La vicina cittadella di Villabate era salita alla ribalta per il rifiuto del parroco, don Leonardo Ricotta (vedi foto), di distribuire la Comunione con i guanti: gesto sacrilego, aveva denunciato il parroco. La notizia era stata diffusa il 16 maggio. Il 23 maggio, l’ufficio stampa dell’Arcidiocesi ha emesso un comunicato in cui rende noto che il parroco avrebbe dato le dimissioni a partire dal 21 maggio.
https://stampa.arcidiocesi.palermo.it/dimissioni-don-leonardo-ricotta/
Non è vero che il parroco sarebbe stato rimosso dall’Arcivescovo, precisa il comunicato. Cosa che sembra inverosimile. Il sospetto è che il comunicato non dica cose esatte, sospetto che diventa quasi certezza quando si legge il seguito dello stesso comunicato.
Il comunicato non dice una parola sull’uso dei guanti di lattice che deve indossare il celebrante per distribuire la Comunione sulla mano ai fedeli, in base al “protocollo” firmato da Cardinale Bassetti, Presidente della CEI, e dal Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, controfirmato dal Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte.
Dice invece che “la prassi di distribuire la comunione nelle mani è in conformità alle norme emanate dal Magistero della Chiesa”. E dice quindi una cosa inesatta, poiché non c’è un documento del Magistero in merito a tale “prassi”.
Lo stesso comunicato, per giustificare la sua inesattezza, ricorda che l’Istruzione Redemptionis Sacramentum [della Congregazione per il Culto Divino] afferma: “Se un comunicando, … vuole ricevere il sacramento sulla mano, gli sia distribuita la sacra ostia”.
Ma questa non è una “norma” del Magistero, è piuttosto la concessione di una deroga, per lo più condizionata dalla espressa richiesta del fedele; deroga che afferma implicitamente che la “norma” non è distribuire la Comunione sulla mano, ma sulla lingua. Il comunicato si sbaglia, quindi. E a nulla vale che ricordi che un’istruzione della CEI: “ammette la comunione nelle mani”; perché neanche questa è una “norma” del Magistero; sia perché la CEI non fa Magistero, sia perché si dice “ammette”, non “ordina” o “dispone”.
Chi ha scritto il comunicato è alquanto approssimativo.
Il comunicato prosegue, inoltre, facendo una precisazione circa la celebrazione secondo il Messale del 1962. E anche qui è impreciso e approssimativo. Tale celebrazione era stata preferita dal parroco Don Ricotta, perché prevede la distribuzione della Comunione sulla lingua, e senza guanti.
Scrive il comunicato: “celebrare … esclusivamente col Rito Romano … del 1962, escluderebbe dalla partecipazione alla Messa la porzione di popolo di Dio che desidera prendervi parte attivamente secondo la forma ordinaria del Messale di Paolo VI, attualmente in uso”.
Questa affermazione è ancora più imprecisa e confusa.
Innanzi tutto, nel Messale di Paolo VI non vi è un modo speciale di “prendere parte attivamente” alla celebrazione della Messa. Da questo punto di vista, assistere alla Santa Messa celebrata secondo i due riti non muta la partecipazione dei fedeli, neanche per quanto riguarda la distribuzione della Comunione.
Il comunicato, però, sottolinea “prendere parte attivamente”; come se questo fosse possibile solo con l’uso del Messale di Paolo VI. La suggestione non è fondata sulla realtà, ma su un pregiudizio: infatti, né l’uso del latino, né l’orientamento del celebrante, né tampoco la distribuzione della Comunione esclusivamente per mano del celebrante, diminuiscono la partecipazione “attiva” dei fedeli alla celebrazione. Semmai il comunicato sottintende che la “prassi” seguita comunemente nelle celebrazioni odierne è diversa da quella antica; la “prassi”, però, non la “norma“. Non si possono confondere le due cose.
Ne deriva che la precisazione presente nel comunicato: “Personali convincimenti, dunque, presentati da singoli come dottrina autentica, non possono essere imposti ai fedeli”; è una precisazione che riguarda in primis lo stesso estensore del comunicato; il quale, prima di scrivere avrebbe fatto bene a ripassarsi le “norme” relative alla celebrazione della Messa.
Né il richiamo alla potestà del vescovo della diocesi in materia liturgica può chiarire la questione: sia perché qui non si specifica alcuna disposizione emanata dal vescovo, sia perché lo stesso vescovo non potrebbe imporre una qualche pratica sacrilega come l’uso dei guanti di lattice per prendere in mano l’Ostia consacrata.
Quello che viene fuori da questo comunicato è semplicemente un pasticcio, che si vorrebbe far passare per cosa normale e soprattutto esplicativa.
Come dovrebbero regolarsi i fedeli? Non certo risolvendo i pasticci della curia arcivescovile. Piuttosto saranno portati a seguire l’iniziativa chiara e ancorata alla pratica della fede messa in atto dal parroco.
Ma il parroco non è più tale! E allora è meglio che seguano il parroco, comunque, piuttosto che seguire i confusi funzionari di curia e in ultima analisi lo stesso vescovo che li avalla.
di Belvecchio
http://www.unavox.it/ArtDiversi/DIV3585_Belvecchio_Comunicato_approssimativo.html
libera Chiesa in libero Stato
libera Chiesa in libero Stato
La vita cristiana non si ferma.
Don Alberto Secci. Vocogno, 22 Maggio 2020.
https://www.youtube.com/watch?time_continue=271&v=eV7kxwTq4m0&feature=emb_logo
libera Chiesa in libero Stato
libera Chiesa in libero Stato
La vita cristiana non si ferma.
Don Alberto Secci. Vocogno, 22 Maggio 2020.
https://www.youtube.com/watch?time_continue=271&v=eV7kxwTq4m0&feature=emb_logo
Messe? Ci sono “cose più urgenti”, dice il vescovo. Un fedele, addolorato, prende carta e penna e gli scrive.
Dopo le amare considerazioni espresse ieri da un sacerdote sulla nota del vescovo di Pinerolo, mons. Derio Olivero, ecco oggi la lettera piena di dolore che un fedele ha scritto al vescovo. Una lettera che ricevo e volentieri pubblico.
Eccellenza,
in questo tempo in cui ogni notizia giunge come sussurrata dalla porta accanto, sono stato raggiunto dalla Sua nota del 18 maggio, che un amico che vive vicino Monza ha voluto avere la carità di segnalarmi.
Ogni parola ed ogni gesto vengono amplificati, anche oltre il dovuto, ma tant’è.
Leggo, sento di dover partecipare alla Sua umana preoccupazione eppure rimango interdetto.
Oggi (il 21 maggio, ndr) è memoria liturgica di 25 santi martiri, canonizzati da San Giovanni Paolo II esattamente vent’anni or sono. Diedero la vita per testimoniare la primazia di Cristo su ogni altro interesse mondano.
Ritengo non sia casuale tale coincidenza e spero che con il loro patrocinio ci aiutino a meglio comprendere il nostro compito, nella Chiesa e nel mondo.
Il 21 maggio 2000 nella Santa Messa per la canonizzazione dei Martiri, affermava San Giovanni Paolo II:
“Rimanete in me e io in voi… Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla” (Gv 15, 4-5). Nel Vangelo che abbiamo ascoltato, Gesù ci ha esortato a rimanere in Lui, per unire a sé tutti gli uomini. Questo invito esige di portare a termine il nostro impegno battesimale, di vivere nel suo amore, d’ispirarsi alla sua Parola, di alimentarsi con l’Eucaristia, di ricevere il suo perdono e, quand’è necessario, di portare con Lui la croce. La separazione da Dio è la tragedia più grande che l’uomo possa vivere. La linfa che giunge al tralcio lo fa crescere; la grazia che proviene da Cristo ci rende adulti e maturi affinché rechiamo frutti di vita eterna.”
Lei scrive:
“si è acceso un dibattito sulle Messe: aprire o aspettare ancora? In realtà la vita di tutti ci sta dicendo di pensare a cose più urgenti”
Sì, le urgenze materiali sono tante ed anche quelle spirituali, se tra queste annoveriamo anche i riverberi che ne vediamo sugli stati d’animo. Eppure, da cristiano, da cattolico, da uomo provato da tante fatiche, non trovo nulla di più necessario di quanto Cristo mi offre nella Santa Messa: Se stesso.
Varrebbe la pena ricordarlo. Non è mai abbastanza.
“Molti pensano: “Questa parentesi si è aperta ad inizio marzo, si chiuderà e torneremo alla società e alla Chiesa di prima”. – poi precisa: “No. È una bestemmia”. In verità “bestemmia” ha un significato preciso ed accomunare ciò che poi Lei precisa essere “un’ingenuità, una follia” svia l’attenzione, riduce sia l’onore dovuto al Signore che il desiderio, umanissimo, di ritrovarsi in una “terra nota”.
Certamente non è una bestemmia. Probabilmente è la percezione che possiamo riscontrare della Chiesa quale soggetto sociologico, negandoLe la Sua propria realtà soprannaturale, mai disgiunta da quella temporale.
Forse è attraverso questo tempo, come attraverso ogni tempo, è il Signore che ci parla. Forse ci vuol dire che ci siamo allontanati da Lui e non vogliamo tornare. Forse ci rimprovera perché ammantiamo di discorsi farisaici su ambiente, genere, ecc. tanta resistenza a riconoscerLo Signore?
Ho nella mia vita il prezioso ricordo, la memoria di una Chiesa “comunità”, di un Suo insegnamento che ha visto anche la fondata certezza di una società non fondata sull’individuo.
Una società sempre perfettibile, ma che alcuni “plutocrati” (come venivano chiamati un tempo) tenta oggi di dissolvere: delegittimando la famiglia naturale; innalzando i desideri a diritti; manipolando l’uomo e facendone oggetto di consumo; uccidendolo, quando non rispetta i canoni della produzione efficiente.
Rimettere Cristo e la Sua presenza reale al centro della nostra attenzione, non crede sarebbe questo il compito più importante di ogni comunità e di ogni guida?
“le relazioni sono vitali, non secondarie.” -Lei afferma – “Noi siamo le relazioni che costruiamo.” NO, mi consenta, noi siamo creature, il cui essere, la cui esistenza in questo preciso istante, dipende da Dio.
“la “comunità”. Gli altri, “la società” – che Lei richiama – non sono le relazioni che sottendono. Esiste una differenza ontologica tra comunità civile ed ecclesiale che, la mia memoria mi riporta a Paolo VI, è piuttosto una entità etnica sui generis. Obliarlo ci rende tutti più poveri, più soli.
“una società nuova.” che sorga dal volontarismo, dall’idealismo di alcuni illuminati potrebbe tragicamente essere il volto aggiornato di utopie [o distopie] che hanno travagliato anni non lontani?
Lei afferma: “O iniziamo a cambiare la Chiesa in questi mesi o resterà invariata per i prossimi 20 anni.” Ma, noi crediamo che lo Spirito Santo cambia la Chiesa.
L’alternativa, che vedo latente nel suo scritto, è desiderare di avere, di riformare, una Chiesa a nostra immagine, corrispondente ad una nostra idea “morale”, denigrando se non abbandonando quanto ci è stato donato a prezzo del sangue di martiri. Ultimamente, sostituendoci a Dio, potremmo dire: “non voglio più una Chiesa che si limiti a dire cosa dovete fare, cosa dovete credere e cosa dovete celebrare, dimenticando la cura le relazioni all’interno e all’esterno.” Mai la Chiesa è stato questo, mai ha voluto riaffermare il depositum fidei, la propria Fede, la Sacra liturgia “contro”. La Chiesa è consapevole che senza quel depositum, quella Fede, quella Liturgia, ogni relazione ed ogni comunità diviene effimera, perdendo il proprio fondamento, temporale ed eterno.
Solo una Chiesa ricca di questa certezza può accogliere chiunque: anche “quelli che non frequentano o compaiono qualche volta per “far dire una messa”, far celebrare un battesimo o un funerale.”
Ringraziamo, anzi, di questa opportunità d’incontro per mostrare il “di più” che, forse, taluni ancora non vedono. E magari saremo “attraenti” (ammesso che siamo noi ad attrarre e non Cristo stesso) per quanti: “non praticanti, gli agnostici, gli atei, i credenti di altre confessioni e di altre religioni.” possono attraverso noi incontrare Cristo, offrendo loro ciò che noi stessi stimiamo il maggior bene.
“Questo è il vero cristiano.” Come Lei precisa. Non un uomo ammantato di ideali strani o schiavo di una morale perfetta quanto astratta. No, l’uomo che riconosce Cristo testimonia, nelle circostanze e condizioni che la Provvidenza gli dona di vivere, la Sua Signoria. Testimone cioè, con una parola che incute riverenza e timore, martire.
Ecco, io mi ritengo cristiano, e mi sento umiliato dal Suo paragone. Vado a Messa quando posso, quasi sempre la domenica. Perché, come ha ricordato il Card.Bassetti nell’omelia tenuta il 31 dicembre 2017: “Sine Dominico non possumus vivere!” «Per noi credenti significa che, senza riunirci in assemblea la domenica per celebrare l’Eucaristia, ci mancherebbero le forze per affrontare le difficoltà quotidiane e non soccombere. Ma della domenica ha bisogno anche la nostra società secolarizzata; ne ha bisogno la vita di ogni uomo, ne hanno bisogno le famiglie per ritrovare tempi e modalità per l’incontro, ne ha bisogno la qualità delle relazioni tra le persone». E del «lavoro che vogliamo» la domenica «è parte costitutiva: perché, quando manca il lavoro del lunedì, non è mai pienamente domenica; quando manca la domenica, il lavoro non riesce a essere davvero degno per nessuno».
Questo cuore del cuore dell’esperienza cristiana, che è stato centro del XXIV Congresso Eucaristico Nazionale, nel 2005 e suo motto: Sine Dominico non possumus vivere!
L’andare a Messa non mi eleva sopra altri cristiani ma mi consente di riconoscerli fratelli, cristiani perché battezzati.
Solo così potranno esistere: “Non comunità chiuse, ripiegate su se stesse e sulla propria organizzazione, ma comunità aperte, umili, cariche di speranza; comunità che contagiano con propria passione e fiducia.” “una Chiesa che va a tutti” proprio perché va in chiesa, l’unico luogo ove Cristo è realmente, carnalmente, presente.
L’Eucaristia non è mai sprecata, se non quando la si riceve in peccato mortale!
Già in passato vi furono tentativi di trovare strade nuove, chiese al passo dei tempi.
Come scrisse poco più di un anno fa Benedetto XVI: “Forse dovremmo creare un’altra Chiesa perché le cose funzionino? Ebbene, quell’esperimento è già stato fatto e ha già fallito”.
Nel XVI secolo, solo per fare un esempio tra tanti, la Chiesa Anglicana rinnegò Roma, ma prima rinnegò la Santa Messa e la realtà della Presenza Reale di Cristo. Vogliamo riproporre la stessa tragedia? Tragedia non solo per la Fede ma, conseguentemente, per il popolo che ne soffrì e fu martirizzato.
Ecco, Eccellenza, mi scuso per quanto il trasporto mi ha fatto dire e spero non abbia risentimento per questo, ma consideri, come sentimmo dirci, in gioventù: “Cristo è il centro del cosmo e della storia”, realmente Lo è, tanto che può trasformare della finita materia quale il pane ed il vino nel Suo vero Corpo.
Le auguro, Eccellenza, di fare un buon cammino sino a quando comparirà davanti al Signore, Giudice Giusto ed insieme Misericordioso. La esorto – non tralasci di testimoniarLo, opportune et importune; non dubiti e non introduca la tentazione del dubbio in quanti, come me, hanno l’occasione di incoltrarLa.
Con affetto e stima.
Daniele Salanitro
Torino, 21 maggio 2020 – Memoria dei 25 Santi Martiri Messicani
Dopo le amare considerazioni espresse ieri da un sacerdote sulla nota del vescovo di Pinerolo, mons. Derio Olivero, ecco oggi la lettera piena di dolore che un fedele ha scritto al vescovo. Una lettera che ricevo e volentieri pubblico.
Eccellenza,
in questo tempo in cui ogni notizia giunge come sussurrata dalla porta accanto, sono stato raggiunto dalla Sua nota del 18 maggio, che un amico che vive vicino Monza ha voluto avere la carità di segnalarmi.
Ogni parola ed ogni gesto vengono amplificati, anche oltre il dovuto, ma tant’è.
Leggo, sento di dover partecipare alla Sua umana preoccupazione eppure rimango interdetto.
Oggi (il 21 maggio, ndr) è memoria liturgica di 25 santi martiri, canonizzati da San Giovanni Paolo II esattamente vent’anni or sono. Diedero la vita per testimoniare la primazia di Cristo su ogni altro interesse mondano.
Ritengo non sia casuale tale coincidenza e spero che con il loro patrocinio ci aiutino a meglio comprendere il nostro compito, nella Chiesa e nel mondo.
Il 21 maggio 2000 nella Santa Messa per la canonizzazione dei Martiri, affermava San Giovanni Paolo II:
“Rimanete in me e io in voi… Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla” (Gv 15, 4-5). Nel Vangelo che abbiamo ascoltato, Gesù ci ha esortato a rimanere in Lui, per unire a sé tutti gli uomini. Questo invito esige di portare a termine il nostro impegno battesimale, di vivere nel suo amore, d’ispirarsi alla sua Parola, di alimentarsi con l’Eucaristia, di ricevere il suo perdono e, quand’è necessario, di portare con Lui la croce. La separazione da Dio è la tragedia più grande che l’uomo possa vivere. La linfa che giunge al tralcio lo fa crescere; la grazia che proviene da Cristo ci rende adulti e maturi affinché rechiamo frutti di vita eterna.”
Lei scrive:
“si è acceso un dibattito sulle Messe: aprire o aspettare ancora? In realtà la vita di tutti ci sta dicendo di pensare a cose più urgenti”
Sì, le urgenze materiali sono tante ed anche quelle spirituali, se tra queste annoveriamo anche i riverberi che ne vediamo sugli stati d’animo. Eppure, da cristiano, da cattolico, da uomo provato da tante fatiche, non trovo nulla di più necessario di quanto Cristo mi offre nella Santa Messa: Se stesso.
Varrebbe la pena ricordarlo. Non è mai abbastanza.
“Molti pensano: “Questa parentesi si è aperta ad inizio marzo, si chiuderà e torneremo alla società e alla Chiesa di prima”. – poi precisa: “No. È una bestemmia”. In verità “bestemmia” ha un significato preciso ed accomunare ciò che poi Lei precisa essere “un’ingenuità, una follia” svia l’attenzione, riduce sia l’onore dovuto al Signore che il desiderio, umanissimo, di ritrovarsi in una “terra nota”.
Certamente non è una bestemmia. Probabilmente è la percezione che possiamo riscontrare della Chiesa quale soggetto sociologico, negandoLe la Sua propria realtà soprannaturale, mai disgiunta da quella temporale.
Forse è attraverso questo tempo, come attraverso ogni tempo, è il Signore che ci parla. Forse ci vuol dire che ci siamo allontanati da Lui e non vogliamo tornare. Forse ci rimprovera perché ammantiamo di discorsi farisaici su ambiente, genere, ecc. tanta resistenza a riconoscerLo Signore?
Ho nella mia vita il prezioso ricordo, la memoria di una Chiesa “comunità”, di un Suo insegnamento che ha visto anche la fondata certezza di una società non fondata sull’individuo.
Una società sempre perfettibile, ma che alcuni “plutocrati” (come venivano chiamati un tempo) tenta oggi di dissolvere: delegittimando la famiglia naturale; innalzando i desideri a diritti; manipolando l’uomo e facendone oggetto di consumo; uccidendolo, quando non rispetta i canoni della produzione efficiente.
Rimettere Cristo e la Sua presenza reale al centro della nostra attenzione, non crede sarebbe questo il compito più importante di ogni comunità e di ogni guida?
“le relazioni sono vitali, non secondarie.” -Lei afferma – “Noi siamo le relazioni che costruiamo.” NO, mi consenta, noi siamo creature, il cui essere, la cui esistenza in questo preciso istante, dipende da Dio.
“la “comunità”. Gli altri, “la società” – che Lei richiama – non sono le relazioni che sottendono. Esiste una differenza ontologica tra comunità civile ed ecclesiale che, la mia memoria mi riporta a Paolo VI, è piuttosto una entità etnica sui generis. Obliarlo ci rende tutti più poveri, più soli.
“una società nuova.” che sorga dal volontarismo, dall’idealismo di alcuni illuminati potrebbe tragicamente essere il volto aggiornato di utopie [o distopie] che hanno travagliato anni non lontani?
Lei afferma: “O iniziamo a cambiare la Chiesa in questi mesi o resterà invariata per i prossimi 20 anni.” Ma, noi crediamo che lo Spirito Santo cambia la Chiesa.
L’alternativa, che vedo latente nel suo scritto, è desiderare di avere, di riformare, una Chiesa a nostra immagine, corrispondente ad una nostra idea “morale”, denigrando se non abbandonando quanto ci è stato donato a prezzo del sangue di martiri. Ultimamente, sostituendoci a Dio, potremmo dire: “non voglio più una Chiesa che si limiti a dire cosa dovete fare, cosa dovete credere e cosa dovete celebrare, dimenticando la cura le relazioni all’interno e all’esterno.” Mai la Chiesa è stato questo, mai ha voluto riaffermare il depositum fidei, la propria Fede, la Sacra liturgia “contro”. La Chiesa è consapevole che senza quel depositum, quella Fede, quella Liturgia, ogni relazione ed ogni comunità diviene effimera, perdendo il proprio fondamento, temporale ed eterno.
Solo una Chiesa ricca di questa certezza può accogliere chiunque: anche “quelli che non frequentano o compaiono qualche volta per “far dire una messa”, far celebrare un battesimo o un funerale.”
Ringraziamo, anzi, di questa opportunità d’incontro per mostrare il “di più” che, forse, taluni ancora non vedono. E magari saremo “attraenti” (ammesso che siamo noi ad attrarre e non Cristo stesso) per quanti: “non praticanti, gli agnostici, gli atei, i credenti di altre confessioni e di altre religioni.” possono attraverso noi incontrare Cristo, offrendo loro ciò che noi stessi stimiamo il maggior bene.
“Questo è il vero cristiano.” Come Lei precisa. Non un uomo ammantato di ideali strani o schiavo di una morale perfetta quanto astratta. No, l’uomo che riconosce Cristo testimonia, nelle circostanze e condizioni che la Provvidenza gli dona di vivere, la Sua Signoria. Testimone cioè, con una parola che incute riverenza e timore, martire.
Ecco, io mi ritengo cristiano, e mi sento umiliato dal Suo paragone. Vado a Messa quando posso, quasi sempre la domenica. Perché, come ha ricordato il Card.Bassetti nell’omelia tenuta il 31 dicembre 2017: “Sine Dominico non possumus vivere!” «Per noi credenti significa che, senza riunirci in assemblea la domenica per celebrare l’Eucaristia, ci mancherebbero le forze per affrontare le difficoltà quotidiane e non soccombere. Ma della domenica ha bisogno anche la nostra società secolarizzata; ne ha bisogno la vita di ogni uomo, ne hanno bisogno le famiglie per ritrovare tempi e modalità per l’incontro, ne ha bisogno la qualità delle relazioni tra le persone». E del «lavoro che vogliamo» la domenica «è parte costitutiva: perché, quando manca il lavoro del lunedì, non è mai pienamente domenica; quando manca la domenica, il lavoro non riesce a essere davvero degno per nessuno».
Questo cuore del cuore dell’esperienza cristiana, che è stato centro del XXIV Congresso Eucaristico Nazionale, nel 2005 e suo motto: Sine Dominico non possumus vivere!
L’andare a Messa non mi eleva sopra altri cristiani ma mi consente di riconoscerli fratelli, cristiani perché battezzati.
Solo così potranno esistere: “Non comunità chiuse, ripiegate su se stesse e sulla propria organizzazione, ma comunità aperte, umili, cariche di speranza; comunità che contagiano con propria passione e fiducia.” “una Chiesa che va a tutti” proprio perché va in chiesa, l’unico luogo ove Cristo è realmente, carnalmente, presente.
L’Eucaristia non è mai sprecata, se non quando la si riceve in peccato mortale!
Già in passato vi furono tentativi di trovare strade nuove, chiese al passo dei tempi.
Come scrisse poco più di un anno fa Benedetto XVI: “Forse dovremmo creare un’altra Chiesa perché le cose funzionino? Ebbene, quell’esperimento è già stato fatto e ha già fallito”.
Nel XVI secolo, solo per fare un esempio tra tanti, la Chiesa Anglicana rinnegò Roma, ma prima rinnegò la Santa Messa e la realtà della Presenza Reale di Cristo. Vogliamo riproporre la stessa tragedia? Tragedia non solo per la Fede ma, conseguentemente, per il popolo che ne soffrì e fu martirizzato.
Ecco, Eccellenza, mi scuso per quanto il trasporto mi ha fatto dire e spero non abbia risentimento per questo, ma consideri, come sentimmo dirci, in gioventù: “Cristo è il centro del cosmo e della storia”, realmente Lo è, tanto che può trasformare della finita materia quale il pane ed il vino nel Suo vero Corpo.
Le auguro, Eccellenza, di fare un buon cammino sino a quando comparirà davanti al Signore, Giudice Giusto ed insieme Misericordioso. La esorto – non tralasci di testimoniarLo, opportune et importune; non dubiti e non introduca la tentazione del dubbio in quanti, come me, hanno l’occasione di incoltrarLa.
Con affetto e stima.
Daniele Salanitro
Torino, 21 maggio 2020 – Memoria dei 25 Santi Martiri Messicani
Dilettanti al governo, evoluzione totalitaria, irrilevanza pubblica della Chiesa. Intervista all’avv. Gianfranco Amato
Tavolo di Lavoro sul dopo-coronavirus
Dilettanti al governo, evoluzione totalitaria, irrilevanza pubblica della Chiesa
Intervista all’avvocato Gianfranco Amato
di Samuele Cecotti
La crisi sanitaria connessa alla pandemia da COVID-19 ha generato processi economici e politici su scala planetaria tali da delineare un quadro nuovo e preoccupante lasciando già ora intravvedere una fortissima recessione economica globale e gravi indizi di un incipiente totalitarismo post-moderno. Le questioni che una simile crisi di civiltà pone sono molteplici non ultime di carattere giuridico, bioetico e religioso.
Il nostro Osservatorio ha dato vita, a partire dal documento dell’arcivescovo Crepaldi, ad un Tavolo di Lavoro per affrontare cattolicamente la crisi, analizzare i fatti, formulare giudizi e proporre soluzioni alla luce della Dottrina sociale della Chiesa.
Ne abbiamo parlato con l’avvocato Gianfranco Amato, giurista, fondatore e presidente nazionale dei Giuristi per la Vita, intellettuale cattolico attivo su molti fronti dell’apostolato culturale, fondatore e presidente del Movimento popolare Nova Civilitas, uno degli organizzatori del Family Day, componente del Comitato d’Indirizzo della Fondazione Novae Terrae, rappresentante per l’Italia dell’organizzazione internazionale Advocates International, è membro e consulente legale dell’organizzazione britannica CORE Comment on Reproductive Ethics, con sede a Londra, per conto della quale coopera in diverse azioni legali intentate su tematiche bioetiche. Sempre a livello internazionale, collabora, come allied attorney, con l’organizzazione statunitense A.D.F. Alliance Defending Freedom, composta da avvocati che si occupano di temi inerenti alla libertà religiosa ed alla bioetica.
Avvocato, in questi mesi di emergenza sanitaria proclamata dal governo italiano a fine gennaio, abbiamo assistito, in una prima fase, ad una sottovalutazione del problema (ricordiamo tutti gli hashtag #milanononsiferma e #abbracciauncinese con relativi aperitivi sui navigli) da parte degli stessi esponenti di maggioranza per poi, in una seconda fase, precipitare il Paese in una sorta di “arresti domiciliari” universali stabiliti per dpcm. Si conosce ora l’esistenza d’un Piano elaborato al Ministero della Salute già a gennaio ma tenuto segreto … Ci aiuta a trovare una chiave di lettura per un simile procedere del governo italiano? Vede la possibilità per azioni legali contro l’operato del presidente Conte e del governo?
L’unica chiave di lettura possibile è quella che ci offre la drammatica immagine di un governo caratterizzato da un irresponsabile, dissennato, incosciente dilettantismo. Per nostra sfortuna l’emergenza pandemica del Covid-19 è giunta nel momento storico in cui l’Italia ha registrato il livello politico-culturale più basso della propria classe dirigente negli ultimi settant’anni. Non si è mai visto nulla di simile dal dopoguerra ad oggi.
Le sorti del nostro Paese in uno dei momenti più drammatici della sua storia dopo la Seconda Guerra Mondiale sono, infatti, affidate alla cosiddetta “cabina di regia” della crisi pandemica. In cabina troviamo a dirigere un oscuro avvocato di provincia, tale Giuseppe Conte, che ha l’onore di non rappresentare nessuno, non avendo – a quanto risulta – mai ottenuto un voto in vita sua, e che pare non aver mai amministrato nulla prima d’ora, neppure il condominio del palazzo in cui vive. Segue il fido ed onnipresente portavoce ufficiale, Rocco Casalino, che annovera tra i propri titoli quello di aver partecipato al programma televisivo di dubbio gusto noto come “Grande Fratello”. Non proprio un master ad Harvard o ad Oxford. Lo affianca, sempre in cabina, il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che proviene dal mondo dello sport: è stato infatti steward presso lo stadio San Paolo di Napoli. In italiano la definizione è “assistente di stadio”, una professione di tutto rispetto che si estrinseca in varie attività come, ad esempio, il presidio dei varchi di accesso, il filtraggio della tifoseria, la verifica del biglietto, l’accompagnamento al posto assegnato. Nella stessa cabina abbiamo anche un giovane ministro della salute, Roberto Speranza, laureato in Scienze Politiche, che sta alla medicina come un chirurgo sta alla letteratura sanscrita, e che non siamo proprio certi sappia cogliere a colpo d’occhio la differenza tra un batterio e un virus. C’è spazio, infine, per l’ultimo componente della cabina: il responsabile della Protezione Civile, il quale, per meriti di competenza, non poteva che essere un commercialista e revisore dei conti. Stiamo parlando del dott. Angelo Borrelli. Con tutto il rispetto dovuto, a me pare che la competenza del dott. Borrelli in materia di emergenza pandemica sia pari a quella del sottoscritto nel progettare un ponte. Ossia pari a zero. Qualcuno potrebbe obiettare che un Paese non deve necessariamente essere governato da tecnici. Questo è vero, però nel caso eccezionale di una pandemia mondiale forse a gestire l’emergenza sarebbe più opportuno mettere qualcuno che almeno mastichi la materia, o quanto meno che abbia esperienza politica, nel senso aristotelico della πολιτική τέχνη, ovvero della scienza e dell’arte del governare. Il punto è che nessuno dei soggetti attualmente al governo pare avere il benché minimo senso del concetto di “bene comune”. Il rischio è che una politica incapace di governare abdichi completamente, cedendo lo scettro del comando alla scienza. In un momento in cui la stessa scienza, rispetto ad una sconosciuta pandemia, pare brancolare nel buio. L’unica certezza che sanno darci i virologhi sulla questione è che non ci sono certezze. Così la gestione del bene comune viene fondata sulle sabbie mobili.
Più che azioni legali contro il presidente del Consiglio e la sua “cabina di regia”, – per le quali credo sussistano comunque tutti gli estremi – io vedo l’assoluta necessità di togliere il prima possibile dalle mani di questi dubbi personaggi il destino della nostra Patria.
Da giurista come valuta i provvedimenti assunti per gestire la crisi sanitaria limitando pesantemente i diritti fondamentali dei cittadini e determinando quella che è stata da più parti considerata una “sospensione della Costituzione” tramite atto del Presidente del Consiglio dei Ministri? Le risulta che ad oggi sia stata sollevata questione contro i dpcm in oggetto presso il giudice amministrativo e ne sia stata contestata la legittimità costituzionale?
Partiamo dalla premessa che la nostra Carta costituzionale non prevede l’emergenza quale presupposto per derogare allo Stato di diritto e per restringere diritti soggettivi perfetti come quelli di circolazione, di riunione, di associazione, di culto.
Nel nostro ordinamento giuridico le libertà fondamentali godono di una protezione totale attraverso la previsione di una riserva assoluta di legge. Cosa significa? Semplice: solo una legge statale, o un atto avente forza di legge, può limitare tali libertà, e non certo una fonte secondaria governativa, e addirittura monocratica, quale il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Gli italiani, infatti, hanno imparato a conoscere anche questo provvedimento, il D.P.C.M., non molto noto prima della pandemia.
Quali sono gli atti aventi forza di legge che sono stati posti a fondamento delle limitazioni costituzionali che tutti noi stiamo vivendo? Sono due decreti legge, adottati dal Governo rispettivamente il 23 febbraio e il 25 marzo 2020. Questi decreti legge, però, si sono limitati a descrivere solo genericamente i casi di possibile restrizione delle libertà civili, delegando ad un componente del Potere esecutivo, il Presidente del Consiglio dei Ministri, la titolarità di scelta sia del tipo di misura da adottare (i “casi”) sia del grado di intensità (i “modi”). E questo non mi pare possa considerarsi costituzionale. Tra l’altro, l’estrema genericità dei due decreti legge contrasta in maniera evidente con la Legge n. 400/1988, che richiede, per il rispetto dell’art. 77 Cost., l’emanazione di misure di immediata applicazione, con contenuto specifico ed omogeneo. Chiunque comprende che un decreto legge che ha bisogno di un ulteriore provvedimento – i D.P.C.M. di Giuseppe Conte – per la sua attuazione, difficilmente può dirsi fondato su presupposti di straordinaria necessità e urgenza. Lo stesso tempo necessario all’elaborazione della fonte secondaria smentisce all’origine l’indifferibilità della misura.
Quello che non si può ritenere ammissibile è che il governo Conte abbia adottato pesantissime restrizioni a libertà costituzionali di fondamentale importanza come la libertà di circolazione, di riunione, di associazione e di culto, attraverso atti amministrativi (decreti ed ordinanze), in assenza di una puntuale disciplina legislativa e violando il principio di diversificazione delle competenze amministrative.
Non dobbiamo neppure dimenticare, tra l’altro, che solo le leggi (o atti equiparati ad esse come i decreti legge del governo) e non gli atti amministrativi (quali sono i decreti e le ordinanze) sono sottoponibili a giudizio di costituzionalità di fronte alla Corte Costituzionale, unico organo competente a controllare la conformità alle norme e ai principi costituzionali degli atti legislativi, anche sotto il profilo della loro proporzionalità ed adeguatezza. Quindi non si ha neppure la possibilità di sottoporre a controllo e verifica di costituzionalità i provvedimenti amministrativi con cui sono state limitate alcune fondamentali libertà degli italiani. Tutte le restrizioni che ciascuno di noi sta pesantemente subendo sono state assunte sulla base di atti amministrativi, sottratti ad ogni forma di controllo preventivo e successivo, ed adottati dal Potere esecutivo (Presidente del Consiglio, Presidenti delle Regioni, Sindaci) in piena autonomia e senza una verifica da parte del Parlamento né un controllo del Presidente della Repubblica. Mi pare che tutto questo sia sufficiente per generare, dal punto di vista legale e non solo, più di una perplessità.
I D.P.C.M. emessi dal governo Conte in tema di pandemia Covid-19 sono stati impugnati davanti al T.A.R. Lazio dal Centro Studi Livatino. Un’iniziativa encomiabile a cui altre organizzazioni di giuristi, come quella da me presieduta, si stanno aggregando. I Giuristi per la Vita, infatti, hanno deciso di proporre un atto d’intervento ad adjuvandum nel procedimento instaurato a seguito del ricorso del Centro Studi Livatino.
Un segno di unità nella comune battaglia.
Le norme imposte dall’autorità di governo hanno violato molte libertà fondamentali garantite costituzionalmente ma, cosa ancor più grave, hanno violato la libertas Ecclesiae, diritto originario della Chiesa pattiziamente riconosciuto dallo Stato italiano con un Accordo di diritto internazionale, attribuendo ad atti amministrativi il potere di decidere la sospensione delle cerimonie religiose (battesimi, cresime, matrimoni, funerali), di impedire la partecipazione del popolo alle S. Messe, di interdire la visita dei Sacerdoti ai morenti per amministrare loro i Sacramenti, di impedire ai ministri del Culto Cattolico la libera circolazione per l’esercizio del proprio ministero di predicazione e santificazione. Come giudicare, in termini di diritto, una simile violenza inferta al diritto della Chiesa?
Non vi è il minimo dubbio che si sia integrata una palese e gravissima violazione del Concordato. A sostenerlo sono state, tra le tante, anche le voci autorevolissime di due Presidenti emeriti della Corte costituzionale: Cesare Mirabelli e Annibale Marini. Siamo giunti anche al punto surreale in cui lo Stato si è arrogato il diritto di decidere quali celebrazioni si potessero tenere e quali no. Un’aberrazione dal punto di vista giuridico. L’art. 7 della Costituzione è chiarissimo: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». Il punto, semmai, è un altro. Occorre capire se la Chiesa cattolica intende rivendicare la propria indipendenza e sovranità, oppure se intende far cessare gli effetti del Concordato per desuetudine. Certo non aiutano alcuni atteggiamenti ondivaghi. Non è stato uno spettacolo edificante, per esempio, quello dei vescovi della Sardegna che si sono ricordati di rivendicare la propria competenza in materia spirituale quando hanno contestato il Presidente di quella Regione, Christian Solinas, per aver autorizzato con una propria ordinanza la celebrazione delle Messe, mentre sono stati totalmente silenti quando il governo ha deciso di sospendere ogni attività di culto. Un simile atteggiamento da parte dei presuli sardi non può che indurre nei fedeli confusione, disorientamento e sconcerto.
Mi ha colpito l’ottimo intervento in aula del senatore Lucio Malan, cristiano evangelico, a proposito di un ulteriore atteggiamento illegittimo da parte del governo in tema di libertà religiosa. Malan ha evidenziato, infatti, che gli illegittimi D.P.C.M. hanno, in realtà, violato anche l’art. 20 della Costituzione, il quale stabilisce espressamente che «Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative». I summenzionati decreti, infatti, hanno stabilito, per esempio, che quindici persone possano stare nei 40 metri quadrati di un autobus, una persona sola possa, invece, stare nei quaranta metri di un negozio solo se è di un certo tipo (altrimenti neppure una persona), mentre è previsto un massimo di quindici persone, e solo per un funerale, in una chiesa di 100, 200, 300 metri quadri o di 11.000 metri quadri come il Duomo di Milano. Questo modo di procedere non è solamente irragionevole e sproporzionato, ma integra un’evidente discriminazione tra l’attività religiosa e di culto, rispetto ad altre attività. Il senatore Malan ha aggiunto un altro paragone che rende il quadro ancora più assurdo: cinque, dieci o quindici persone in un parco, con i prescritti accorgimenti relativi alle distanze, possono fare ginnastica, ma non possono pregare insieme. Un clima da Repubblica popolare cinese, ha denunciato sempre il senatore Lucio Malan, il quale ha ricordato che la Costituzione dedica almeno cinque articoli alla libertà religiosa, ovvero l’art. 3, l’art. 18, l’art. 19, l’art. 20, l’art. 7 e l’art. 8. Ora, che sia proprio un evangelico a ricordare che esiste l’art.7 della Costituzione sul Concordato tra Chiesa cattolica e Stato, e che proprio un evangelico ne chieda una corretta e piena applicazione, la dice assai lunga sullo stato comatoso di certo cattolicesimo e di una certa parte delle gerarchie ecclesiastiche.
Impressiona la irrilevanza pubblica della Chiesa e del Culto a Dio palesemente manifestatasi nella gestione della crisi. Impressiona uno Stato italiano che equipara le chiese alle discoteche e la S. Messa ad un qualunque spettacolo teatrale. Ma impressiona ancor di più una Chiesa che tace innanzi a ciò. È, secondo lei, il segno della affermazione ormai pienamente avvenuta del secolarismo?
Da una parte abbiamo avuto uno Stato che si è dimenticato del fatto che quello di culto è un diritto costituzionalmente protetto e non comprimibile, mentre non esiste un diritto allo stadio o un diritto al teatro. È inaccettabile culturalmente e inammissibile giuridicamente l’idea che la celebrazione della Messa venga equiparata a qualunque evento di aggregazione sociale, come una lezione scolastica, uno spettacolo artistico o una partita di calcio.
Dall’altra parte abbiamo visto una Chiesa inspiegabilmente remissiva e silenziosa. Penso che questo rappresenti un problema. Una Chiesa che non riesce più a rivendicare in maniera ferma e autorevole le prerogative ed i diritti derivanti dal suo particolarissimo status e che non sa più opporre a Cesare la “Libertas Ecclesiae” è una Chiesa caratterizzata da un altissimo tasso di secolarismo. Ha fatto oggettivamente impressione il cedimento immediato della Chiesa italiana alle disposizioni impartite dal governo, soprattutto nella prima fase dell’epidemia, quando cioè molti esercizi pubblici come bar, pizzerie, pub e ristoranti erano aperti.
Ma una Chiesa che tace rischia di veder realizzata la profezia evangelica delle pietre che parlano (Lc. 19, 40). Non ci si deve, quindi, meravigliare se alcuni personaggi del mondo della politica o dello spettacolo dicono cose che vorremmo sentire in bocca ai Pastori. Sono le pietre che parlano al loro posto.
Mentre molti nostri concittadini morivano nelle terapie intensive e a molti malati erano procrastinate le cure causa emergenza COVID-19, il Servizio Sanitario Nazionale continuava ad erogare il “servizio” dell’Ivg (l’aborto procurato garantito dallo Stato a carico del Servizio Sanitario Nazionale). Neppure la pandemia ha interrotto la strage dei bambini non nati. Anzi abbiamo assistito ad una intensa campagna di propaganda per promuovere l’aborto chimico domiciliare. Solo poche voci dei soliti coraggiosi pro-life si sono levate in difesa della vita. Ci siamo abituati anche alla normalità dell’aborto? Anche noi cattolici?
C’è un che di irrazionale, e quindi di preternaturale, in questo accanimento in favore dell’aborto. Non ha molto senso sottrarre un medico dal suo compito naturale di salvare la vita di un malato di Covid-19, per destinarlo a sopprimere una vita attraverso l’aborto. Non riesco a non vedere una dimensione spirituale dietro tutto ciò. In realtà, l’aborto, più dell’omicidio, è un attacco allo stesso concetto di Creazione e di Incarnazione. In questo senso l’aborto può esser considerato atto diabolico per antonomasia. Disumanizzare l’umanità è da sempre l’obiettivo del Nemico dell’uomo, perché un’umanità disumanizzata finisce per auto-divorarsi.
Del tutto incomprensibile, e quindi preternaturale, è anche il fatto che in Italia quella sull’aborto sia l’unica legge (194/78) che da quarant’anni non sia stata modificata neppure di una virgola. È un vero e proprio totem ideologico intoccabile. E dire che l’ordinamento giuridico italiano è uno dei più volubili al mondo dal punto di vista normativo. Le leggi vengono modificate con una velocità ed una frequenza da record. La Legge 194, invece, sembra scolpita nel marmo. Non è normale. Il punto è che l’opinione pubblica italiana si sta abituando a questa anormalità. La tragedia, però, sta nel mondo cattolico, dove ormai pare del tutto scomparsa l’idea che il Magistero consideri l’aborto un «crimen nefandum» (GS n.51), ossia un delitto abominevole. Oramai si sente sempre più spesso anche tra i cosiddetti praticanti il teorema che fu alla base della sconfitta del referendum: «Io non praticherò mai l’aborto, ma non posso impedire agli altri la libertà di farlo». Come dire, io non posso uccidere ma non posso impedire agli altri la libertà di uccidere. In questo teorema – che pesa come un macigno nella coscienza cattolica del nostro Paese – si nasconde, però, la celebre risposta di Caino: «Num custos fratris mei sum ego?» (Gn 4, 9). Un cristiano non può girare la testa da un’altra parte quando viene sparso il sangue innocente di suo fratello.
L’emergenza sanitaria ha fatto pure emergere pulsioni eutanasiche preoccupanti. L’idea di non curare certe categorie (anziani, handicappati, malati psichiatrici, etc.) è entrata nel dibattito e in molte parti della civile Europa si è fatta legislazione. Come vede la situazione in Italia?
In quella che un tempo si chiamava Cristianità, e oggi viene definita “Europa”, è ormai da decenni che imperversa la cultura della morte. Oggi la pandemia ha avuto il merito di togliere definitivamente la maschera dell’ipocrisia e legittimare pubblicamente la necessità di questo nuovo “darwinismo sociale”.
Nell’opinione pubblica sta sempre più prevalendo la logica dello scarto anche nei confronti degli esseri umani più deboli e fragili, come i disabili, gli anziani, i nascituri difettosi. Sempre più persone si stanno convincendo che, in fondo, è giusto per il bene di tutti eliminare pesi inutili da una società che ha sempre meno risorse da spendere.
Sono anni che denuncio come anche in Italia questa idea stia penetrando nella mentalità comune attraverso il processo della cosiddetta Finestra di Overton. È un vero e proprio piano inclinato che porta inesorabilmente verso l’abisso. Quello che gli inglesi chiamano “slippery slope”. Del resto, se i criteri per riconoscere la dignità di un essere umano non sono oggettivamente ancorati al diritto naturale, essi vengono posti e determinati dal potere attraverso norme di diritto positivo. E il potere è in grado di cambiare questi criteri a seconda della propria convenienza. Può avvenire anche democraticamente, attraverso il gioco delle maggioranze parlamentari. Ma i cristiani, che non riconoscono il principio democratico come assoluto, sanno bene che non può essere la maggioranza parlamentare di un determinato periodo storico a determinare ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è vero e ciò che è falso, ciò che è giusto da ciò che è ingiusto. Quand’anche il parlamento italiano – Dio non voglia – dovesse arrivare ad approvare una legge sull’eutanasia, questa barbara pratica resterebbe comunque un crimen nefandum.
Le misure adottate per gestire l’emergenza sanitaria, non solo violano gravemente libertà fondamentali, ma gettano una luce sinistra sul futuro lasciando immaginare una possibile evoluzione totalitaria della nostra società. Un totalitarismo post-moderno fatto di app per il tracciamento, telecamere per il riconoscimento facciale, microchip sottocutanei con tutti i nostri dati personali, abolizione del contante, tracciamento di ogni nostro acquisto, geolocalizzazione di ogni nostro movimento. La fine della privacy e della libertà a favore di un complesso sistema centralizzato di gestione della collettività. Quanto siamo vicini a questo rischio? Cosa fare come cattolici per scongiurarlo?
Mi pare si stia concretamente profilando uno scenario che ricorda i romanzi di fantascienza distopica della metà del secolo scorso. Ascoltando alcune proposte che vengono seriamente prospettate, anche a livello istituzionale, sembra di rivivere davvero le pagine di George Orwell, di Aldous Huxley, di Isaac Asimov. Mi pare, in particolare, che sia proprio la deriva totalitaria tecnico-scientifica paventata da Huxley nel suo Mondo Nuovo, quella più vicina al rischio che stiamo correndo. Del resto, fu proprio quello scrittore inglese a paventare il fatto che il Potere nel futuro non si sarebbe più basato sulla violenza dei campi di concentramento ma su controllo tecnico-scientifico degli individui, spacciato come utile progresso per il bene dell’umanità, al punto da venire accettato da tutti. Il mondo, secondo Huxley, si sarebbe così trasformato in un gigantesco campo di prigionia dove, però, i prigionieri non avrebbero voluto evadere semplicemente perché ignari del fatto di essere prigionieri. Lo ha spiegato bene nella sua ultima conferenza tenuta il 20 marzo 1962 presso l’Università della California, Berkeley, intitolata La rivoluzione definitiva. In quell’occasione, infatti, affermò: «Penso che nella misura in cui le dittature diventeranno più scientifiche, più preoccupate della perfezione tecnica, del funzionamento perfetto della società, saranno sempre più interessate alle tecniche che io ho immaginato e descritto come realtà esistenti nel Nuovo Mondo. Mi pare, quindi, che la rivoluzione definitiva non sia poi così lontana, visto che già oggi esiste un notevole numero di questo tipo di tecniche di controllo degli esseri umani. Resta solo da vedere quando, dove e da chi saranno applicate per la prima volta su grande scala». Questo Huxley lo diceva sessant’anni fa. Oggi noi sappiamo perfettamente dove e chi vuole applicare quelle tecniche su grande scala.
Il Signore della storia è il Risorto, Cristo ha già vinto! Con questa fede noi possiamo guardare ad ogni momentanea parentesi anticristica della storia senza disperazione e anzi trovando la ragione per non desistere dalla buona battaglia. Anche in questi tempi bui non mancano segni di speranza: famiglie che si costituiscono e vivono secondo il Vangelo, cattolici militanti che spendono la propria vita per testimoniare pubblicamente la Verità, piccole comunità che si organizzano per vivere cristianamente in un mondo post-cristiano, il numero sempre crescente di scuole parentali cattoliche, giovani mamme che scelgono d’esser casalinghe per amore del marito e dei figli e si dedicano all’homeschooling, ecc… Volendo pensare a una “resistenza cattolica” allo strisciante totalitarismo post-moderno come la immagina?
Bisogna ipotizzare tre scenari.
Il primo è quello di un vero e proprio cataclisma a livello economico, politico e sociale. È il più apocalittico dei tre e richiamerebbe quello che è accaduto alla fine dell’impero romano, quando una civiltà oramai in pieno declino e al culmine della parabola discendente è implosa sotto il peso di una gravissima e irreversibile crisi economica, politica e sociale. In questo caso i cristiani, esattamente come nel VI secolo dopo Cristo, dovrebbero ricostituirsi come piccole comunità di famiglie attorno a centri di spiritualità. Allora furono i monasteri, grazie alla grande intuizione di San Benedetto da Norcia, nel nostro secolo potrebbero essere singoli sacerdoti, santuari, comunità religiose, movimenti laicali e ogni altro luogo dove poter vivere la fede come vera esperienza di vita. Più o meno ciò che Rod Dreher delinea nella sua opera Opzione Benedetto.
Il secondo scenario, invece, è quello dell’instaurazione di una vera e propria dittatura violentemente anticristiana. In questo caso la reazione dovrebbe essere quella del ricorso all’uso legittimo dell’insurrezione. Più o meno come è accaduto in Messico con la cosiddetta “Guerra Cristera” o in Spagna con l’intervento provvidenziale di Francisco Franco che ha liberato la penisola iberica dalla persecuzione anarco-comunista contro i cristiani, salvando la presenza della Chiesa cattolica in quella nazione. In questo periodo di confinamento forzato mi è capitato di rileggere l’interessante documento
Firmissimam constantiam, con cui Pio XI, il 28 marzo 1937, interveniva sulla situazione della Chiesa cattolica in Messico perseguitata dallo spietato governo massonico di Plutarco Elías Calles. In quel testo, il pontefice intervenne, infatti, a favore della liceità della lotta dei cittadini cattolici messicani contro il «potere pubblico», che «ponendosi contro la giustizia e la verità, era giunto al punto di distruggere le fondamenta stesse dell’autorità». È interessante come, peraltro, una successiva indicazione in tal senso sia poi giunta a distanza di quarant’anni, il 26 marzo 1967, con l’enciclica di Paolo VI Populorum progressio, in cui quel pontefice legittimò l’insurrezione armata dei cattolici contro «una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del Paese» (P.P. n.31). Una dittatura che arrivasse a chiudere le chiese e perseguitare i cristiani, come accadde in Messico e in Spagna negli anni ’30, autorizzerebbe, quindi, l’uso legittimo della forza per abbattere la tirannia.
Il terzo scenario, forse il più probabile, è quello di una dittatura tecnologica, quella che Aldous Huxley definì “senza lacrime”, basata su un controllo ed una manipolazione orwelliana degli individui. Una dittatura solo apparentemente più morbida delle dittature classiche ma in realtà molto più pericolosa, perché non si accontenterebbe di sottrarci la vita ma pretenderebbe di cambiare le nostre coscienze per sottrarci un bene ancora più prezioso: l’anima. In questo caso mi pare che la reazione dei cristiani dovrebbe essere quella mirabilmente descritta dal celebre dissidente ceco Vacláv Havel nella sua opera Il potere dei senza potere. Havel in Cecoslovacchia sconfisse l’Impero del Male della sua epoca, l’Unione sovietica comunista, senza lo spargimento di una goccia di sangue. Fu lui, infatti, il padre di quella che venne poi definitiva la “Rivoluzione di velluto”. Ci riuscì semplicemente continuando ad opporre la verità alla menzogna. Noi sappiamo che la menzogna può vincere qualche battaglia. A volte può anche sembrare che le stia vincendo tutte, e per molti anni. Ma non potrà mai vincere la guerra contro la verità.
In questo scenario, l’atteggiamento dei cristiani dovrebbe essere quello delineato da un altro dissidente cattolico amico di Havel e che portava il suo stesso nome: Václav Benda. Fu lui a coniare il concetto che ritengo molto interessante di “polis parallela”. Prima di spiegare di cosa si tratta, faccio una piccola premessa sui tre livelli in cui dovrebbe articolarsi la “resistenza cattolica”. Il primo livello è quello esistenziale dell’individuo, quella sfera segreta della persona fatta di ideali, valori e principi a partire dalla fede cristiana. Per cambiare il mondo occorre prima cambiare se stessi. C’è poi un secondo livello che definirei “prepolitico”, in cui la persona si manifesta attraverso i suoi comportamenti, la sua professionalità, la sua testimonianza, il suo coraggio di opporre la verità alla menzogna. Vi è, infine un terzo livello che possiamo, invece, definire “politico” in cui si instaura una vita indipendente da un sistema di potere che non rappresenta più il popolo. Questa vita indipendente si realizza attraverso vere e proprie strutture alternative, ossia la “polis parallela” di Benda. Sono strutture di livello organizzativo-istituzionale come ad esempio l’informazione parallela, l’economia parallela, l’istruzione parallela. Una sorta di società nella società, che richiama in qualche modo l’idea della Civitas Dei di Agostino: una città che vive dentro la città degli uomini e non si identifica con la città degli uomini.
A me pare che quello della “polis parallela” di Václav Benda sia il modello cui guardare e studiare per un’efficace “resistenza cattolica” contro il totalitarismo post-moderno che si profila all’orizzonte.
Grazie!
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