ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 11 aprile 2020

La notte e il giorno

La notte si illuminerà come il giorno


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DISCESE AGLI INFERI: l’unicità della redenzione di Cristo e…l’incontro con San Giuseppe


Gesù scende agli inferi
1.
La tradizione orientale riporta la meditazione che Cristo quando si incarnò, non trovando Adamo sulla terra, lo cercò persino “agli inferi”.
Come Adamo infatti stese le braccia per aderire al peccato, così Cristo stese le braccia per aderire alla volontà del Padre e compiere l’opera di redenzione e riscatto. Proprio per la colpa di Adamo, nel quale tutti noi abbiamo peccato. Senza il peccato di Adamo e se il peccato non fosse ereditato da tutti gli uomini verrebbe meno anche la Croce. Non avrebbe senso il Sacrificio di espiazione. Dio facendosi uomo e morendo paga, invece, col sangue il debito inestinguibile per l’umanità.
Se fosse sceso dalla Croce manifestando in quel modo la Sua divinità, la colpa antica non sarebbe stata redenta e tutti noi avremmo ottenuto la condanna.


2.
Ora, il valore di questo riscatto comprende anche “i giusti dell’Antico Testamento”, i quali, morendo prima della venuta di Cristo, non potevano accedere al Paradiso. Perché l’unico modo per andare al Padre è esclusivamente Cristo e i meriti contratti sull’altare della Croce.
A me piace pensare specialmente a San Giuseppe. Fra tutti i giusti che liberò, sono convinto che lo sguardo che si posò su colui che lo aveva custodito da bambino fu di commozione infinita.
La santità e la giustizia di San Giuseppe sono ineguagliabili. San Giuseppe costituisce la porta di accesso a Maria – che amò, custodì e protesse con perfetta virtù – e Maria è la porta di accesso per il Figlio, perché difficilmente si conoscerà il Figlio e difficilmente si otterranno Grazie, se non per mezzo della mediazione corredentrice della Madre di Dio.
Lo sguardo di Cristo si posa nel Vangelo su molti uomini e donne. E non di rado il Signore è tanto infastidito e sofferente per la durezza del cuore o la meschinità di molti, quanto commosso per la fede o l’amore che peccatori gli riservano, implorandoLo di guarire le loro infermità.
Infinite volte quello sguardo si posò sulla Madre – l’unica senza peccato, che poteva “resistere” maternamente e umanamente allo sguardo di Dio, che aveva portato nel Suo stesso grembo -, fino ad affidarla a tutti noi come Madre, nell’ultimo sguardo prima di morire.
Così su Giuseppe che senza capire tutto, aveva accettato le indicazioni dell’angelo e aveva custodito anche lui molte cose nel cuore.
Ancor di più lo sguardo di Gesù si posò su di lui, quel giorno incredibile tra il venerdì e la domenica. Si posò su Adamo, su Abramo, su Mosè, su Davide e sui profeti che avevano parlato proprio di Lui e sperato di vedere il tempo riservato, invece, ai discepoli. Accolse Eva che per prima cedette alla menzogna di farsi come Dio.

3.
Cosa fu, dunque, la discesa agli inferi?
Una apocatastasi? Un topos letterario?
Spesso si leggono strani confronti di analogie superficiali o interpretazioni assurde. Certamente sono da evitare due errori molto diffusi:

A) le analogie con la tradizione greca e latina: Ulisse o Enea o Orfeo che scendono nell’Ade e incontrano i morti.
Ulisse, nell’Odissea, dopo la permanenza presso la maga Circe e prima di ripartire per il ritorno a Itaca, compie il viaggio nell’oltretomba, incontra l’amico Elpenore, che lo prega di dargli sepoltura degna, conosce dettagli del suo futuro per bocca di Tiresia, incontra la madre che non può abbracciare. Similmente Enea, secondo l’opera di Virgilio, ha la possibilità di vedere luoghi e personaggi infernali (riscontrabili anche nella Divina Commedia) o i Campi Elisi (dove incontra il padre).
Più drammatico è il fallimento di Orfeo per non riuscire a salvare l’amata Euridice per l’intemperanza di voltarsi a guardarla prima di trarla definitivamente fuori. Più eroica è l’impresa di Ercole di catturare Cerbero.
In tutti questi casi si riscontra la permanenza nell’Ade – per definizione il luogo del buio in cui è impossibile vedere – come una permanenza senza speranza né attesa alcuna. Tra i vivi e i morti c’è un abisso definitivo e incolmabile. Unica eccezione è l’idea della reincarnazione di alcune anime in Virgilio, destino però riservato ad alcuni e comunque per morire. L’Ade è semplicemente il regno dei morti. Ade come divinità (Plutone) è il fratello di Zeus e sovrano dell’oltretomba.
In secondo luogo, si tratta di racconti mitici e iniziatici. Inoltre colui che entra nel regno dei morti non redime nessuno e a sua volta comunque morirà (come avviene anche per i racconti relativi al “tornare in vita” che non ha nulla a che vedere con la Resurrezione).

B) l’idea di una sorta di apocatastasi, come se Cristo avesse liberato i dannati. L’apocatastasi era la teoria cosmica dello stoicismo, secondo cui l’universo – il cui principio attivo è dio stesso in senso panteista – rigenera ciclicamente se stesso. Questa idea di rigenerazione penetrò teologicamente anche nel Cristianesimo e fu adottata da alcuni in senso escatologico e profondamente eretico e illogico. L’idea di una “conversione” o “salvezza” dei dannati (uomini o angeli) contraddice sia il senso di Giustizia di Dio, sia il fatto che l’anima viene giudicata – nel momento della morte in cui abbandona il corpo e quindi la dimensione temporale – in modo irreversibile (come è avvenuto per ogni angelo ab aeterno). Gli angeli ribelli da sempre e per sempre infatti recitano il loro “non serviam” subendo la pena eterna dell’inferno.

4.
Cristo discende agli inferi perché vuole liberare coloro che – in quanto giusti – non subivano la pena infernale, pur non potendo accedere al Paradiso e che ora partecipavano dei meriti della Croce, in virtù dei quali è dato loro non solo superare le barriere del paradiso terrestre – da cui Adamo era stato cacciato – ma quelle definitive del Cielo.

In questo senso è – come sempre – preziosa la precisazione di San Tommaso:
“Uno può trovarsi in un luogo in due modi. Primo, mediante i suoi effetti.
E in questo modo si può dire che Cristo discese in ogni parte dell’inferno: però con effetti diversi.
Infatti nell’inferno dei dannati egli produsse l’effetto di confondere la loro incredulità e la loro malizia.
A coloro invece che si trovavano in purgatorio diede la speranza di raggiungere la gloria.
Ai santi Patriarchi poi, che erano all’inferno solo per il peccato originale, infuse la luce della gloria eterna.
Secondo, si può dire che uno è in un dato luogo col proprio essere.
E in questo modo l’anima di Cristo discese solo in quella parte dell’inferno in cui erano detenuti i giusti: poiché volle visitare anche localmente con la sua anima coloro che mediante la grazia visitava interiormente con la sua divinità. Così tuttavia, portandosi in una parte dell’inferno, irradiò in qualche modo la sua azione nell’inferno intero: come soffrendo la sua passione in un solo luogo della terra liberò con essa tutto il mondo” (Somma teologica, III, 52,2).
di Pierluigi Pavone

Così la realtà sta scardinando gli slogan della “Chiesa in uscita”

Cari amici di Duc in altum, vi propongo qui il mio intervento per la rubrica La trave e la pagliuzza di Radio Roma Libera.
***
Un amico mi ha fatto notare che l’attuale situazione, segnata dalla pandemia, ha ribaltato nel giro di poche settimane una lunga serie di proposizioni che la mentalità dominante e la cosiddetta “Chiesa in uscita” (quella che piace tanto alla gente che piace) ripetevano ossessivamente.
Ho preso spunto da questa osservazione per individuare alcuni punti che desidero proporre alla vostra attenzione.
  1. Muri e ponti
Partiamo dallo slogan “ponti non muri”. Ebbene, la pandemia ci ha mostrato che non è vero che i muri vanno sempre abbattuti e che al loro posto occorre costruire ponti. Per difendersi dai contagi, di qualunque tipo, i muri servono, mentre i ponti possono rivelarsi molto pericolosi. Non è saggio contrapporre muri e ponti. Saggio è utilizzarli in modo equilibrato.
  1. Natura Madre
Con la pandemia da coronavirus Madre Natura ha prontamente risposto a chi (anche, purtroppo, nella Santa Romana Chiesa) in base a un superficiale ecologismo, ha preteso di innalzarla al ruolo di divinità sempre benevola e sempre dalla parte dell’uomo. Come ben sappiamo, la natura può essere madre, ma anche matrigna, per niente buona e per niente benevola nei nostri confronti. La natura va rispettata e tutelata, ma farne una divinità è un errore infantile che può diventare fatale.
  1. Altro che Europa!
Quante volte abbiamo sentito ripetere che il mondo oggi, per affrontare efficacemente i problemi, ha bisogno di forti organismi sovranazionali. Perfino i vertici della Chiesa, purtroppo, hanno ripetuto questo mantra. Alla prova dei fatti, però, che cosa stiamo vedendo? Di fronte a uno stato di grave difficoltà, gli organismi internazionali brillano per la loro assenza e producono soltanto parole vuote, mentre sono gli Stati nazionali che, sia pure tra ritardi ed errori, riscoprendo l’importanza della propria sovranità si rimboccano le maniche. Il discorso vale in particolare per l’Europa, incapace di qualunque forma di coordinamento e di aiuto.
  1. Radici cristiane
L’Unione europea, per scelta ideologica, non ha voluto riconoscere le radici cristiane del continente, ma ora, nel momento del bisogno, che cosa vediamo? L’Unione, inefficiente e inutile, balbetta parole senza costrutto, mentre le nazioni, per affrontare una grave situazione di pericolo, mettono in campo risorse tutte ricollegabili alle radici cristiane: solidarietà, altruismo, spirito di sacrificio, rispetto della dignità umana.
  1. Nuovo umanesimo
Da più parti (e, lo dico con sconforto, anche dalla Chiesa) sentivamo dire sempre più spesso che abbiamo bisogno di un “nuovo umanesimo”, formula ambigua, che avrebbe bisogno di essere precisata. Nella mentalità comune stava passando l’idea che l’uomo può salvarsi grazie alla sua autonomia, senza bisogno di ricorrere alla fede religiosa o, al più, ammettendo un dio che osserva dall’alto ma non si fa carne. Adesso però, di fronte al pericolo, che cosa vediamo? Che si riscopre la preghiera, il rapporto con Dio padre, ed è a lui che ci si rivolge, non a qualche concetto astratto. È Dio che salva, è il nostro radicarci in Dio padre e nelle sue leggi. Se l’uomo pretende di fare da sé, si autodistrugge. Lezione, quest’ultima, che vale per tutti, come disse Benedetto XVI quando propose di vivere capovolgendo l’assioma degli illuministi: non etsi Deus non daretur, come se Dio non ci fosse, ma veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse
  1. Sì al proselitismo
Quante volte abbiamo sentito dire dal papa regnante no al proselitismo. Eppure, la realtà dimostra che se l’uomo, quando pretende di fare da sé, va incontro a disastri, significa che il proselitismo non solo è possibile, ma doveroso e necessario da parte dei credenti. Perché quando si riceve un grande dono prezioso lo si vuole trasmettere.
  1. La tecnologia serve, eccome!
Anche sulla scorta del sinodo amazzonico, negli ultimi tempi avevamo assistito a un revival del pensiero anti-tecnologico, segnato da una pregiudiziale idiosincrasia nei confronti dell’intervento umano nel mondo naturale, come se (per tornare a quanto si diceva poco fa) la salvezza sia sempre nel lasciar fare a madre natura. In realtà la vicenda attuale ci sta dimostrando che senza tecnologia non possiamo difenderci. Certo, la tecnologia va governata, ma pretendere di eliminarla o di ridurla fortemente non ci rende più forti: ci rende più vulnerabili e indifesi.
  1. Deus non irridetur! La misericordia di Dio non va svenduta
Dio è misericordioso! Lo sentivamo ripetere ogni giorno, ed è certamente vero. Ma Dio, pur misericordioso, come un vero padre non si lascia prendere in giro dai figli. Deus non irridetur! Dio Padre non può essere ingannato. Le parole di san Paolo ci ricordano che svendere la misericordia divina, senza insistere sulla necessità dell’ammissione dei peccati e della conversione, è un grave peccato contro lo Spirito Santo. Non esiste un dovere di Dio alla misericordia e non esiste un diritto dell’uomo a essere perdonato.
  1. Che me ne faccio di Lutero?
L’ultimo punto riguarda la nostra Madre, la Vergine Maria, e un certo ecumenismo quanto meno superficiale. In base a questo ecumenismo, sembrava quasi che dovessimo imparare qualcosa dal luteranesimo, fino a spingere il papa a tenere un’udienza, in Vaticano, alla presenza di una statua dell’eretico e scismatico Lutero. Ma nel momento del bisogno che cosa fa un popolo cattolico? Guarda forse a Lutero? O limita la sua devozione mariana per non urtare i protestanti? No, il popolo cattolico prega il santo rosario e chiede l’intercessione di Maria! E lo fa vedendo in lei non semplicemente una donna e una discepola, ma la Regina.
Ecco qua, cari amici, alcune lezioni che stiamo apprendendo in questi giorni segnati dalla pandemia. Se ne potrebbero aggiungere altre, ma possono bastare. Sono tutte lezioni che ribaltano totalmente gli slogan della cosiddetta “Chiesa in uscita”, segnata dalla retorica dei ponti, dall’ecologismo, dal mondialismo, dal misericordismo, dall’ecumenismo ideologico e dall’innamoramento per il nuovo umanesimo di matrice massonica.
Buona Pasqua a tutti!
Aldo Maria Valli

Passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo, secondo Sant’Agostino d’Ippona

Il Dottore della Chiesa africano non si limita alla descrizione del senso letterale della Scrittura, ma cerca e trova il senso misterico del Figlio di Dio, della Sapienza, la cui tunica inconsutile è figura della quadruplice direzione della salvezza. Stipes e patibulum della Croce uniscono, in Cristo, naturale e soprannaturale, giustizia e grazia.

Gesù 
Sant’Agostino d’Ippona, Padre e Dottore premedievale della Chiesa, ripercorre ogni fase della passione, morte e risurrezione di nostro Signore nel suo Commento al Vangelo di Giovanni, redatto intorno all’anno 416. Si tratta di una raccolta di omelie, frutto della sua predicazione al popolo, quando era già stato consacrato vescovo dalle mani di Megalio, primate di Numidia.
Sant’Agostino predilige il quarto Vangelo poiché considera san Giovanni apostolo il discepolo più vicino a Gesù Cristo e colui che seppe coglierne l’insegnamento con maggiore profondità. Al Dottore d’Ippona interessa, soprattutto, restituire al popolo l’immagine autentica del Salvatore, perché è convinto che la maggior parte delle eresie siano fondate su un’errata elaborazione della cristologia. L’esegesi agostiniana delle Scritture e del quarto Vangelo, in particolare, è forse un modello di cosa sia la teologia e di come presentare le questioni, per via della semplicità dell’espressione e dell’acume con cui vengono sondati i misteri.
 L’inizio dei dolori
La passione di Gesù comincia a farsi amara al di là del torrente Cedron, nel giardino del Getsemani. Per impedirne l’arresto, Simon Pietro sguaina la spada e colpisce all’orecchio Malco, il servo del sommo sacerdote. Quel lobo d’orecchio tagliato «fa parte dell’uomo vecchio» – dice Agostino – poi suturato dal Maestro, come simbolo di ciò che si ascolta «in novità di spirito e non in vetustà di lettera». Bisogna riporre la spada, perché il Figlio di Dio vuole bere il calice della passione, del quale è anche l’autore. Contro una certa esegesi che tende a giustificare Giuda Iscariota e il suo tradimento, Agostino risponde che il traditore «non è da lodare per l’utilità del suo tradimento, ma da condannare per la sua volontà criminale». S’intende affermare che la provvidenza di Dio si serve anche del male, ma questo non giustifica il malvagio, sempre libero di scegliere tra bene e male.
Non solo Giuda tradisce Gesù, ma pure Simon Pietro lo rinnega apertamente davanti a una serva. Il peccato di Pietro non è meno grave di quello di Giuda: «Se Pietro fosse uscito da questa vita dopo aver rinnegato Cristo, certamente si sarebbe perduto». E il tradimento non consiste solo nel rinnegare il Cristo, ma anche nel nascondersi, come quando qualcuno, pur «essendo cristiano, dice di non esserlo». Pietro, infatti negò di essere tra i discepoli del Maestro.
Dinnanzi a Ponzio Pilato, si consuma uno strano dialogo tra questo funzionario della Giudea procuratoria e il Cristo, che a volte tace e a volte parla. Quando egli «non risponde, tace come pecora; quando risponde, insegna come pastore». Gesù ammette la propria regalità, ma specifica che il suo regno «non è di quaggiù», di questo mondo, nel senso che è «peregrinante nel mondo» – osserva Agostino. O meglio: il regno di Dio «è quaggiù fino alla fine dei secoli, portando mescolata nel suo grembo la zizzania», ma non sarà più di questo mondo «tutto ciò che in Cristo è stato rigenerato». È rigenerato solo colui che «ascolta la sua voce», ovvero chi «obbedisce» a questa sua voce. Non i soli uditori sono rigenerati, ma coloro che odono la Parola e la mettono in pratica.
 Le quattro direzioni della salvezza
In tutta questa vicenda sono riconoscibili colpevoli e innocenti. Secondo il Dottore, Cristo fu messo a morte dai Giudei, con l’aggravante di essersi serviti dei pagani di Roma. E, dunque, «i pagani, in questo delitto, sono meno colpevoli dei Giudei». Questo però non significa che Pilato fosse innocente. Chi ha consegnato il Cristo «lo ha fatto per odio», mentre Pilato agì «per paura». Pilato, tuttavia, «non è innocente per il solo fatto che i Giudei sono più colpevoli di lui». Colpevoli entrambi, seppure sia «più grave uccidere per odio che per paura». Quanto alla motivazione della condanna, che il procuratore fece affiggere sulla croce – “Gesù Nazareno, Re dei Giudei” – va inteso nel senso di «re di tutte le genti», a motivo che il nuovo Israele è composto da tutti i circoncisi nel cuore (i cristiani), «secondo lo spirito e non secondo la lettera».
Solo l’evangelista Giovanni fa trapelare il numero dei soldati che crocifissero Gesù: come l’ebbero crocifisso, «presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una parte per ciascun soldato, e la tunica» (Gv 19, 23). Da qua si evince che la crocifissione fu ad opera di quattro soldati romani, che poi tirarono la sorte sulle parti del vestito e sulla tunica. Agostino svela il senso arcano di tutto l’episodio. La veste divisa in quattro raffigura la Chiesa di Cristo «distribuita in quattro parti, cioè diffusa in tutto il mondo». Il mondo, infatti, si stende su quattro parti: «oriente, occidente, aquilone e mezzogiorno». La tunica no. È la tunica inconsutilis – inconsutile, senza cuciture, la quale non si può dividere. Essa «significa l’unità di tutte le parti, saldate insieme dal vincolo della carità». Da questa unità la Chiesa prende il nome di «cattolica», che in greco significa «universale».
Lo stesso orientamento lo si riscontra nella croce, sviluppata in «larghezza, lunghezza, altezza e profondità» (Ef 3, 18). La croce è «larga» – dice Agostino – in senso spaziale, per via del patibulum orizzontale, sul quale vennero inchiodate le mani del Cristo. Esso è la figura delle «opere buone, compiute nella larghezza della carità». Lo stipes verticale, che ne sostenne i piedi inchiodati, è figura della «perseveranza attraverso la lunghezza del tempo, sino alla fine». Si tratta della santità paziente. Lo stipes, inoltre, ha una sommità e una parte piantata nella terra. La sommità è «alta» e «significa il fine soprannaturale al quale sono ordinate tutte le opere». E questo fine, altissimo, è la gloria di Dio e la salvezza delle anime. La parte inferiore, conficcata in terra, «significa che tutte le nostre buone azioni e tutti i beni scaturiscono dalla profondità della grazia di Dio», occultata alla vista e incomprensibile al giudizio umano.
 L’opera della Ss. Trinità
Il legno della croce è, quindi, una «cattedra» sulla quale è assiso il Maestro «che insegna». Gesù Cristo ha la capacità di manifestare la massima impotenza e, contemporaneamente, la potenza più grande. L’«umanità visibile» del Figlio di Dio «accettava le sofferenze della passione, che la divinità nascosta disponeva in tutti i particolari». Nell’incapacità materiale di gestire alcunché, Egli in realtà gestisce ogni istante di quanto si va consumando. Completamente libero di donare la sua vita, in sacrificio per i peccatori, Gesù se la riprende nella risurrezione, secondo i modi e i tempi stabiliti dalla sua divina provvidenza. E, tuttavia, l’opera della salvezza non è solo opera del Cristo, ma di tutta la Ss. Trinità, per via dell’unione sostanziale delle Persone. Per questo motivo il Cristo dispone della storia, ma anche obbedisce al Padre. E quando entra nel grembo della Vergine, così come a porte chiuse nel luogo in cui sono riuniti gli apostoli, fa quello che fa lo Spirito Santo, che «non è soltanto del Padre, ma anche suo».
Maria Maddalena e gli apostoli non comprendono ancora tutto questo, perché hanno di Dio un’idea tutta umana. Il Gesù risorto allora dice alla Maddalena «non mi toccare»: cioè, non credere in me secondo l’idea che ti sei fatta. Si fa invece toccare da Tommaso, che giunge alla fede ed esclama: «mio Signore e mio Dio»!
 La grandezza dei santi
Se Gesù, prima della morte in croce, tratta spesso della Chiesa militante, dopo la risurrezione – sulla riva del lago di Tiberiade – si manifesta con rinnovata solennità e accenna al mistero della Chiesa trionfante. Prima di chiamare a se i primi apostoli, Gesù fa gettare le reti da pesca, che quasi si rompono per la quantità di pesci raccolti. Agostino spiega che si tratta di un’allegoria: è la Chiesa nella storia, composta di pesci buoni e cattivi, che saranno separati alla fine del mondo, per la salvezza e per la dannazione eterna. In tal modo gli apostoli diventano «pescatori di uomini». Dopo la risurrezione, però, tutto è cambiato. Gli apostoli sono ridiventati semplici pescatori e gettano di nuovo la rete. Ne ottengono centocinquantatre grossi pesci, che la rete contiene senza rompersi. E nel numero è nascosto un grande mistero, che il Dottore d’Ippona riesce appena a cogliere.
Il numero dieci appartiene alla legge, poiché dieci sono i comandamenti di Dio. Il sette appartiene alla grazia: sette i giorni della creazione, settimo il giorno della risurrezione, sette i doni dello Spirito Santo. La salvezza è nella legge e nella grazia, nel dieci aggiunto al sette; nel diciassette. E la somma dei numeri dall’uno al diciassette – osserva Agostino – è proprio l’evangelico centocinquantatre, numero metafisico della totalità di coloro che si salvano. Mentre dunque la Chiesa militante «non riesce a tenere testa all’enorme massa» di coloro che vi entrano e la corrompono «con dei costumi del tutto estranei alla vita dei santi», la Chiesa trionfante degli eletti non rompe le reti della propria essenza e prospera in eterno, nella gloria del paradiso. Non solo, ma di lassù la grandezza dei santi sarà tale che «il più piccolo di loro è maggiore di chi sulla terra è più grande di tutti».

di Silvio Brachetta

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