa di un intervento sa cosa vuol dire veder sfumare la possibilità di recuperare la salute ed una condizione di vita più “normale”, però, gli interventi per interrompere le gravidanze, cioè gli aborti, a quanto riportano i giornali, vengono effettuati!!!), Secondo me tutti i terremoti, le inondazione, … vengono a ricordarci che “tutto ci è dato”, anche se noi ce ne siamo dimenticati e crediamo di averne diritto! Il guaio è che non impariamo! Viviamo come se “Dio non ci fosse”! Anche in questi giorni in cui più facilmente sperimentiamo la fragilità della nostra esistenza, un virus, che manco si vede ad occhio nudo, ci sta mettendo letteralmente in ginocchio!
Per chiedere al buon Dio di fermare questa pestilenza, mi rivolgo agli intermediari: prima di tutto chiamo in causa la Madonna, la nostra Mamma Celeste. Cristo, il Signore, l’ha sempre ascoltata: a Cana, anche se “non era ancora giunto il suo tempo”, ha cambiato l’acqua in vino; quando era sulla croce e stava morendo ce l’ha lasciata come mamma. Poi passo ai grandi santi, San Giuseppe in primis, e poi i santi specializzati nel fermare le epidemie: san Rocco, san Sebastiano, san Carlo, san Giuda Taddeo, specializzato nei casi disperati, e ormai in certe zone, credo che siamo arrivati alla disperazione!!!
All’inizio di marzo avevo iniziato la devozione al Sacro Manto di san Giuseppe. L’invocazione originaria era per la salute fisica e spirituale dei nostri figli, dei loro sposi (due generi ed una nuora) e dei quattro nipoti. Ma a mano a mano che passavano i giorni sotto il manto ho infilato i parenti, gli amici vicini e lontani (soprattutto coloro che abitano nelle zone più a rischio o che svolgono lavori a contatto con i malati), i medici, gli infermieri, gli addetti al trasporto dei malati, i sacerdoti,…….insomma credo che il “manto” di San Giuseppe si sia ormai trasformato in un tendone da circo!!!!
Il primo giorno della esposizione del Santissimo parecchi fedeli sono venuti a pregare, tanto che nel messaggio serale via whatsapp il nostro parroco si è detto “orgoglioso” di essere il nostro parroco! Ma dopo alcuni giorni il torrente di fedeli oranti si era già trasformato in un rigagnolo!!!! Pazienza! Al Signore piace vincere con un piccolo esercito! E noi siamo piccoli in tutti i sensi!
Dopo la parrocchia, breve tappa alla “Rossa”, la chiesa dedicata alla Santissima Trinità. Si chiama la Rossa in contrapposizione all’altra chiesa del paese, la “Bianca”, dedicata alla Santissima Concezione. Alla Bianca c’è la Confraternita della Bianca e alla Rossa la Confraternita della Rossa. Nella chiesa della Rossa nella prima cappella a sinistra c’è il Santuario dove è conservata l’icona taumaturgica della Madonnina, la patrona del paese, che fermò la peste bovina nel 1745. Chi meglio di Lei può intervenire ora?
Dopo questa seconda visita facciamo velocemente le spese (abitiamo in paese e quindi troviamo tutto il necessario nei negozi “tradizionali” nel raggio di 200 metri più o meno), e poi a casa fino alle 17, quando ritorniamo in chiesa per la recita del rosario.
Giorno dopo giorno. E ringrazio il buon Dio che sia così: ora come ora ogni fatto insolito non sarebbe buono!
Ma la mancanza della quotidianità si fa sentire: con tutto il tempo a disposizione non riesco ad avere fermezza in un’attività, cioè cominciare e finire un lavoro. Le uniche cose che sono riuscita a portare a termine sono le mascherine, lavoro in cui mi sto sbizzarrendo: semplici con tessuto oscurante che, se non fa passare la luce, dovrebbe fermare anche i virus, oppure col tessuto doppio e la carta da forno tra i due strati,…..
E’ sicuramente un periodo particolare che nessuno di noi, scommetto, avrebbe mai pensato di vivere: come in una “bolla”, continuamente collegati ai “social” per avere notizie, per condividere ansie e preoccupazioni, e anche per farsi due risate, grazie a qualche battuta, un video spiritoso, una vignetta che riesce ad esorcizzare la paura, quel sottile filo di ansia che si insinua.
Non sappiamo se “Tutto andrà bene”. Di sicuro sappiamo che andrà come Dio vorrà. Lui ci ha già salvati. Questa è la nostra certezza!
«Solo un Dio ci potrà salvare»
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Dal contesto si capisce di quale DIO sto parlando
«Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie» (Ungaretti, Soldati)
Si parla di una guerra, la Prima guerra Mondiale, e della fragilità della vita. Quando, al liceo, abbiamo studiato questa poesia, forse non abbiamo mai pensato che poteva essere la lirica dei nostri terribili giorni, nell’incubo del Covid-19. Non passa giorno, per qualcuno non passa ora, che non si abbia notizia di un amico colpito dalla malattia in modo grave e di altri che già sono morti. Ieri notte, un amico medico che ha scelto di lavorare all’ospedale dove si cura il Covid-19, mi raccontava la situazione terribile e inimmaginabile di quello che sta vivendo, e il senso di impotenza di fronte alla scelta, che a volte è necessaria, di decidere chi curare e chi lasciare morire. Perché i posti sono limitati e non si possono curare tutti. Non vorrei essere al suo posto, e capisco che se non troviamo un sostegno in Chi può salvarci, alla fine sarà una sconfitta dolorosa per tutti.
In questo cammino, che pone domande serie a tutti noi, ogni tanto per grazia ci raggiungono testimonianze che sostengono, rendendo meno soli di fronte a quanto accade. Oggi ho letto la lettera di un medico della prima divisione di Malattie infettive dell’Ospedale Luigi Sacco di Milano, Amedeo Capetti, che così scrive al Direttore de «Il Foglio»:
d’autunno
sugli alberi
le foglie» (Ungaretti, Soldati)
Si parla di una guerra, la Prima guerra Mondiale, e della fragilità della vita. Quando, al liceo, abbiamo studiato questa poesia, forse non abbiamo mai pensato che poteva essere la lirica dei nostri terribili giorni, nell’incubo del Covid-19. Non passa giorno, per qualcuno non passa ora, che non si abbia notizia di un amico colpito dalla malattia in modo grave e di altri che già sono morti. Ieri notte, un amico medico che ha scelto di lavorare all’ospedale dove si cura il Covid-19, mi raccontava la situazione terribile e inimmaginabile di quello che sta vivendo, e il senso di impotenza di fronte alla scelta, che a volte è necessaria, di decidere chi curare e chi lasciare morire. Perché i posti sono limitati e non si possono curare tutti. Non vorrei essere al suo posto, e capisco che se non troviamo un sostegno in Chi può salvarci, alla fine sarà una sconfitta dolorosa per tutti.
In questo cammino, che pone domande serie a tutti noi, ogni tanto per grazia ci raggiungono testimonianze che sostengono, rendendo meno soli di fronte a quanto accade. Oggi ho letto la lettera di un medico della prima divisione di Malattie infettive dell’Ospedale Luigi Sacco di Milano, Amedeo Capetti, che così scrive al Direttore de «Il Foglio»:
«Noto, e trovo che sia un sintomo molto importante, la scomparsa quasi totale del lamento. I miei pazienti, invece di lamentarsi, mi mandano ogni giorno messaggi per chiedermi come sto e anche per partecipare dell’esperienza incredibile ed eccezionale che sto vivendo. E questa è la vera ragione per cui ho deciso di scriverle.
In effetti quello che io sto vivendo, ma credo sia esperienza anche di molti altri, è l’avverarsi di un fenomeno che non di rado noi medici vediamo in chi è scampato a un pericolo potenzialmente mortale: l’esperienza di aprire gli occhi e accorgersi che nulla è più scontato. Ossia che tutto è dono, dal risveglio del mattino, dal saluto ai propri cari a ogni piccola piega di un quotidiano che per alcuni è tutto da riempire, per altri come me è diventato, se mai era pensabile, più vorticoso di prima.
La grazia di questa nuova coscienza di sé trasforma radicalmente ciò che facciamo, genera stupore, amicizia, ci si guarda e ci si dice: oggi non ci possiamo abbracciare ma un sorriso ci dice ancora di più di quanto potrebbe dire un abbraccio. Questa consapevolezza ci fa diventare partecipi del dramma dei nostri pazienti e non è assolutamente un caso che i miei colleghi mi chiedano di pregare non solo per i loro cari ma anche per i loro pazienti, come non era mai successo prima. E anche questo è contagioso. Ieri mi ha chiamato una signora di Crema per sentire notizie della nonna, ricoverata al Sacco, che è molto grave. Mi ha riferito dell’altra nonna, morta di Covid, e della mamma, in rianimazione a Crema, poi mi ha detto: “Vede dottore, all’inizio io pregavo, ora non prego nemmeno più”. Io le ho risposto: “La capisco, signora, non si preoccupi, pregherò io per lei”. Al sentirlo ha avuto un sobbalzo e ha risposto: “No, dottore, se lo fa lei lo faccio anch’io. E anche per la mia mamma, preghiamo insieme”».
Improvvisamente, leggendo queste righe e tutto l’articolo, mi sono ricordato delle parole di Emmanuel Mounier, nelle lettere che scrive alla moglie per vivere insieme la malattia gravissima della figlia Françoise:
«Le spiegazioni non diminuiscono il grande scandalo della sofferenza. La sua grandezza sta nell’accettazione. Non dobbiamo cercare di sminuirla con le nostre parole (...) si tratta di un segreto inquietante della Provvidenza. (...) Questo segreto si ripercuoterà, provocando stupore, nell’eternità. Ci sono quelli che Dio conduce sulle vie della ricchezza, altri (...) sulle vie del perenne insuccesso. Non ci resta altro che amare, amare Dio per quello che fa, e amare intensamente quelli che Egli spezza per amore. Io mi sento piccolo di fronte a loro. (…)
L’angoscia, talvolta, si serve di noi (...) Ci sono dei momenti in cui anche i santi, improvvisamente dubitano di tutto: del loro amore e di Dio. Nessuna luce ci può essere data senza questa notte (...) Non si è veramente grandi... fino a quando la vita non ci mette alla prova rifiutandoci nettamente, senza appello, qualcosa cui si aspira con tutto il proprio essere. (…)
Bisogna trasformare in gioia tutto quello che la felicità ci rifiuta (...) Insieme dovremo rendere belle le ore che ci saranno date. Comminando per strada, poco fa, ho cercato di far gioire il mio cuore. Non è stato difficile. Mi è bastato pensare... che ogni sofferenza assunta in Cristo perde la sua disperazione, la sua stessa negatività! (…)
Che senso avrebbe tutto questo se la nostra bambina fosse soltanto una carne malata, un po’ di vita dolorante, e non invece una bianca piccola ostia che ci supera tutti, un’immensità di mistero e di amore che ci abbaglierebbe se lo vedessimo faccia a faccia; se ogni colpo più duro non fosse una nuova elevazione che ogni volta, allorché il nostro cuore comincia ad abituarsi al colpo prevedente, si rivela come una nuova richiesta d’amore» (E. Mounier, Lettere sul dolore).
S. Giovanni Paolo II disse che la sofferenza è una domanda che è rivolta a noi stessi, agli altri e a Dio. Chiediamo umilmente di essere aiutati a rispondere.
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