(s.m.) La foto qui sopra è stata scattata lo scorso 25 marzo, festa dell’Annunciazione del Signore, in una missione del Bangladesh. È un giorno feriale, un mercoledì. A celebrare è un missionario italiano del Pontificio Istituto Missioni Estere, padre Carlo Buzzi, e i fedeli si tengono tra loro a distanza, già vari giorni prima che il governo ordinasse una generale chiusura per arginare il diffondersi del coronavirus.
Perché anche in Bangladesh il contagio è arrivato. Con quale impatto sulla società e in particolare sulla piccola Chiesa cattolica di quel paese e i suoi avamposti di missione?
A raccontarcelo è lo stesso missionario della foto, nel resoconto che segue.
Di padre Carlo Buzzi, in Bangladesh dal 1975, i lettori di Settimo Cielo ricordano due vigorosi interventi “di frontiera” contro la comunione ai divorziati risposati. Era la primavera del 2014, quando i due sinodi sulla famiglia erano ancora da celebrare, ma l’idea era già stata lanciata con grande enfasi, in particolare dal cardinale Walter Kasper nel concistoro del febbraio di quell’anno, su incarico di papa Francesco:
> Sulla comunione ai risposati, una lettera dal Bangladesh
> Comunione ai risposati? Sì, di desiderio
> Comunione ai risposati? Sì, di desiderio
A lui la parola.
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NELLE MANI DI DIO
di padre Carlo Buzzi
Era l’8 marzo, seconda domenica di Quaresima, quando alla fine della messa ho fatto sedere tutti e li ho informati che in Italia, la mia nazione d’origine, c’era molta gente che si ammalava per colpa di un virus arrivato dalla Cina. Le persone muoiono a migliaia. Per ridurre l’infezione il governo ha fatto chiudere tutto: scuole, uffici, trasporti. Addirittura la gente non può neanche più andare a messa. Il morbo colpisce specialmente gli anziani e io sono preoccupato perché i miei fratelli e sorelle sono tra gli 80 e i 90 anni di età. Pregate per loro – ho detto – e pregate anche perché questa malattia non arrivi qui da noi in Bangladesh, altrimenti sarà peggio che ai tempi del vaiolo, quando la gente moriva come le mosche.
La mia missione è in una zona rurale a nord-ovest del paese, lungo il fiume Gange, ai confini con l’India, nel distretto di Sirajganj. La località si chiama Gulta. Questa missione è stata fondata quarant’anni fa. Comprende persone appartenenti a tre tribù: Oraon, Santal, Garo. I cristiani sono quasi 800, sparsi in 8 villaggi nel giro di 80 chilometri. A paragone con altre missioni la mia è piccola, su misura per la mia età che è sopra i 70 anni. Altre missioni hanno anche 6-7000 cristiani sparsi in più di 100 villaggi.
Al centro ho un ostello per ragazzi e uno per ragazze con circa 150 studenti tra la terza elementare e la quinta ginnasio. Più della metà non sono cristiani, ma i loro genitori li mandano qui perché si fidano di noi e apprezzano l’educazione che diamo.
Abbiamo un ambulatorio tenuto da suore, dove arrivano tanti pazienti, specialmente donne musulmane che non gradiscono essere visitare da dottori maschi. Abbiamo una cassa di risparmio cooperativa a cui possono accedere solo i cristiani ed è in continua crescita.
In 25 villaggi, quasi tutti non cristiani, abbiamo aperto delle scuolette che preparano I bambini fino alla terza elementare, per poi mandarli alla scuola pubblica. Senza le scuolette questi bambini avrebbero difficoltà a frequentare le scuole statali perché, in quanto tribali, a casa loro parlano una lingua diversa dal bengalese. Abbiamo campi di coltivazione dove anche gli studenti lavorano sulla base delle loro capacità, arricchendo così la loro formazione, assieme allo studio.
C’è tanta armonia tra chi opera nella missione, ognuno impegnato nel proprio compito. Ma il bello anche qui si è interrotto.
Il 17 aprile, infatti, il governo ha ordinato di chiudere tutto: scuole, istituzioni, uffici, trasporti. Possono viaggiare solo i camion che trasportano i rifornimenti.
Dopo aver dato tutte le istruzioni per difendersi dal contagio, ho quindi dovuto salutare tutti gli studenti che tornavano a casa nei loro villaggi. Chissà quando li rivedrò di nuovo!
Per telefono ho avvertito i maestri delle 25 scuolette che dovevano sospendere l’insegnamento e sempre per web telefonico ho mandato loro lo stipendio del mese di marzo, informandoli che non avrei più potuto dare loro altri soldi per tutto il tempo in cui le scuolette sarebbero rimaste chiuse, in quanto dall’Italia non sarebbero arrivati altri aiuti.
In missione sono rimasti con me tre suore, sette tra ragazzi e ragazze che non hanno la famiglia, il cuoco, il contadino che guarda i campi e un maestro, in tutto 14. Possiamo dire di essere quasi autosufficienti.
Ognuno ha un lavoro ma il lavoro comune di tutti è la preghiera. Il famoso motto che dice “Chi non lavora non mangia “ l’abbiamo cambiato in “Chi non prega non mangia “.
Alle 6.30 preghiera e messa. Alle 11 un’ora di adorazione che finisce con l’Angelus. Alle 18 un’altra ora di adorazione. Alle 20 il rosario.
Tutte le volte che iniziamo una preghiera, suoniamo le campane in modo che anche i cristiani che sono nelle vicinanze si uniscano a noi. È bello perché qui si odono tanti richiami religiosi. Gli hindù usano il corno, i musulmani l’altoparlante, noi cristiani le campane. La nostra campana dell’Angelus è apprezzata da tutti perché dà il segno che è mezzogiorno.
Il virus è entrato in Bangladesh alla metà di marzo. Erano tutti impreparati e tutti avevano la convinzione che qui non sarebbe arrivato. Anche il governo era di questa idea. Non c’era nessun apparato idoneo in nessun ospedale sia statale che privato, compresi quelli di lusso.
Un buon 70 per cento di cliniche private, per non avere fastidi, hanno chiuso i battenti. Gli ospedali governativi delle città capoluogo e alcune cliniche private hanno cominciato a predisporre posti, ma con attrezzature e abbigliamenti completamente inadeguati. Uno dopo l’altro dottori e infermiere si sono ammalati e si stanno ammalando, senza contare quelli che si sono eclissati. Il vero problema sarà questo, fra un po’ di tempo non ci sarà più personale medico sufficiente per assistere i malati. Una divisa completa di protezione che viene dall’estero qui costa 100 euro, che è l’equivalente di metà stipendio di un’infermiera. Quelli del personale medico rimasti in servizio fanno turni anche di 24 ore filate.
Per me è un duro contraccolpo perché tante ragazze le ho indirizzate proprio alla professione di infermiera, perché si facessero una posizione e guadagnassero qualcosa per le loro famiglie, e adesso mi accorgo che le ho mandate ad ammalarsi e qualcuna anche a morire. A quelle che si eclissano il governo annulla il diploma.
È stata imposta la chiusura di tutto e quindi la gente che non può lavorare comincia a vivere di stenti. La Caritas e il vescovo della nostra diocesi di Rajshahi ci hanno fatto fare delle liste dei bisognosi, ma poi per la paura del contagio non hanno ancora preso iniziative concrete. Adesso il picco dei bisogni non è ancora arrivato, ma so che presto verrà il tempo in cui dovrò aiutare specialmente i cristiani, perché il governo li lascia sempre da parte. In previsione della carestia ho fatto una buona scorta di riso, con cui li potrò aiutare.
Con questa pandemia si è creata per noi una situazione senza precedenti. In Bangladesh quasi tutti gli anni succedono disgrazie come alluvioni e cicloni. E sempre ci sono arrivati aiuti dall’estero, da paesi dove la gente era in salvo. Questa volta invece la disgrazia del virus ha colpito anche i paesi che ci aiutavano, e quindi non c’è più nessuno che ci tende la mano.
Intanto, chiusura o no, da fine aprile a metà maggio tanta gente romperà le file per recarsi nei campi a tagliare il riso che è ormai maturo. Quale sarà il risultato? In questa stagione quasi ogni anno arriva il ciclone. Chissà se il Signore quest’anno ci farà lo sconto.
I numeri finora sono questi. A metà marzo i contagiati erano un centinaio, adesso siamo a 6462 contagiati, 139 guariti, 155 morti. Ma queste cifre sono molto al di sotto della realtà, perché tanti malati se ne stanno nascosti preferendo morire a casa propria.
I poliziotti si danno molto da fare per far rispettare la chiusura. Qui però entra in gioco il fattore culturale e religioso. I musulmani non vogliono rinunciare alle loro pratiche di fede. È morto recentemente un grande capo religioso che per loro aveva fama di santità. In piena chiusura si sono radunati per il suo funerale 100 mila fedeli.
I musulmani credono molto alla vita eterna, al paradiso e all’inferno. A loro non importa niente del virus. Sono accorsi in massa a quel funerale perché sanno che partecipando alla funzione di sepoltura di un santo hanno una garanzia in più di raggiungere con lui il paradiso.
Voglio terminare con una mia riflessione. Dio e la Madonna certamente vedono tutto e vedono che gli uomini stanno morendo per questo virus. Noi preghiamo tanto perché abbiamo la certezza che queste preghiere possono ottenere la clemenza del Signore. Alla stessa stregua se noi facciamo opere di male contro i comandamenti divini e naturali dobbiamo credere che siamo noi che ci procuriamo questi dolori e disgrazie. Servirà questo virus ad aprirci gli occhi e la mente?
Settimo Cielo
di Sandro Magister 30 apr
http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/04/30/come-la-piccola-chiesa-del-bangladesh-risponde-al-coronavirus-un-missionario-ci-scrive/
di Sabino Paciolla
L’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, è stato intervistato da Radio Vaticana Italia sul dopo pandemia. L’articolo su Vatican News, a firma di Fabio Colagrande, riporta che, secondo mons. Paglia, “l’unica risposta possibile, guardando al futuro, è quella costruita sulla fraternità e sulla solidarietà, intesi non come valori cristiani, ma fondamenta sulle quali poggia la sopravvivenza dell’umanità. Il presule ne parla nel saggio, appena pubblicato, “Pandemia e fraternità. La forza dei legami umani riapre il futuro”, (Piemme-Molecole). Il testo, a partire da una recente Nota della stessa Accademia, vuole aprire una discussione etica e culturale sul dopo-pandemia e sui criteri di una ripartenza. Concetti centrali sono la ‘globalizzazione della fraternità’ e la diffusione dell’’antivirus della solidarietà’”.
Seguono alcune domande e risposte. Ne prendo però una:
Lei invoca una visione bioetica globale. Cosa significa?
Quando guardiamo alla nostra vita, al nostro mondo, al senso delle nostre giornate, dobbiamo tener conto che siamo legati gli uni agli altri. Ogni nostra singola azione non è mai solo nostra, ma è sempre anche degli altri, nel bene e nel male. Ecco perché tutte le scelte – politiche, economiche, sociali e individuali – se non tengono conto di una visione universale del bene comune o meglio della fraternità, rischiano di provocare solo danni. La fraternità è un termine che io credo debba coinvolgere in maniera radicale tutte le nostre scelte. Una fraternità tra i popoli, all’interno delle realtà associative delle città, la fraternità tra l’uomo e il creato, la fraternità come riscoperta del destino comune di tutti. Attuare una bioetica globale è come recuperare il sogno di Dio all’inizio della creazione. Tutto il creato è la casa comune degli uomini. L’alleanza dell’uomo e della donna deve essere responsabile di tutte le generazioni e deve essere responsabile della custodia di questa casa. Tutto questo è stato trascurato. Uno dei motivi della pandemia è secondo molti la devastazione del clima. Le morti degli anziani nelle Rsa sono una delle conseguenze della devastazione dei rapporti tra le generazioni. Abbiamo allungato la vita, cosa eccellente, ma poi abbiamo depositato in luoghi di ‘fine vita’ coloro ai quali abbiamo fatto questo dono, raddoppiando in qualche modo la crudeltà.
Mi chiedo: ma siamo proprio sicuri che ciò che ci potrà preservare sia una “bioetica globale”?
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